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“Con il cancro ho imparato a lottare e a conviverci”

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di Piero Murineddu

Ah, il sempre caro ricordo di David Maria, che babbo Giovanbattista e mamma Anna fecero registrare all’ anagrafe col nome di Giuseppe! Mai mi stancherò di sentire per lui Gratitudine per l’esempio di Coraggiosa Libertà avuta sempre e grande Dignità di vero Uomo di fede dimostrata davanti all’imminenza della morte. Persona perennemente inquieta e forse proprio per questo fedelissima all’Insegnamento del Maestro.

Per capire meglio il suo pensiero sul dolore e la malattia, e insieme trarre forza per vivere con spirito di fiducioso abbandono il momento del Passaggio che attende ciascuno, riporto l’intervista fatta a David Maria un anno prima della sua morte da Roberto Vinco, prete attualmente docente di filosofia a Verona e collaboratore parrocchiale nella frazione di Novaglie, a pochi chilometri dalla città veneta. Nel suo sito personale ho trovato anche una lunga riflessione che don Roberto fa proprio a partire da quella lontana intervista del 1991. A seguire riporto anche questa, certo che chi avrà la pazienza di leggerla integralmente, la conserverà con cura per ritornarci successivamente e credo anche più volte.

Per completare la pagina in memoria oggi della morte del carissimo David Maria, considerato da me e da tantissimi altri profondamente Fratello, ho pensato di riportare due video e un audio: nel primo video il suo “Aiutiamoci a sperare” pronunciato dal suo letto di sofferenza; nel secondo mentre passeggiando nel cimitero del paesino dove viveva, pronuncia parole di elevata preziosità quali sono state sempre le sue; nel terzo audio, la vita di Turoldo raccontata egregiamente da Brunetto Salvarani e arricchita di tanto in tanto dalla stessa voce del frate servita.

Quanto riportato nell’ immagine sotto l’ho sentito pronunciare dallo stesso don Roberto in un breve video presente sulla Rete. Ecco, se la sua visione di Chiesa è questa, come faccio a non andarlo a conoscere di persona quando mi troverò a stare qualche giorno con mio figlio Giuseppe e la sua nuova famiglia che abitano a un’ oretta di macchina dal paesello veneto di Novaglie, dove il prete se la vive, sicuramente tentando di concretizzare questo suo e nostro sogno?

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“Con il cancro ho imparato a lottare e a conviverci”

di Roberto Vinco 

Gli avevano dato non più di sei mesi di vita. Lo avevano operato ad un tumore all’intestino. Dal punto di vista medico non c’era nessuna speranza.

Dopo ben tre operazioni, il corpo smagrito, visibilmente stremato dalla malattia, non ha ancora perso il suo vigore e la sua straordinaria forza e carica umana. Ha vissuto sempre “fuori delle mura”, sempre in diaspora, sempre in cammino. La vita di Turoldo è insieme un canto e un pianto. Il canto di chi crede e il pianto di chi soffre.

A Verona padre David ha molti amici. Come monaco servita è stato ospite per alcuni mesi della comunità dei Servi di Maria della chiesa cittadina di Santa Maria della Scala. Proprio con un gruppo di amici veronesi siamo andati a trovarlo nella sua meravigliosa abbazia di Sant’Egidio a Sotto il Monte in provincia di Bergamo. É visibilmente stanco, ma quando incontra gli amici, quasi si ricarica, recupera tutte le sue antiche forze, ritrova tutto il suo profondo spirito profetico. Della sua malattia parla con serenità. Il suo tumore lo chiama «Il drago che si è insediato nel ventre»

«La mia malattia – ci dice – è un’esperienza consapevole, giocata a carte scoperte. Alle pietose menzogne dei medici ho preferito la verità. In un primo momento è tremendo, è crudele. Ma accettare il cancro è già metterlo a disagio, sfidarlo».

Da tre anni sfida con il canto e la poesia anche la morte, accettata con serenità come l’altra faccia della vita.

«Per me la morte è sempre stata come una fessura attraverso cui guardare i colori della vita, apprezzarne i valori. La morte è una presenza positiva, fa apprezzare meglio il tempo, fa giudicare meglio le cose. Ogni mattina dico, se questo è il mio ultimo giorno non posso perderlo. Vivo ogni giorno, non come fosse l’ultimo, ma il primo. Penso che non ci sia nemmeno un di qua e un di là, ma semplicemente un prima e un dopo. Una continuità. Questo certamente è il senso misterioso della nostra fede, ma non è assolutamente un discorso che si fa soltanto per chi ha fede. Il discorso sulla continuità della vita, si può farlo anche con chi non crede, con chi non ha fede. Non è un discorso consolatorio, ma di constatazione. Io posso anche dire «non so come sarà dopo», ma nessuno mi può dire che non ci sia».

Il tema di tutta la sua poesia è Dio. Un Dio che non è ricerca astratta, ma ricerca che si coniuga con la vita, con la realtà umana di tutti i giorni. Un Dio che non ti dà sicurezze e certezze, ma la speranza di guardare sempre avanti con coraggio. Un Dio che non è lì per controllarti e punirti, ma un Dio che ti è vicino, ti capisce, ti ascolta, ti ama.

– Ma come si può conciliare questo Dio con la sofferenza, con la malattia?

«Io penso che il dolore, la malattia, la morte, non siano soltanto il dramma dell’uomo, ma anche il dramma di Dio».

– In che senso?

«Nel senso che il limite di Dio è la libertà dell’uomo. Mi spiego. Dio ha un amore tale per l’uomo, per la sua creatura, che non può non lasciarla libera. Se accettiamo un Dio che vuole che l’ordine della creazione e della storia abbiano una loro valenza autonoma; se Dio vuole che gli uomini siano liberi: liberi di usare e di abusare, liberi di fare il bene o di fare il male, Dio, per primo, deve rispettare questa autonomia e questa libertà. Perciò se tu vuoi che per ogni caso Dio intervenga, tu annulli quello che si chiama il gioco delle cause seconde, gli spazi per la libertà umana».

– Ma allora, secondo questa logica, a Dio non si può nemmeno chiedere la guarigione.

«Io non penso che sia giusto pregare perché Dio mi guarisca. Proprio perché è impossibile che Dio abbia a che fare con la mia malattia. É impensabile che il Dio di Gesù Cristo voglia il cancro. Se fosse stato veramente Dio a mandarmi il tumore, come potrei curarmi? Dovrei andare contro la volontà di Dio».

– Allora sbagliano quelli che pregano perché Dio li guarisca?

«Li posso capire, ma solo a livello umano. Lo posso ammettere come sfogo necessario, come rimedio all’angoscia. É stata anche per me una scoperta di questi anni di malattia, una scoperta terribile, ma consolante».

– E nei momenti di sconforto, di disperazione, quando si rivolge a Dio, cosa gli dice, cosa gli chiede?

«Io non prego perché Dio intervenga. Chiedo la forza di capire, di accettare, di sperare. Io prego perché Dio mi dia la forza di sopportare il dolore e di far fronte anche alla morte con la stessa forza di Cristo. Io non prego perché cambi Dio, io prego per caricarmi di Dio e possibilmente cambiare io stesso, cioè noi, tutti insieme, le cose. Infatti se, diversamente, Dio dovesse intervenire, perché dovrebbe intervenire solo per me, guarire solo me, e non guarire il bambino handicappato, il fratello che magari è in uno stato di sofferenza e di disperazione peggiore del mio? Perché Dio dovrebbe fare queste preferenze? Perché dire: Dio mi ha voluto bene, il cancro non ha colpito me ma il mio vicino! E allora: era un Dio che non voleva bene al mio vicino? E se Dio intervenisse per tutti e sempre, non sarebbe un por fine al libero gioco delle forze e dell’ordine della creazione? Per questo per me Dio non è mai colpevole. Egli non può e non deve intervenire. Diversamente, se potendo non intervenisse, sarebbe un Dio che si diverte davanti a troppe sofferenze incredibili e inammissibili. Ecco perché, come dicevo prima, il dramma della malattia, della sofferenza e della morte è anche il dramma di Dio».

– Di fronte al dolore quindi, anche per un credente, ci può essere solo rassegnazione?

«Non rassegnazione, ma pazienza, che è tutt’altra cosa. Per il credente l’unica risposta al dolore e alla morte è la resurrezione di Cristo. La sua resurrezione infatti è la vendetta di Dio sul male del mondo. Quindi la risposta migliore è sempre quella di Cristo, che alla fine dice: «Padre, nelle tue meni rimetto il mio spirito». Una risposta però da non dire solo alla fine, ma dirla sempre; e forse così si riuscirà ad essere perfino “beati nel pianto”».

– Spesso ci si trova di fronte ad amici colpiti da qualche malattia grave o dalla morte di qualche persona cara. Cosa si può dire in questi casi?

«Ci sono dolori per cui non esistono parole in nessun dizionario. Dolori e angosce davanti alle quali la risposta migliore è il silenzio. Di fronte a certe tragedie, a certe sofferenze non servono né filosofie, né prediche. .E il rimedio migliore, dico rimedio, non risposta, sarà semplicemente la tua partecipazione di amico, la tua presenza amorosa, il tuo «essere con» la persona sofferente, l’ammalato. La migliore risposta pratica quindi è «l’essere con», è il silenzio, l’accettazione per quanto possibile. Anche se questo non deve significare rinuncia a lottare, a cercare ogni sforzo per guarire. L’importante è non darsi mai per vinti e ricominciare ogni volta da capo».

 

“Se vuoi essere un vero prete, prima devi diventare un vero uomo”

di Roberto Vinco

 Mi sembra importante partire spiegando come è nata l’intervista che ho fatto a padre David Maria Turoldo pochi mesi prima della sua morte. Intanto dico subito che ho avuto la fortuna di incontrarlo e di ascoltarlo parecchie volte. Tra i tanti incontri ne ricordo soprattutto due. Il primo, nel 1971. Ero prete da alcuni mesi. In un incontro casuale a Sotto il monte mi ha detto testualmente:

“Ricordati che se vuoi essere un vero prete, prima devi diventare un vero uomo”.

È una frase che mi ha accompagnato in tutti i miei anni di prete e che mi porto ancora oggi sempre dentro.

Il secondo incontro invece è stato nell’estate del 1991.Turoldo era ammalato ormai da qualche anno. Era stato operato per un tumore allo stomaco. Con un gruppo di amici, guidati da don Luigi Adami, siamo andati a trovarlo a Fontanelle.
Abbiamo trascorso una giornata con lui.
Anche se un po’ segnato dalla malattia tuttavia era in giornata di vena. Aveva recuperato pienamente il suo vocione e la sua forza interiore. Abbiamo parlato di molte cose.

Mi ha colpito il fatto che, anche se noi non abbiamo mai accennato alla sua malattia, se non in modo indiretto, con il solito “come stai?”, tuttavia lui continuamente faceva riferimento al suo essere “malato”. Sembrava quasi che avesse voglia di condividere con altri quel suo dramma che stava vivendo.

Padre David ci ha raccontato il suo primo impatto con il tumore, con il “drago” come lui lo chiamava. Quando si era accorto che i medici non gli dicevano la verità è andato a parlare direttamente con il primario che lo aveva operato ed ha preteso di sapere tutto per guardare in faccia anche la malattia:

– ci ha raccontato il suo approccio con la morte;

– il suo vivere da malato;

– il suo pregare da malato;

– le sue crisi da malato;

– il suo pensare Dio da malato;

– la sua lotta con la malattia.

 

Ovviamente non era una conferenza, un discorso ben articolato, ma una chiacchierata tra amici, molto informale, senza alcun schema, proprio all’insegna della spontaneità.Alcune sue espressioni mi avevano molto colpito.

Tornato a casa mi sono fatto alcuni appunti,
poi ho pensato di riordinarli sotto forma di intervista e gli ho spedito il tutto per posta.
Dopo qualche giorno mi ha telefonato, mi ha fatto qualche correzione ed ha aggiunto delle osservazioni ad alcune risposte. L’intervista è stata pubblicata il 1 novembre 1991 sul quotidiano “il Gazzettino” che allora aveva come inserto, “Il nuovo Veronese”, alcune pagine sulla nostra città. Tre mesi dopo è morto.

Sono trascorsi tanti anni, ma le sue parole profetiche sono ancora di grande attualità.

Partendo proprio dalle “risposte-riflessioni-provocazioni” della intervista a David Maria Turoldo vorrei offrire alcune riflessioni maturate in questi anni.

Penso che di fronte alla malattia, alla sofferenza e alla morte ognuno di noi si pone innumerevoli domande. Abbiamo tutti una lunga fila di perché. Vorremmo tutti almeno trovare qualche risposta, ma rimaniamo sempre con la bocca amara. La parola di un “profeta” come padre David, ci aiuta a pensare, a riflettere, a vivere.

Non ho la pretesa di dare delle soluzioni,
ma vorrei semplicemente tentare di offrire dei percorsi di ricerca, di “inventare dei cammini di senso”.

Per parlare della malattia e della sofferenza occorre sempre molto pudore.Dire una parola su questi interrogativi umani è sempre una sfida. La tentazione è di fare silenzio e di “rimandare”, non affrontare il problema. Ma tra il “non dire nulla” e l’arroganza di chi pretende di avere “risposte certe e definitive” , c’è sempre lo spazio per “osare la parola”. Una parola che nasce sempre dal silenzio e dalla meditazione.
Una parola che si inserisce nella inesauribile ricerca per l’umanizzazione dell’uomo.

Nel tentare di parlare della malattia bisogna anche tener presente un aspetto molto importante. Occorre evitare il pericolo di parlare di malattia e di sofferenza in astratto. Nella vita non incontriamo la sofferenza astratta, ma donne e uomini che soffrono. La malattia o la sperimentiamo direttamente sulla nostra pelle o la vediamo nel volto e nel corpo delle persone che ci stanno accanto e che incontriamo nella nostra vita. Non esiste la malattia, ma la persona malata. Non ho a che fare con la sofferenza, ma con chi soffre. Il problema non è la morte, ma colui che muore.

Nel raccontarci il suo primo impatto con la malattia, Turoldo ha sottolineato un aspetto che mi ha molto colpito: “Alle pietose menzogne dei medici, ho preferito la verità. Con il cancro ho imparato a lottare e a convivere”. La reazione di Turoldo di fronte alla malattia è molto diversa dall’atteggiamento che vediamo tra la gente di oggi nella vita di tutti i giorni. Oggi respiriamo tutti una cultura che cerca di esorcizzare la malattia, la morte, la sofferenza. Della morte non se ne parla. Il malato lo releghiamo all’ospedale. Alla sofferenza meglio non pensare.

Se da una parte si cerca di rimuovere ogni discorso sulla morte, dall’altra la morte è diventata uno spettacolo. Attraverso la televisione la morte entra nelle nostre case e viene trasformata in uno spettacolo per soddisfare la curiosità morbosa della gente. In questo clima, spesso di fronte alla malattia ci si sente soli, incapaci di affrontarla e di gestirla. Non sappiamo più né accettare né ascoltare la sofferenza che è in noi. Nessuno ha più il tempo, la voglia, la pazienza di fermarsi accanto ad una persona che soffre, una persona sola, chi sta vivendo un momento di sconforto o di depressione. Eppure tutti siamo coscienti ed abbiamo sperimentato che l’uomo è anche homo patiens. Il dolore ci segna tutti. È una esperienza di tutti.Una esperienza che può distruggerci, ma che può anche aprirci all’umano.

La malattia ti costringe a prendere coscienza di quello che sei, fragile, limitato. Non sei onnipotente. Il malato vive una situazione di debolezza radicale. Non solo a livello fisico, ma anche interiore, psichico, affettivo. Nella malattia vanno in crisi tutte le relazioni: con se stessi, con gli altri, con le cose, con Dio.

Spesso si cade nell’errore di vivere la vita come una “proprietà”. La malattia ti fa prendere coscienza che la salute non è una cosa ovvia, non è in mio potere. Quindi la malattia può diventare anche possibilità di ritrovamento della verità dell’esistenza. Il primo processo importante che ti chiede la malattia è quello di incominciare ad imparare ad accettare il tuo limite, la tua impotenza, la tua debolezza.

L’intervista a Turoldo non è nata con una serie di domande già preparate e delle risposte. E’ stata una chiacchierata tra amici. Mentre Turoldo ci raccontava l’esperienza della sua malattia, pensavo alla mia esperienza di prete accanto ai malati. Mi sono sempre sentito molto in difficoltà al riguardo. Quando mi trovo di fronte ad un malato terminale, quando sono accanto a qualcuno al quale è morta una persona cara, non so mai cosa dire.

Ho chiesto a Turoldo se poteva suggerirmi qualche consiglio.Guardandomi intensamente, dopo qualche istante di silenzio, con quella sua stupenda voce
baritonale mi disse:

Fai silenzio! Le parole non servono. L’unica cosa importante è…esserci!”

La malattia può diventare luogo di incontro e di relazioni.Il malato è una persona che ha bisogno degli altri.Chi sta soffrendo è sempre in una condizione di debolezza e di inferiorità.Dipende in tutto dagli altri. Stare accanto al malato, visitare il malato, richiede sempre una grande delicatezza umana ed una profonda sensibilità.

Il problema NON È SE VISITARE il malato o no.Il vero problema È COME VISITARE il malato.Visitare vuol dire INCONTRARE, incontrare vuol dire ASCOLTARE, ascoltare vuol dire lasciare che l’altro possa ESSERE PIENAMENTE SE STESSO, anche nel suo lamento, nella sua ribellione. Vuol dire lasciarsi guidare anche dal suo silenzio. Ascoltare vuol dire ACCOGLIERLO, vuol dire FARGLI SPAZIO, vuol dire ENTRARE IN EMPATIA, LASCIARSI COINVOLGERE dalla sua situazione, METTERSI DALLA SUA PARTE, ascoltare veramente vuol dire APRIRSI E FARSI CARICO della sofferenza dell’altro.Talvolta più che con le parole bisogna IMPARARE A PARLARE CON LO SGUARDO. Certi sguardi sono molto più eloquenti di tanti discorsi.

C’è un altro aspetto che la malattia mette profondamente in crisi.È il mio rapporto con Dio.Se c’è una cosa in più che il cristiano ha nella malattia è la propria crisi di fede. Di fronte alla malattia anche la mia fede in Dio è messa duramente alla prova.

Quante domande per chi crede:

– perché Dio permette tanta sofferenza?

– Perché ha mandato proprio a me la malattia?

– Perché la sofferenza di tanti innocenti?

La domanda: “perché il male?”, accompagna tutta la storia dell’uomo e della filosofia.  (…)

È importante sottolineare che la Bibbia racconta il male, lo descrive, ma non ne spiega l’origine. Anche la tradizione cristiana non dà alcuna risposta sull’origine del male. Il male resta un mistero. È proprio su questo rapporto tra Dio e la malattia che alcune osservazioni di Turoldo mi hanno fatto pensare.

Diceva:

“È impensabile che Dio voglia il cancro. È impossibile che Dio abbia a che fare con la mia malattia. Se è lui che me lo ha mandato, non posso curarmi, perché sarebbe come andare contro la sua volontà”.

Rispetto al problema del rapporto tra Dio, la malattia e il dolore penso che molti cristiani, molti di noi, abbiano una gran confusione, e questo soprattutto a causa di una certa educazione religiosa che abbiamo ricevuto. Purtroppo ancora oggi di fronte a dei malati o in occasione di funerali sentiamo delle vere e proprie bestemmie teologiche. Si sentono ancora spesso certe espressioni come queste:

– È Dio che ha voluto la sua morte e lo ha preso con se..

– È Dio che attraverso la tua malattia vuole metterti alla prova perché tu possa convertirti…

– L’Aids è un castigo di Dio…

Sono frasi che avvalorano più l’immagine di un Dio contro l’uomo, che l’immagine di un Dio misericordioso. La teologa e filosofa Dorothee Solle nel suo bel libro “Sofferenza” parla addirittura di “sadismo teologico”.

Purtroppo tra molti credenti serpeggia ancora una certa “spiritualità doloristica”. Bisogna invece fare attenzione perché c’è il rischio di creare l’ immagine di un Dio perverso e sadico, che addirittura si compiace della sofferenza che l’uomo patisce. Ma come può un Dio che è Padre compiacersi in ciò che sfigura e devasta una persona?

Credo che tutti abbiamo bisogno di purificare la nostra immagine di Dio. Dobbiamo continuamente chiederci: ma in quale Dio crediamo? Il cristiano crede nel Dio della Bibbia, nel Dio di Gesù Cristo.
È attraverso Cristo che io incontro Dio. E che cosa ci dice Gesù di Dio? Gesù non ci parla mai di un Dio onnipotente, un Dio degli eserciti, un Dio violento. Gesù ci parla invece di un Dio che è Padre, che accoglie, che perdona, che è tenerezza, che sa
aspettare, che è paziente. Per il cristiano, Gesù Cristo è Dio che è morto in croce. Il Dio della Bibbia, il Dio di Gesù Cristo è un Dio che soffre, è un Dio che piange, è un Dio che sente il nostro lamento. È  un Dio sempre in “esodo”. Un Dio che cammina accanto a noi, che lotta con noi. La morte di Cristo non è stata come la morte di Socrate. La morte di un uomo rassegnato e impassibile. Di fronte alla morte, Cristo grida e urla il suo dolore e la sua disperazione. In quell’urlo possiamo vedere la richiesta di chiedere al Padre, a Dio, che ci stia vicino nel momento del dolore. Che ci stia accanto per aiutarci a combattere insieme il male e cercare di vincerlo.

“Dio – dice Bonhoeffer – non ci vuole eterni bambini, ma ci vuole adulti e responsabili”. Il Dio di Gesù Cristo non è il Dio onnipotente, ma il Dio impotente. È il Dio che ci salva non attraverso la sua onnipotenza, ma attraverso l’amore, la misericordia. È il Dio che ci chiede di accogliere la sua compagnia e la sua forza accanto alla nostra fragilità, alla nostra impotenza, per poter insieme trasformare il male in una occasione d’amore.

Il cristiano non conosce nessuna strada per aggirare il dolore. L’unica strada è quella di attraversarlo, non da solo, ma insieme con Dio. Il cristiano deve continuare a raccontare a tutti, che c’è sempre una speranza, che il dolore e la morte non sono l’ultima parola, che c’è sempre una possibilità di vita. I momenti drammatici di solitudine, di crisi di fede, non sono i momenti dell’abbandono di Dio, ma i momenti del “nascondimento” di Dio.
L’importante è non perdere mai la speranza.
Chi sa seguirlo e cercarlo sicuramente lo ritrova. Il cristiano deve imparare da Cristo non solo a purificare la sua immagine di Dio, ma anche come vivere l’esperienza della sofferenza, della morte e come stare accanto al malato.

Gesù di fronte ai malati “prova compassione”. Si commuove. Sente propria la loro sofferenza. Gesù non ha mai predicato la rassegnazione. Ha invece sempre combattuto la malattia e la sofferenza. Ha sempre cercato di curare, di guarire, di aiutare, di consolare. Non dice mai che la sofferenza avvicina maggiormente a Dio. Non chiede mai al malato di offrire la propria sofferenza a Dio.
Gesù con i sofferenti percorre un cammino.
Spende forze, energie, tempo e lascia agire la forza di Dio.Con chi soffre bisogna fare insieme un cammino di umanizzazione.Come ha fatto Cristo così anche il cristiano deve lottare e resistere alla malattia.

Rispetto al rapporto tra malattia e Dio, Turoldo ci offre anche un altro spunto interessante di riflessione. Credo che tutti noi, in certi momenti di sofferenza ci siamo rivolti a Dio con la preghiera. Credo che sia naturale pregare Dio perché mi guarisca. Su questo Turoldo va decisamente contro corrente e ci fa molto pensare:

“Io non penso – dice Turoldo – che sia giusto pregare perché Dio mi guarisca. Perché Dio dovrebbe guarire me e non il bambino handicappato? Io prego Dio perché mi dia la forza di sopportare il dolore e di far fronte alla morte con la stessa forza di Cristo. Nel Getsemani Gesù prega il Padre che lo liberi da quell’ora. E aggiunge subito ”non quello che voglio io, ma quello che vuoi tu”.

È difficile non pregare per la propria guarigione. Spesso è la stessa liturgia che ci invita a farlo. Durante l’eucarestia, prima della comunione recitiamo: “Signore non sono degno che tu entri dentro di me, ma dì soltanto una parola e io sarò salvato …guarito”.

Non chiedo al Signore che mi guarisca in modo egoista, ma che la sua volontà sia fatta “come in cielo così in terra”. Desiderare di guarire è umano. E a Dio posso chiedere un desiderio umano. La preghiera di domanda è il riconoscere il mio limite, il mio essere nel bisogno, e l’accogliere la salute nello spazio del dono e della gratuità da parte di Dio. Al cristiano non è chiesta la rassegnazione. La malattia è un male e ad essa bisogna resistere. Sia in Giobbe, sia nei Salmi troviamo spesso il linguaggio del lamento e della protesta. La preghiera di protesta fa parte della lotta contro la malattia ed esprime la ricerca di senso di ciò che appare un mistero incomprensibile. L’uomo deve gridare il suo scandalo di fronte al male. Il malato deve dire: il male offende la mia dignità, offende la mia vocazione, il mio destino.

È assurdo pensare che la volontà di Dio sia che uno soffra e muoia. Bisogna chiedere a Dio la forza di continuare ad amare nonostante la malattia. Spesso si sente ancora dire: nella preghiera offri a Dio la tua sofferenza. Come può Dio gradire come offerta ciò che disumanizza? Gesù non ha offerto le sue sofferenze al Padre, ma ha offerto se stesso. Gesù ha fatto della sua sofferenza e della sua morte un atto d’amore.

Il profeta Osea ci ricorda che: “A Dio è gradito l’amore e non il sacrificio” (6,6). Non è la sofferenza che salva, ma l’amore. Io devo offrire a Dio non la mia sofferenza, ma quello che io sono diventato attraverso la sofferenza, cercando di darle un senso attraverso l’amore. Quindi devo offrire me stesso, la mia fragile fede, la mia sete di speranza, la mia fatica ma anche la mia gioia di amare in modo gratuito. È la passione dell’amore che può dar senso alla passione del soffrire.

Vorrei accennare brevemente un ultimo aspetto del nostro vivere la relazione con il malato. Nel famoso brano del Vangelo di Matteo (25,31-46) dove viene raffigurato il giudizio finale, troviamo un messaggio piuttosto sconcertante. Infatti Gesù dice: “…ero malato e mi avete visitato…”. Il Cristo si identifica non con colui che va a visitare il malato, ma con il malato stesso. Il malato è sacramento di Cristo, è presenza di Cristo. Quindi ogni volta che vado a visitare un malato, sono io che, attraverso il malato, sono visitato da Dio.

Pienamente cosciente di quanto sia delicato e difficile parlare di questi argomenti, termino questa riflessione con le stesse parole di Hans Jonas. Il grande pensatore contemporaneo conclude la sua interessante conferenza su “Il concetto di Dio dopo Auschwitz” dicendo che: “…di Dio si può soltanto balbettare”. Noi aggiungiamo non solo di Dio, ma anche del male, della malattia, della sofferenza e della morte.

 

Tiziano, Oriana e il presunto scontro di civiltà

Dopo il famigerato 11 settembre 2001, col suo libro “La rabbia e l’orgoglio” Oriana Fallaci aveva dato voce a un sentimento diffuso, contribuendo non poco a diffondere  in molti la convinzione che si era arrivati ad uno scontro di civiltà. Tutti conosciamo la reazione che i Paesi occidentali, sempre a guida statunitense, ebbero a quell’atto terroristico, provocando così altre ripetute reazioni di morte e distruzione.

Il lungo articolo che sotto forma di lettera Tiziano Terzani scrisse  rivolgendosi direttamente alla collega, può essere utilissimo per ripensare all’ istintivo pensiero di ricorrere alla forza delle armi, sempre più distruttive, davanti a quanto oggi avviene nel mondo e sempre più vicino alle nostre porte. ( Piero M.)

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Cambiamo il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola

di Tiziano Terzani

Oriana, dalla finestra di una casa poco lontana da quella in cui anche tu sei nata, guardo le lame austere ed eleganti dei cipressi contro il cielo e ti penso a guardare, dalle tue finestre a New York, il panorama dei grattacieli da cui ora mancano le Torri Gemelle. Mi torna in mente un pomeriggio di tanti, tantissimi anni fa quando assieme facemmo una lunga passeggiata per le stradine di questi nostri colli argentati dagli ulivi. Io mi affacciavo, piccolo, alla professione nella quale tu eri già grande e tu proponesti di scambiarci delle «Lettere da due mondi diversi»: io dalla Cina dell’ immediato dopo-Mao in cui andavo a vivere, tu dall’ America. Per colpa mia non lo facemmo. Ma è in nome di quella tua generosa offerta di allora, e non certo per coinvolgerti ora in una corrispondenza che tutti e due vogliamo evitare, che mi permetto di scriverti.

Davvero mai come ora, pur vivendo sullo stesso pianeta, ho l’ impressione di stare in un mondo assolutamente diverso dal tuo. Ti scrivo anche – e pubblicamente per questo – per non far sentire troppo soli quei lettori che forse, come me, sono rimasti sbigottiti dalle tue invettive, quasi come dal crollo delle due Torri. Là morivano migliaia di persone e con loro il nostro senso di sicurezza; nelle tue parole sembra morire il meglio della testa umana – la ragione; il meglio del cuore – la compassione. Il tuo sfogo mi ha colpito, ferito e mi ha fatto pensare a Karl Kraus. «Chi ha qualcosa da dire si faccia avanti e taccia», scrisse, disperato dal fatto che, dinanzi all’ indicibile orrore della Prima Guerra Mondiale, alla gente non si fosse paralizzata la lingua. Al contrario, gli si era sciolta, creando tutto attorno un assurdo e confondente chiacchierio. Tacere per Kraus significava riprendere fiato, cercare le parole giuste, riflettere prima di esprimersi. Lui usò di quel consapevole silenzio per scrivere “Gli ultimi giorni dell’ umanità“, un’ opera che sembra essere ancora di un’ inquietante attualità.

Pensare quel che pensi e scriverlo è un tuo diritto. Il problema è però che, grazie alla tua notorietà, la tua brillante lezione di intolleranza arriva ora anche nelle scuole, influenza tanti giovani e questo mi inquieta. Il nostro di ora è un momento di straordinaria importanza. L’ orrore indicibile è appena cominciato, ma è ancora possibile fermarlo facendo di questo momento una grande occasione di ripensamento. È un momento anche di enorme responsabilità perché certe concitate parole, pronunciate dalle lingue sciolte, servono solo a risvegliare i nostri istinti più bassi, ad aizzare la bestia dell’ odio che dorme in ognuno di noi ed a provocare quella cecità delle passioni che rende pensabile ogni misfatto e permette, a noi come ai nostri nemici, il suicidarsi e l’ uccidere. «Conquistare le passioni mi pare di gran lunga più difficile che conquistare il mondo con la forza delle armi. Ho ancora un difficile cammino dinanzi a me», scriveva nel 1925 quella bell’ anima di Gandhi. Ed aggiungeva: «Finché l’ uomo non si metterà di sua volontà all’ ultimo posto fra le altre creature sulla terra, non ci sarà per lui alcuna salvezza». E tu, Oriana, mettendoti al primo posto di questa crociata contro tutti quelli che non sono come te o che ti sono antipatici, credi davvero di offrirci salvezza?

La salvezza non è nella tua rabbia accalorata, né nella calcolata campagna militare chiamata, tanto per rendercela più accettabile, «Libertà duratura». O tu pensi davvero che la violenza sia il miglior modo per sconfiggere la violenza? Da che mondo è mondo non c’ è stata ancora la guerra che ha messo fine a tutte le guerre. Non lo sarà nemmen questa. Quel che ci sta succedendo è nuovo. Il mondo ci sta cambiando attorno. Cambiamo allora il nostro modo di pensare, il nostro modo di stare al mondo. È una grande occasione. Non perdiamola: rimettiamo in discussione tutto, immaginiamoci un futuro diverso da quello che ci illudevamo d’ aver davanti prima dell’ 11 settembre e soprattutto non arrendiamoci alla inevitabilità di nulla, tanto meno all’ inevitabilità della guerra come strumento di giustizia o semplicemente di vendetta.

Le guerre sono tutte terribili. Il moderno affinarsi delle tecniche di distruzione e di morte le rendono sempre più tali. Pensiamoci bene: se noi siamo disposti a combattere la guerra attuale con ogni arma a nostra disposizione, compresa quella atomica, come propone il Segretario alla Difesa americano, allora dobbiamo aspettarci che anche i nostri nemici, chiunque essi siano, saranno ancor più determinati di prima a fare lo stesso, ad agire senza regole, senza il rispetto di nessun principio. Se alla violenza del loro attacco alle Torri Gemelle noi risponderemo con una ancor più terribile violenza – ora in Afghanistan, poi in Iraq, poi chi sa dove -, alla nostra ne seguirà necessariamente una loro ancora più orribile e poi un’ altra nostra e così via. Perché non fermarsi prima? Abbiamo perso la misura di chi siamo, il senso di quanto fragile ed interconnesso sia il mondo in cui viviamo, e ci illudiamo di poter usare una dose, magari «intelligente», di violenza per mettere fine alla terribile violenza altrui. Cambiamo illusione e, tanto per cominciare, chiediamo a chi fra di noi dispone di armi nucleari, armi chimiche e armi batteriologice – Stati Uniti in testa – d’ impegnarsi solennemente con tutta l’ umanità a non usarle mai per primo, invece di ricordarcene minacciosamente la disponibilità. Sarebbe un primo passo in una nuova direzione. Non solo questo darebbe a chi lo fa un vantaggio morale – di per sé un’ arma importante per il futuro -, ma potrebbe anche disinnescare l’ orrore indicibile ora attivato dalla reazione a catena della vendetta.

In questi giorni ho ripreso in mano un bellissimo libro (peccato che non sia ancora in italiano) di un vecchio amico, uscito due anni fa in Germania. Il libro si intitola Die Kunst, nicht regiert zu werden: ethische Politik von Sokrates bis Mozart (L’ arte di non essere governati: l’ etica politica da Socrate a Mozart). L’ autore è Ekkehart Krippendorff, che ha insegnato per anni a Bologna prima di tornare all’ Università di Berlino. La affascinante tesi di Krippendorff è che la politica, nella sua espressione più nobile, nasce dal superamento della vendetta e che la cultura occidentale ha le sue radici più profonde in alcuni miti, come quello di Caino e quello delle Erinni, intesi da sempre a ricordare all’ uomo la necessità di rompere il circolo vizioso della vendetta per dare origine alla civiltà. Caino uccide il fratello, ma Dio impedisce agli uomini di vendicare Abele e, dopo aver marchiato Caino – un marchio che è anche una protezione -, lo condanna all’ esilio dove quello fonda la prima città. La vendetta non è degli uomini, spetta a Dio. Secondo Krippendorff il teatro, da Eschilo a Shakespeare, ha avuto una funzione determinante nella formazione dell’ uomo occidentale perché col suo mettere sulla scena tutti i protagonisti di un conflitto, ognuno col suo punto di vista, i suoi ripensamenti e le sue possibili scelte di azione, il teatro è servito a far riflettere sul senso delle passioni e sulla inutilità della violenza che non raggiunge mai il suo fine.

Purtroppo, oggi, sul palcoscenico del mondo noi occidentali siamo insieme i soli protagonisti ed i soli spettatori, e così, attraverso le nostre televisioni ed i nostri giornali, non ascoltiamo che le nostre ragioni, non proviamo che il nostro dolore. A te, Oriana, i kamikaze non interessano. A me tanto invece. Ho passato giorni in Sri Lanka con alcuni giovani delle «Tigri Tamil», votati al suicidio. Mi interessano i giovani palestinesi di «Hamas» che si fanno saltare in aria nelle pizzerie israeliane. Un po’ di pietà sarebbe forse venuta anche a te se in Giappone, sull’ isola di Kyushu, tu avessi visitato Chiran, il centro dove i primi kamikaze vennero addestrati e tu avessi letto le parole, a volte poetiche e tristissime, scritte segretamente prima di andare, riluttanti, a morire per la bandiera e per l’ Imperatore. I kamikaze mi interessano perché vorrei capire che cosa li rende così disposti a quell’ innaturale atto che è il suicidio e che cosa potrebbe fermarli.

Quelli di noi a cui i figli – fortunatamente – sono nati, si preoccupano oggi moltissimo di vederli bruciare nella fiammata di questo nuovo, dilagante tipo di violenza di cui l’ ecatombe nelle Torri Gemelle potrebbe essere solo un episodio. Non si tratta di giustificare, di condonare, ma di capire. Capire, perché io sono convinto che il problema del terrorismo non si risolverà uccidendo i terroristi, ma eliminando le ragioni che li rendono tali. Niente nella storia umana è semplice da spiegare e fra un fatto ed un altro c’ è raramente una correlazione diretta e precisa. Ogni evento, anche della nostra vita, è il risultato di migliaia di cause che producono, assieme a quell’ evento, altre migliaia di effetti, che a loro volta sono le cause di altre migliaia di effetti. L’ attacco alle Torri Gemelle è uno di questi eventi: il risultato di tanti e complessi fatti antecedenti. Certo non è l’ atto di «una guerra di religione» degli estremisti musulmani per la conquista delle nostre anime, una Crociata alla rovescia, come la chiami tu, Oriana. Non è neppure «un attacco alla libertà ed alla democrazia occidentale», come vorrebbe la semplicistica formula ora usata dai politici. Un vecchio accademico dell’ Università di Berkeley, un uomo certo non sospetto di anti-americanismo o di simpatie sinistrorse dà di questa storia una interpretazione completamente diversa. «Gli assassini suicidi dell’ 11 settembre non hanno attaccato l’ America: hanno attaccato la politica estera americana», scrive Chalmers Johnson nel numero di The Nation del 15 ottobre. Per lui, autore di vari libri – l’ ultimo, Blowback, contraccolpo, uscito l’ anno scorso (in Italia edito da Garzanti ndr) ha del profetico – si tratterebbe appunto di un ennesimo «contraccolpo» al fatto che, nonostante la fine della Guerra Fredda e lo sfasciarsi dell’ Unione Sovietica, gli Stati Uniti hanno mantenuto intatta la loro rete imperiale di circa 800 installazioni militari nel mondo. Con una analisi che al tempo della Guerra Fredda sarebbe parsa il prodotto della disinformazione del Kgb, Chalmers Johnson fa l’ elenco di tutti gli imbrogli, complotti, colpi di Stato, delle persecuzioni, degli assassinii e degli interventi a favore di regimi dittatoriali e corrotti nei quali gli Stati Uniti sono stati apertamente o clandestinamente coinvolti in America Latina, in Africa, in Asia e nel Medio Oriente dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ad oggi.

Il «contraccolpo» dell’ attacco alle Torri Gemelle ed al Pentagono avrebbe a che fare con tutta una serie di fatti di questo tipo: fatti che vanno dal colpo di Stato ispirato dalla Cia contro Mossadeq nel 1953, seguito dall’ installazione dello Shah in Iran, alla Guerra del Golfo, con la conseguente permanenza delle truppe americane nella penisola araba, in particolare l’ Arabia Saudita dove sono i luoghi sacri dell’ Islam. Secondo Johnson sarebbe stata questa politica americana «a convincere tanta brava gente in tutto il mondo islamico che gli Stati Uniti sono un implacabile nemico». Così si spiegherebbe il virulento anti-americanismo diffuso nel mondo musulmano e che oggi tanto sorprende gli Stati Uniti ed i loro alleati. Esatta o meno che sia l’ analisi di Chalmers Johnson, è evidente che al fondo di tutti i problemi odierni degli americani e nostri nel Medio Oriente c’ è, a parte la questione israeliano-palestinese, la ossessiva preoccupazione occidentale di far restare nelle mani di regimi «amici», qualunque essi fossero, le riserve petrolifere della regione.

Questa è stata la trappola. L’ occasione per uscirne è ora. Perché non rivediamo la nostra dipendenza economica dal petrolio? Perché non studiamo davvero, come avremmo potuto già fare da una ventina d’ anni, tutte le possibili fonti alternative di energia? Ci eviteremmo così d’ essere coinvolti nel Golfo con regimi non meno repressivi ed odiosi dei talebani; ci eviteremmo i sempre più disastrosi «contraccolpi» che ci verranno sferrati dagli oppositori a quei regimi, e potremmo comunque contribuire a mantenere un migliore equilibrio ecologico sul pianeta. Magari salviamo così anche l’ Alaska che proprio un paio di mesi fa è stata aperta ai trivellatori, guarda caso dal presidente Bush, le cui radici politiche – tutti lo sanno – sono fra i petrolieri. A proposito del petrolio, Oriana, sono certo che anche tu avrai notato come, con tutto quel che si sta scrivendo e dicendo sull’ Afghanistan, pochissimi fanno notare che il grande interesse per questo paese è legato al fatto d’ essere il passaggio obbligato di qualsiasi conduttura intesa a portare le immense risorse di metano e petrolio dell’ Asia Centrale (vale a dire di quelle repubbliche ex-sovietiche ora tutte, improvvisamente, alleate con gli Stati Uniti) verso il Pakistan, l’ India e da lì nei paesi del Sud Est Asiatico. Il tutto senza dover passare dall’ Iran. Nessuno in questi giorni ha ricordato che, ancora nel 1997, due delegazioni degli «orribili» talebani sono state ricevute a Washington (anche al Dipartimento di Stato) per trattare di questa faccenda e che una grande azienda petrolifera americana, la Unocal, con la consulenza niente di meno che di Henry Kissinger, si è impegnata col Turkmenistan a costruire quell’ oleodotto attraverso l’ Afghanistan. È dunque possibile che, dietro i discorsi sulla necessità di proteggere la libertà e la democrazia, l’ imminente attacco contro l’ Afghanistan nasconda anche altre considerazioni meno altisonanti, ma non meno determinanti.

È per questo che nell’ America stessa alcuni intellettuali cominciano a preoccuparsi che la combinazione fra gli interessi dell’ industria petrolifera con quelli dell’ industria bellica – combinazione ora prominentemente rappresentata nella compagine al potere a Washington – finisca per determinare in un unico senso le future scelte politiche americane nel mondo e per limitare all’ interno del paese, in ragione dell’ emergenza anti-terrorismo, i margini di quelle straordinarie libertà che rendono l’ America così particolare. Il fatto che un giornalista televisivo americano sia stato redarguito dal pulpito della Casa Bianca per essersi chiesto se l’ aggettivo «codardi», usato da Bush, fosse appropriato per i terroristi-suicidi, così come la censura di certi programmi e l’ allontanamento da alcuni giornali, di collaboratori giudicati non ortodossi, hanno aumentato queste preoccupazioni.

L’ aver diviso il mondo in maniera – mi pare – «talebana», fra «quelli che stanno con noi e quelli contro di noi», crea ovviamente i presupposti per quel clima da caccia alle streghe di cui l’ America ha già sofferto negli anni Cinquanta col maccartismo, quando tanti intellettuali, funzionari di Stato ed accademici, ingiustamente accusati di essere comunisti o loro simpatizzanti, vennero perseguitati, processati e in moltissimi casi lasciati senza lavoro. Il tuo attacco, Oriana – anche a colpi di sputo – alle «cicale» ed agli intellettuali «del dubbio» va in quello stesso senso. Dubitare è una funzione essenziale del pensiero; il dubbio è il fondo della nostra cultura. Voler togliere il dubbio dalle nostre teste è come volere togliere l’ aria ai nostri polmoni.

Io non pretendo affatto d’ aver risposte chiare e precise ai problemi del mondo (per questo non faccio il politico), ma penso sia utile che mi si lasci dubitare delle risposte altrui e mi si lasci porre delle oneste domande. In questi tempi di guerra non deve essere un crimine parlare di pace. Purtroppo anche qui da noi, specie nel mondo «ufficiale» della politica e dell’ establishment mediatico, c’ è stata una disperante corsa alla ortodossia. È come se l’ America ci mettesse già paura. Capita così di sentir dire in televisione a un post-comunista in odore di una qualche carica nel suo partito, che il soldato Ryan è un importante simbolo di quell’ America che per due volte ci ha salvato. Ma non c’ era anche lui nelle marce contro la guerra americana in Vietnam? Per i politici – me ne rendo conto – è un momento difficilissimo. Li capisco e capisco ancor più l’ angoscia di qualcuno che, avendo preso la via del potere come una scorciatoia per risolvere un piccolo conflitto di interessi terreni si ritrova ora alle prese con un enorme conflitto di interessi divini, una guerra di civiltà combattuta in nome di Iddio e di Allah.

No. Non li invidio, i politici. Siamo fortunati noi, Oriana. Abbiamo poco da decidere e non trovandoci in mezzo ai flutti del fiume, abbiamo il privilegio di poter stare sulla riva a guardare la corrente. Ma questo ci impone anche grandi responsabilità come quella, non facile, di andare dietro alla verità e di dedicarci soprattutto «a creare campi di comprensione, invece che campi di battaglia», come ha scritto Edward Said, professore di origine palestinese ora alla Columbia University, in un saggio sul ruolo degli intellettuali uscito proprio una settimana prima degli attentati in America. Il nostro mestiere consiste anche nel semplificare quel che è complicato. Ma non si può esagerare, Oriana, presentando Arafat come la quintessenza della doppiezza e del terrorismo ed indicando le comunità di immigrati musulmani da noi come incubatrici di terroristi.

Le tue argomentazioni verranno ora usate nelle scuole contro quelle buoniste, da libro Cuore, ma tu credi che gli italiani di domani, educati a questo semplicismo intollerante, saranno migliori? Non sarebbe invece meglio che imparassero, a lezione di religione, anche che cosa è l’ Islam? Che a lezione di letteratura leggessero anche Rumi o il da te disprezzato Omar Kayan? Non sarebbe meglio che ci fossero quelli che studiano l’ arabo, oltre ai tanti che già studiano l’ inglese e magari il giapponese? Lo sai che al ministero degli Esteri di questo nostro paese affacciato sul Mediterraneo e sul mondo musulmano, ci sono solo due funzionari che parlano arabo? Uno attualmente è, come capita da noi, console ad Adelaide in Australia. Mi frulla in testa una frase di Toynbee: «Le opere di artisti e letterati hanno vita più lunga delle gesta di soldati, di statisti e mercanti. I poeti ed i filosofi vanno più in là degli storici. Ma i santi e i profeti valgono di più di tutti gli altri messi assieme». Dove sono oggi i santi ed i profeti? Davvero, ce ne vorrebbe almeno uno! Ci rivorrebbe un San Francesco. Anche i suoi erano tempi di crociate, ma il suo interesse era per «gli altri», per quelli contro i quali combattevano i crociati. Fece di tutto per andarli a trovare. Ci provò una prima volta, ma la nave su cui viaggiava naufragò e lui si salvò a malapena. Ci provò una seconda volta, ma si ammalò prima di arrivare e tornò indietro. Finalmente, nel corso della quinta crociata, durante l’ assedio di Damietta in Egitto, amareggiato dal comportamento dei crociati («vide il male ed il peccato»), sconvolto da una spaventosa battaglia di cui aveva visto le vittime, San Francesco attraversò le linee del fronte. Venne catturato, incatenato e portato al cospetto del Sultano. Peccato che non c’ era ancora la Cnn – era il 1219 – perché sarebbe interessantissimo rivedere oggi il filmato di quell’ incontro. Certo fu particolarissimo perché, dopo una chiacchierata che probabilmente andò avanti nella notte, al mattino il Sultano lasciò che San Francesco tornasse, incolume, all’ accampamento dei crociati. Mi diverte pensare che l’ uno disse all’ altro le sue ragioni, che San Francesco parlò di Cristo, che il Sultano lesse passi del Corano e che alla fine si trovarono d’ accordo sul messaggio che il poverello di Assisi ripeteva ovunque: «Ama il prossimo tuo come te stesso».

Mi diverte anche immaginare che, siccome il frate sapeva ridere come predicare, fra i due non ci fu aggressività e che si lasciarono di buon umore sapendo che comunque non potevano fermare la storia. Ma oggi? Non fermarla può voler dire farla finire. Ti ricordi, Oriana, Padre Balducci che predicava a Firenze quando noi eravamo ragazzi? Riguardo all’ orrore dell’ olocausto atomico pose una bella domanda: «La sindrome da fine del mondo, l’ alternativa fra essere e non essere, hanno fatto diventare l’ uomo più umano?». A guardarsi intorno la risposta mi pare debba essere «No». Ma non possiamo rinunciare alla speranza. «Mi dica, che cosa spinge l’ uomo alla guerra?», chiedeva Albert Einstein nel 1932 in una lettera a Sigmund Freud. «È possibile dirigere l’ evoluzione psichica dell’ uomo in modo che egli diventi più capace di resistere alla psicosi dell’ odio e della distruzione?» Freud si prese due mesi per rispondergli. La sua conclusione fu che c’ era da sperare: l’ influsso di due fattori – un atteggiamento più civile, ed il giustificato timore degli effetti di una guerra futura – avrebbe dovuto mettere fine alle guerre in un prossimo avvenire. Giusto in tempo la morte risparmiò a Freud gli orrori della Seconda Guerra Mondiale. Non li risparmiò invece ad Einstein, che divenne però sempre più convinto della necessità del pacifismo. Nel 1955, poco prima di morire, dalla sua casetta di Princeton in America dove aveva trovato rifugio, rivolse all’ umanità un ultimo appello per la sua sopravvivenza: «Ricordatevi che siete uomini e dimenticatevi tutto il resto». Per difendersi, Oriana, non c’ è bisogno di offendere (penso ai tuoi sputi ed ai tuoi calci). Per proteggersi non c’ è bisogno d’ ammazzare. Ed anche in questo possono esserci delle giuste eccezioni. M’ è sempre piaciuta nei Jataka, le storie delle vite precedenti di Buddha, quella in cui persino lui, epitome della non violenza, in una incarnazione anteriore uccide. Viaggia su una barca assieme ad altre 500 persone. Lui, che ha già i poteri della preveggenza, «vede» che uno dei passeggeri, un brigante, sta per ammazzare tutti e derubarli e lui lo previene buttandolo nell’ acqua ad affogare per salvare gli altri. Essere contro la pena di morte non vuol dire essere contro la pena in genere ed in favore della libertà di tutti i delinquenti. Ma per punire con giustizia occorre il rispetto di certe regole che sono il frutto dell’ incivilimento, occorre il convincimento della ragione, occorrono delle prove. I gerarchi nazisti furono portati dinanzi al Tribunale di Norimberga; quelli giapponesi responsabili di tutte le atrocità commesse in Asia, furono portati dinanzi al Tribunale di Tokio prima di essere, gli uni e gli altri, dovutamente impiccati. Le prove contro ognuno di loro erano schiaccianti. Ma quelle contro Osama Bin Laden? «Noi abbiamo tutte le prove contro Warren Anderson, presidente della Union Carbide. Aspettiamo che ce lo estradiate», scrive in questi giorni dall’ India agli americani, ovviamente a mo’ di provocazione, Arundhati Roy, la scrittrice de Il Dio delle piccole cose: una come te, Oriana, famosa e contestata, amata ed odiata.

Come te, sempre pronta a cominciare una rissa, la Roy ha usato della discussione mondiale su Osama Bin Laden per chiedere che venga portato dinanzi ad un tribunale indiano il presidente americano della Union Carbide responsabile dell’ esplosione nel 1984 nella fabbrica chimica di Bhopal in India che fece 16.000 morti. Un terrorista anche lui? Dal punto di vista di quei morti forse sì. L’ immagine del terrorista che ora ci viene additata come quella del «nemico» da abbattere è il miliardario saudita che, da una tana nelle montagne dell’ Afghanistan, ordina l’ attacco alle Torri Gemelle; è l’ ingegnere-pilota, islamista fanatico, che in nome di Allah uccide se stesso e migliaia di innocenti; è il ragazzo palestinese che con una borsetta imbottita di dinamite si fa esplodere in mezzo ad una folla. Dobbiamo però accettare che per altri il «terrorista» possa essere l’ uomo d’ affari che arriva in un paese povero del Terzo Mondo con nella borsetta non una bomba, ma i piani per la costruzione di una fabbrica chimica che, a causa di rischi di esplosione ed inquinamento, non potrebbe mai essere costruita in un paese ricco del Primo Mondo. E la centrale nucleare che fa ammalare di cancro la gente che ci vive vicino? E la diga che disloca decine di migliaia di famiglie? O semplicemente la costruzione di tante piccole industrie che cementificano risaie secolari, trasformando migliaia di contadini in operai per produrre scarpe da ginnastica o radioline, fino al giorno in cui è più conveniente portare quelle lavorazioni altrove e le fabbriche chiudono, gli operai restano senza lavoro e non essendoci più i campi per far crescere il riso, muoiono di fame?

Questo non è relativismo. Voglio solo dire che il terrorismo, come modo di usare la violenza, può esprimersi in varie forme, a volte anche economiche, e che sarà difficile arrivare ad una definizione comune del nemico da debellare. I governi occidentali oggi sono uniti nell’ essere a fianco degli Stati Uniti; pretendono di sapere esattamente chi sono i terroristi e come vanno combattuti. Molto meno convinti però sembrano i cittadini dei vari paesi. Per il momento non ci sono state in Europa dimostrazioni di massa per la pace; ma il senso del disagio è diffuso così come è diffusa la confusione su quel che si debba volere al posto della guerra. «Dateci qualcosa di più carino del capitalismo», diceva il cartello di un dimostrante in Germania. «Un mondo giusto non è mai NATO», c’ era scritto sullo striscione di alcuni giovani che marciavano giorni fa a Bologna. Già. Un mondo «più giusto» è forse quel che noi tutti, ora più che mai, potremmo pretendere. Un mondo in cui chi ha tanto si preoccupa di chi non ha nulla; un mondo retto da principi di legalità ed ispirato ad un po’ più di moralità. La vastissima, composita alleanza che Washington sta mettendo in piedi, rovesciando vecchi schieramenti e riavvicinando paesi e personaggi che erano stati messi alla gogna, solo perché ora tornano comodi, è solo l’ ennesimo esempio di quel cinismo politico che oggi alimenta il terrorismo in certe aree del mondo e scoraggia tanta brava gente nei nostri paesi. Gli Stati Uniti, per avere la maggiore copertura possibile e per dare alla guerra contro il terrorismo un crisma di legalità internazionale, hanno coinvolto le Nazioni Unite, eppure gli Stati Uniti stessi rimangono il paese più reticente a pagare le proprie quote al Palazzo di Vetro, sono il paese che non ha ancora ratificato né il trattato costitutivo della Corte Internazionale di Giustizia, né il trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo e tanto meno quello di Kyoto sulle mutazioni climatiche.

L’ interesse nazionale americano ha la meglio su qualsiasi altro principio. Per questo ora Washington riscopre l’ utilità del Pakistan, prima tenuto a distanza per il suo regime militare e punito con sanzioni economiche a causa dei suoi esperimenti nucleari; per questo la Cia sarà presto autorizzata di nuovo ad assoldare mafiosi e gangster cui affidare i «lavoretti sporchi» di liquidare qua e là nel mondo le persone che la Cia stessa metterà sulla sua lista nera. Eppure un giorno la politica dovrà ricongiungersi con l’ etica se vorremo vivere in un mondo migliore: migliore in Asia come in Africa, a Timbuctu come a Firenze. A proposito, Oriana. Anche a me ogni volta che, come ora, ci passo, questa città mi fa male e mi intristisce. Tutto è cambiato, tutto è involgarito. Ma la colpa non è dell’ Islam o degli immigrati che ci si sono installati. Non son loro che han fatto di Firenze una città bottegaia, prostituita al turismo! È successo dappertutto. Firenze era bella quando era più piccola e più povera. Ora è un obbrobrio, ma non perché i musulmani si attendano in Piazza del Duomo, perché i filippini si riuniscono il giovedì in Piazza Santa Maria Novella e gli albanesi ogni giorno attorno alla stazione. È così perché anche Firenze s’ è «globalizzata», perché non ha resistito all’ assalto di quella forza che, fino ad ieri, pareva irresistibile: la forza del mercato. Nel giro di due anni da una bella strada del centro in cui mi piaceva andare a spasso è scomparsa una libreria storica, un vecchio bar, una tradizionalissima farmacia ed un negozio di musica. Per far posto a che? A tanti negozi di moda. Credimi, anch’ io non mi ci ritrovo più. Per questo sto, anch’ io ritirato, in una sorta di baita nell’ Himalaya indiana dinanzi alle più divine montagne del mondo. Passo ore, da solo, a guardarle, lì maestose ed immobili, simbolo della più grande stabilità, eppure anche loro, col passare delle ore, continuamente diverse e impermanenti come tutto in questo mondo. La natura è una grande maestra, Oriana, e bisogna ogni tanto tornarci a prendere lezione. Tornaci anche tu. Chiusa nella scatola di un appartamento dentro la scatola di un grattacielo, con dinanzi altri grattacieli pieni di gente inscatolata, finirai per sentirti sola davvero; sentirai la tua esistenza come un accidente e non come parte di un tutto molto, molto più grande di tutte le torri che hai davanti e di quelle che non ci sono più. Guarda un filo d’ erba al vento e sentiti come lui. Ti passerà anche la rabbia.

Ti saluto, Oriana e ti auguro di tutto cuore di trovare pace. Perché se quella non è dentro di noi non sarà mai da nessuna parte.

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La guerra alle guerre di Erasmo da Rotterdam

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di Claudia Mancini

(articolo del gennaio 2015 per “laporzione.it”)

 

Nel nostro tempo, pieno di tanti pregiudizi, di polemiche, di movimenti che a volte esplodono con gesti di violenza e di rabbia, penso sia utile proporre il pensiero di un uomo come Erasmo da Rotterdam, che, in pieno XVI secolo, proclamava l’ASSOLUTA INGIUSTIZIA DELLA GUERRA e l’importanza dell’ascolto, dell’equilibrio e della mitezza.

In anni in cui vi erano guerre fra stati, violenze, povertà e divisioni provocate da conflitti di religione, l’umanista olandese guardava a tutto questo con sofferenza e con il desiderio di contribuire alla realizzazione della pace a livello religioso, politico, sociale e educativo.

Erasmo ha sempre aborrito la guerra, mantenendo costantemente verso di essa un deciso rifiuto, fino all’esplicita condanna del concetto di “guerra giusta”.

Per comprendere tale posizione è importante soffermarsi sul suo pensiero rispetto alla questione che agitava, fra le altre, gli Stati cristiani tra il XV e il XVI secolo: l’avanzata dei Turchi verso l’Occidente e con loro della religione islamica.

Dopo la presa di Costantinopoli, nel 1453 per opera di un esercito guidato da Maometto II, l’Europa cristiana tutta – tanto le monarchie, soprattutto Francia e Spagna, quanto lo Stato Pontificio – era sempre più decisa ad organizzare una crociata contro i Turchi.

Fra i pochi intellettuali che non condividevano tale posizione aggressiva vanno ricordati Cusano e decenni dopo proprio Erasmo da Rotterdam, entrambi CONVINTI CHE NON CON LA FORZA DELLE ARMI SI POTESSE RIPORTARE LA PACE E LA CONCORDIA con i musulmani, quanto con la ragione e gli argomenti persuasivi.

La posizione erasmiana è di notevole interesse e attualità perché ispirata da un notevole realismo politico che gli fa avere una visione ampia e non unilaterale.

Innanzitutto, parte dalla considerazione che la vittoria dei Turchi sia un segno mandato da Dio come egli mandò le piaghe in Egitto: Dio, offeso dai cristiani, ha mandato i Turchi contro cui non si è potuto nulla perché «abbiamo combattuto contro i Turchi con lo spirito dei Turchi». «Alziamo, infatti, le armi contro i Turchi con lo stesso stato d’animo con il quale essi occupano le nostre terre. Siamo spinti dal desiderio sfrenato di dominare, aspiriamo alla ricchezza e ci battiamo come Turchi contro Turchi, per dirla con parole semplici».

Erasmo denunciava l’ipocrisia di quanti, ammantandoli con il nome di Cristo, perseguivano fini ignobili con la scusa di difendere la fede cristiana dalla violenza dei Turchi.

Le parole di Erasmo sono forti: «Copriamo la nostra infamia sotto apparenze nobili: voglio le ricchezze dei Turchi, ma mi spaccio per difensore della religione; dò sfogo al mio odio, ma rivendico i diritti della Chiesa; sono ambizioso, iracondo, sanguinario, sfrenato, ma richiamo in causa un’alleanza infranta, un trattato di amicizia non rispettato o non so quale violazione di un contratto matrimoniale».

Smascherato ogni atteggiamento ipocrita, e ribadita la mostruosità della guerra, Erasmo, nello stesso tempo, ritiene necessario difendere l’Occidente cristiano dai Turchi perché la loro invasione consegnerebbe la “repubblica cristiana” sotto il giogo della schiavitù.

Di fronte all’impero ottomano, allora, quale deve essere l’atteggiamento da assumere?

L’umanista si dice convinto che la migliore difesa per l’Occidente sarà l’essere concordi fra cristiani, senza portare avanti una guerra fratricida contro i Turchi: nel momento in cui vi è l’unità dei popoli cristiani, i Turchi non possono attaccare e ciò che li condurrà a convertirsi non saranno certo i massacri.

Nell’Enchiridion militis cristiani Erasmo dice espressamente di non condividere la guerra contro i Turchi perché se si desidera evangelizzare non si devono esibire né ricchezze, né soldati, né violenza ma, piuttosto, «il desiderio di fare il bene anche ai nemici, la capacità di sopportare le offese, il disprezzo del denaro e della gloria, l’umiltà della vita».

Per portare il messaggio cristiano si deve essere disposti a rischiare anche di perdere la propria vita, ma secondo la logica della croce non della violenza: «vinceremo davvero nel momento in cui saremo sconfitti».

Per scacciare con successo i Turchi occorre una purificazione interiore per liberarsi da avarizia, ambizione, desiderio di piacere, orgoglio, ira, inganno, lussuria, invidia: l’abbandono di tutto ciò renderà l’animo davvero cristiano. Sgozzare i Turchi significherebbe rendere sacrifici al Demonio.

La guerra può essere intrapresa solo dopo che ogni tentativo di evitarla sia risultato inutile: «se una necessità inevitabile spinge alla guerra, spetta comunque alla mitezza cristiana dar fondo a tutte le sue forze per far sì che lo scontro coinvolga il minor numero possibile di persone e si concluda con il minor spargimento di sangue».

In tutti i casi non ci può mai essere una “guerra giusta”. In tale senso una guerra, un conflitto, sono ritenuti sempre giustificabili in nome di presunti diritti offesi, ma questo genera una mentalità in base alla quale ognuno, per tutelare il proprio diritto, fa sorgere la guerra.

La guerra è un male da cui è difficile liberarsi e un conflitto ne produce altri più crudeli e pesanti: questo deve essere presente soprattutto in chi incarna l’autorità.

La strada prospettata da Erasmo, invece, è quella del perdonarsi reciprocamente: senza il perdono, così come non può reggersi l’amicizia, altrettanto non può reggersi una nazione.

Qui appare la posizione originale e coraggiosa dell’umanista olandese, perché allora avversare la “guerra giusta” significava non solo porsi contro una parte importante della tradizione del pensiero della Chiesa (supportata da autori quali Sant’Agostino, san Bernardo di Clairvaux e san Tommaso d’Aquino), ma anche contro monarchie e autorità politiche per cui era lecito dar vita a guerre, adducendo vari motivi, spesso anche con la scusa di difendere la fede cristiana.

Erasmo, al contrario, non crede nella violenza e pone speranza nella forza della diplomazia perché «è meglio stare quieti quando non arride nessuna speranza di essere utili».

In una lettera a Barbier, Erasmo scrive: «Come sempre approvo la concordia, così anche in questo caso preferirei una pace, anche se un po’ ingiusta, a una guerra giustissima.Magari con il sacrificio della mia vita, nonché della fama, potessi trasformare questa dannosissima tempesta in bonaccia».

Erasmo era uomo disposto all’ascolto, pronto a smussare, allenato al controllo di sé, per tenere aperte le porte del dialogo e far emergere l’altro senza la volontà di schiacciarlo.

La verità, per l’umanista, si perde sempre in un confronto troppo acceso; mai entrare nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di guerreggiare, e quindi di vincere: «in tutte quelle situazioni in cui ciascuno tiene conto solo di se stesso o in cui da ogni parte si tira la fune della disputa, lì è impossibile ricondurre gli animi alla concordia».

Arriviamo alla conclusione di questa riflessione che ha avuto l’intenzione di presentare, come un messaggio propiziatorio per il nostro tempo, l’invito di Erasmo da Rotterdam a fare guerra alle guerre ed essere pronti a sacrificare la propria vita solo per la pace.

Meglio desiderare la pace, anche se un po’ ingiusta, a una guerra giustissima. Contro i Turchi e la diffusione della religione islamica, pensava l’umanista, l’Occidente avrebbe vinto solo conservando l’unità tra cristiani. A pensarla così era un umanista che, insieme a pochi altri, aveva una visione articolata dei problemi del proprio tempo ma soprattutto era «capace di sentire con spirito puramente europeo».

Nato in un paese, l’Olanda, in cui confluivano diverse culture – come quella francese, tedesca, inglese –, studioso e viaggiatore per tutta l’Europa, Erasmo non mostra mai di essere attaccato a egoistici interessi nazionalistici, religiosi, economici. Fu sempre critico dell’autorità politica, se questa si identificava con il “principe machiavelliano” portatore di inganni, di ipocrisie, soprusi e violenze per affermare il potere.

A ciò bisogna aggiungere il suo sincero anelito a vivere un cristianesimo autentico, segnato dalla ricerca della purezza evangelica; infine, lo contraddistingueva il senso di un Dio cristiano misericordioso e pronto al perdono, che vede nella croce non un vessillo da mettere fra le mani di un soldato che va ad ammazzare altre persone, ma un segno che dà senso alle sofferenze di chi opera per la pace.

Tra questi ultimi lo stesso Erasmo, duramente avversato dai protestanti come da cattolici, sempre mite mai remissivo. Uno spirito puramente e fortemente europeo, quindi, per il quale la patria coincideva con le proprie radici europee, ossia con la “repubblica delle lettere” e con la “repubblica cristiana”.

Erasmo, il “cittadino del mondo”, si preoccupava che l’Europa trovasse la propria essenza, non perseguendo gli interessi di questo o quell’altro popolo, bensì a partire dalla comune appartenenza al destino dell’Occidente. Ha un unico destino chi riconosce di avere un passato comune.

E loro, nel nostro tempo, in che passato si riconoscono? A quale destino sentono di appartenere?

Di quello che nel tempo hanno subìto gli africani conosciamo forse una minima parte

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di Piero Murineddu

Namibia, Stato  sudoccidentale africano bagnato dall’ oceano Atlantico. Sappiamo qualcosa di coloro che ci vivono e di come ci vivono, della loro storia e, sopratutto, cosa hanno dovuto subire dai civilissimi europei, in questo caso la Germania, che a quanto genocidi, sembra proprio che se ne intenda parecchio? Senza offesa alle giovani generazioni, intendo quelli che hanno contribuito ad infondere nella testa dei tedeschi che loro, per volontà divina o di chissà chi e che cosa, erano  superiori al resto dell’umanità. In questo caso non parliamo di quello che hanno combinato nella seconda guerra mondiale da loro scatenata per la loro mania espansionistica e per il credersi la razza eletta del mondaccio.

In questo articolo di qualche tempo fa pubblicato su Il Venerdì di Repubblica si racconta dei primissimo novecento. Fatti che son stati una vera e propria preparazione a quello che una quatantina d’ anni dopo avrebbero combinato nei lager agli ebrei, agli zingari, agli omosessuali e a qualsiasi gruppo che la crudele visione dei capi di allora aveva deciso di eliminare dal nostro pianeta, oggi messo male ancor più di sempre.

Namibia, territorio prevalentemente desertico e scarsamente popolato ma che la tendenza arraffona del vecchio continente, in particolare Germania ed Inghilterra, aveva tuttavia trovato il modo di spolparlo il più possibile senza farsi scrupolo di eliminare nel sangue qualsiasi opposizione, com’ é di fatto accaduto.

A questo proposito, mi viene da pensare che se tutti i popoli africani pretendessero di essere ripagati per tutto ciò che hanno subìto e per tutto ciò di cui son stati depredati, noialtri dovremmo almeno accoglierli nei nostri civili Paesi nel modo migliore possibile. Invece quelli che arrivano, molti dei quali nei modi drammatici che sappiamo, non solo pretendiamo che se ne stiano buoni buoni a debita distanza dal nostro perbenismo spesso ipocrita e si adattino il prima possibile alla nostra “civiltà” spesso solo di facciata, ma quelli che vediamo per strada e che magari non sono ben “educati” come lo saremmo noi, zozzoni e marci dentro, vorremmo che sparissero dalla nostra delicata presenza.

Nell’ articolo si legge di stupri e campi di concentramento. In questa porzione di terra africana la Germania organizzò il primo genocidio del XX secolo, anticipando i metodi nazisti che certi cervelli marci da lì a poco avrebbero messo a punto.

Oltre che rabbrividire, ho provato sopratutto una profonda indignazione per il livello di perversione che l’essere umano é capace di raggiungere. Se a qualcuno viene da piangere, non si trattenga. Magari le lacrime possono ancora aiutarci a cambiare finalmente atteggiamento verso questa povera gente che scappa da situazioni di vita disumane.

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Namibia.Quando i tedeschi fecero le prove della Shoah

di Tonia Mastrobuoni

Gli occhi chiari si intuiscono anche nella foto in bianco e nero. Israel fatica a rimanere serio davanti a quel ricordo sbiadito di suo padre che ha appeso in soggiorno, vicino a immagini della sua infanzia in Namibia e di donne Herero in costumi tradizionali. Nel ritratto si vede un africano bellissimo, dallo sguardo fiero. Ma sotto il naso spiccano un paio di baffetti da Hitler. Israel si stringe nelle spalle, sorride imbarazzato: «Non so perché li portasse così, i miei figli mi hanno sempre chiesto di coprirli».

Israel Kaunatijke ci accoglie nel suo coloratissimo appartamento profumato di spezie, nel cuore di Berlino. È un discendente degli Herero namibiani: insieme ai Nama furono il primo popolo sterminato dai tedeschi, oltre un decennio prima del massacro degli armeni nell’Impero ottomano. Il primo genocidio del Ventesimo secolo, dunque, non fu organizzato dai turchi, ma dai generali di Guglielmo II. Nella più importante colonia tedesca in Africa due minoranze ribelli furono sterminate con acribìa e sistematicità teutonica. Solo che la Germania fatica a ammetterlo.

Due anni fa ha votato persino una risoluzione in Parlamento per riconoscere il genocidio degli armeni del 1915. Rimuove però il proprio, triste primato dello sterminio in Namibia del 1904. Israel proviene da un popolo quasi cancellato dalla faccia della terra: in quattro anni gli Herero furono decimati da circa 90 mila a poco più di 15 mila. Sa di avere sangue tedesco nelle vene, sangue dei colonizzatori. Stuprarono migliaia di donne della sua etnia – «compresa, forse, mia nonna». Vive a Berlino da oltre quarant’anni e si considera «l’unico Herero della Germania». Ma la diaspora del suo popolo dura fino ai nostri tempi.

Negli anni 60, quando lasciò il suo Paese, Israel si buttò a capofitto nelle battaglie contro l’apartheid, e scoprì solo tardi la tragedia del suo Paese. Ma da allora l’attivista oggi ottantenne è instancabile. Lotta perché al suo popolo «venga riconosciuta un’indennità e una parte delle terre rubate dai tedeschi: ci vivono ancora i loro discendenti!». Gli occhi azzurri di suo padre sono quelli dei bianchi del neonato Regno tedesco, che applicarono al suo popolo una strategia dello sterminio studiata a tavolino e perfezionata in una famosa battaglia, quella di Waterberg. Ormai, dopo anni di ricerche, Israel ha scoperto che suo nonno si chiamava Otto Mueller ed è ancora sepolto nelle terre strappate ai suoi avi africani.

Israel sa che i teschi e gli scheletri degli Herero e dei Nama – che sta cercando in tutta la Germania da anni perché siano restituiti al suo Paese – furono portati un secolo fa nelle università e nei laboratori del Reich da medici che insegnarono anni dopo la loro “scienza” anche ad un certo Josef Mengele. I resti mortali di presunte “razze inferiori” dovevano dimostrare la superiorità di quella bianca. Erano gli anni del socialdarwinismo, delle deliranti teorie sullo spazio vitale, cui si aggiunse qualche anno più tardi l’ossessione per lo sterminio degli ebrei. Teorie che i medici e gli scienziati dell’epoca come Eugen Fischer cercarono di dimostrare raccogliendo prove in Africa.

Facendo spedire in Germania teste mozzate dei prigionieri Herero e Nama e scheletri di bambini detenuti negli atroci campi di concentramento come quello di Shark Island. Aberrazioni delle pseudoscienze di allora, escrescenze maligne del positivismo di fine Ottocento. Israel sa anche che le crudeltà inflitte ai suoi avi scaturivano dai bisogni predatori di una Germania appena unificata, giovane, affamata di terre lontane, ricchezze e materie prime. Sa che nel suo Paese natale si tendono ancora a nascondere i primi campi di concentramento della Storia e le fosse comuni. E quei baffetti sulla foto del padre devono sembrargli una beffa del destino.

Gli storici sostengono – inascoltati – che tra il massacro in Namibia degli Herero e dei Nama e quello degli ebrei nel Terzo Reich ci sia un filo diretto, che il genocidio in Namibia possa essere considerato l’anticamera dell’Olocausto. Tanti soldati che combatterono in Africa andarono poi a formare le milizie dei Freikorps, la teppaglia antisemita e anticomunista degli albori del nazismo. Tanti scienziati furono i professori dei macellai dell’eutanasia, del genocidio degli ebrei e della selezione della razza del Terzo Reich. L’”igiene razziale”, il divieto di mescolarsi con gli africani, fu imposta anche in Namibia. Eppure, la riluttanza a riconoscere questa continuità è gigantesca.

Nonostante l’autorevolezza di chi ha sempre sostenuto questa tesi, che si è irrobustita nei decenni fino a diventare una certezza per lo storico Jürgen Zimmerer. «Non possiamo più considerare i dodici anni del nazismo una parentesi tragica: c’è un prologo» spiega il professore dell’Università di Amburgo, specialista del colonialismo. «La differenza della Namibia con gli altri colonialismi è anzitutto il genocidio come guerra dello Stato, e non come espressione di violenza privata. Lo sterminio di Herero e Nama non è un effetto collaterale: è l’obiettivo, è una pulizia etnica sistematica e centralizzata».

Del resto, ad individuare nel colonialismo le radici della violenza collettiva esercitata sugli ebrei fu Hannah Arendt, già nel 1951. Ma il dibattito pubblico stenta a decollare persino un secolo dopo. Le scuse alla Namibia arrivate finora dalla Germania sono debolucce: un sottosegretario nel 2004 e un portavoce del ministero degli Esteri nel 2015. E di risarcimenti neanche a parlarne. Per Israel lo scandalo è che si sia finalmente istituito un negoziato tra Germania e Namibia, ma che gli Herero e i Nama non siedano al tavolo: «Trattano del genocidio contro di noi senza di noi, non è assurdo?».

Nel 1950 il grande scrittore della Martinica, Aimé Césaire, scrisse che ciò che rendeva inaudito l’Olocausto «è l’umiliazione dell’essere umano bianco, il fatto che Hitler abbia applicato all’Europa metodi colonialisti che sino ad allora erano stati riservati esclusivamente agli arabi d’Algeria, agli indiani, ai neri africani». Ma se la Germania non riesce a fare i conti con la Namibia, secondo Zimmerer, «è anche perché significherebbe aggiungere un altro capitolo e un altro genocidio alla nostra già pesante storia, mentre molti preferiscono coltivare l’idea che abbiamo giocato un ruolo marginale, nel colonialismo». D’altro lato, aggiunge, «si rischierebbe di scatenare una reazione a catena di richieste di riparazioni e risarcimenti, che potrebbe travolgere anche altri Paesi ex colonialisti».

All’inizio del secolo scorso, la Namibia, detta “Africa Sudoccidentale”, sembra una colonia come le altre. La sua è una storia ordinaria e squallida di espropri, violenze, stupri. Ma il governatore Theodor Leutwein, tutto sommato, crede più nella diplomazia che nel terrore. Anche lui ha istituito, come tante potenze, un protettorato basato su razza e schiavitù, ma è convinto che i namibiani siano una forza lavoro indispensabile. Le cose cambiano drammaticamente con le prime rivolte degli Herero e dei Nama, nel 1904. Berlino si spazientisce e manda giù il suo sterminatore, una sorta di antenato di Göring e Heydrich, il famigerato Lothar von Trotha.

Il generale sassone si è già distinto per straordinaria spietatezza in Cina e in altre colonie africane. Quando arriva in Namibia non ha un’idea chiara su come battere i rivoltosi, ma è lucido sull’obiettivo: condurre «una guerra di razza», costringendo gli africani a «ritirarsi attraverso il terrore e la crudeltà»: le insurrezioni «devono essere represse in un bagno di sangue». Quando il governatore Leutwein cerca di dissuaderlo, ricordandogli che l’Impero ha bisogno dei lavoratori africani, Von Trotha taglia corto: fate lavorare i bianchi. È lì il germe dello sterminio: l’idea che le popolazioni autoctone siano superflue. Cui si aggiunge, osserva Zimmerer, «l’ambizione di germanizzare il Paese», spazzare via la cultura africana per innestarvi la propria. È questa la definizione classica di “genocidio”, ricorda lo storico.

La prova generale dello sterminio è la battaglia di Waterberg, 11 agosto 1904. I tedeschi sconfiggono gli Herero, ma non si accontentano della vittoria militare. Cominciano a spingerli verso il micidiale deserto di Omaheke. Per farli morire di fame e sete. Un rapporto militare dell’epoca narra di «uomini, donne, bambini malati, apatici, stremati dalla stanchezza, che aspettavano immobili e morti di sete il loro destino sdraiati nei cespugli». I soldati che li trovano così, li ammazzano. Contemporaneamente, vengono istituiti i campi di concentramento e forse il primo campo di sterminio, Shark Island, dove muoiono soprattutto i Nama. In autunno arriva anche l’ordine che formalizza il genocidio. Von Trotha lo emana il 2 ottobre del 1904. È passato alla storia come “ordine del genocidio” o “ordine dell’annientamento”. Il generale impone di sparare a vista a qualsiasi Herero: «Devono lasciare il Paese» oppure «li fucileremo».

Nel frattempo, quelli reclusi nei campi di concentramento sono costretti a lavorare per le aziende tedesche in condizioni atroci. A Shark Island, dove sono rinchiusi circa duemila Nama, l’intento di farli morire di stenti è espresso a chiare lettere nell’ordine di un comandante, Berthold von Deimling: «Nessun Nama lascerà vivo Shark Island». Lo scopo non è farli lavorare: è sterminarli. Le foto dell’epoca mostrano uomini, donne e bambini scheletrici, buttati a terra come stracci. I morti vengono portati via a mucchi, nelle carrette spinte a mano. Ai malati di dissenteria o scorbuto che non riescono a mangiare viene detto «uccellino mangia o muori». È anche la mancanza di qualsiasi forma di empatia da parte dei tedeschi, la sistematica “disumanizzazione” degli africani, considerati meno di bestie, che colpisce, nei crudi resoconti dell’epoca. Un altro indizio che porta dritto dritto ad Auschwitz.

NO ALLA GUERRA anche coi nostri soldi, pochi o molti che siano

Da un’ intervista a Paolo dell’ Oca di “Le Nius”

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di Ugo Biggeri

Il rifiuto della guerra è un punto cardine nella storia della finanza etica moderna e lo è anche per Banca Etica e per Etica Sgr, che fa parte del Gruppo Banca Etica.

Nel nostro caso il no alla guerra si traduce nel NON FINANZIARE GLI ARMAMENTI, LA LORO PRODUZIONE E COMMERCIO, e in generale cercando di ridurre tutte quelle potenzialità di conflitto che poi generano le guerre.

Pensiamo alle disuguaglianze Nord-Sud che portano alle migrazioni e agli spostamenti, alle questioni energetiche, che sono molto spesso dietro alle guerre.Pensiamo ai cambiamenti climatici.

Se vogliamo evitare le guerre del futuro, dobbiamo muoverci oggi per i cambiamenti climatici. Essere contro la guerra non è una scelta che si fa quando scoppia una guerra, ma prima. La finanza etica lavora in un’ottica di medio e lungo periodo.

Nella storia della finanza etica, nel mondo, il primo fondo moderno con attenzione a ciò che oggi chiameremmo Responsabilità d’impresa fu il Pax World Fund dei Quaccheri negli Stati Uniti, negli anni ’30. Dopo sono arrivate le guerre nel Vietnam e il movimento pacifista che ha deciso di disinvestire dalle imprese che facevano affari con la guerra.

In Italia il tema del pacifismo e di un approccio nonviolento alla risoluzione dei conflitti è sempre stato centrale, e fu determinante anche nella fondazione del Gruppo Banca Etica.

Si può essere contro la guerra facendo in modo che i propri soldi non finanzino le bombe cluster o gli armamenti che servono alle armi nucleari. Si può essere pacifisti non finanziando nessun tipo di arma offensiva. Etica Sgr lo fa da sempre, abbiamo tolleranza zero sul finanziamento delle armi da guerra. Non finanziamo la produzione e il commercio di armi, né quelle realtà che possiedono anche percentuali piccole di fabbriche di armi e neanche chi ha parti di fatturato che dipendono dalla collaborazione con la produzione di armamenti.

È una scelta molto forte. È possibile essere contro la guerra attraverso le proprie scelte finanziarie dunque, non tanto per il piccolo o il poco che possiamo fare spostando singolarmente i nostri soldi, ma perché spostandoli in tanti si fa la differenza. Nell’agire comune si crea quella base culturale che poi renderà possibili cambiamenti politici.

La scelta del piccolo consumatore è magari minimale rispetto ai grandi volumi mondiali ma è fondamentale per innescare il cambiamento culturale. Tutti i grandi cambiamenti sono partiti da pochi attivisti che sono diventati poi sempre di più fino ad essere maggioranza. Basti pensare al voto alle donne.

La finanza etica è contro la guerra anche operando per evitare che nel mondo ci siano quelle cause di disuguaglianza che poi possono portare a crisi belliche. Mi riferisco, ad esempio, alle attenzioni sui cambiamenti climatici o anche alla giustizia e all’equa distribuzione delle risorse nel mondo.

La guerra crea disuguaglianze. Non possiamo dire che con le guerre si guadagna, le guerre in generale fanno perdere tantissimo. Però in finanza, dove si possono spostare capitali velocemente, quindi dove non hai il problema di avere una produzione, dove sposti le risorse da una attività ad un’altra, volendo, con la guerra si guadagna moltissimo perché basta investire in tutte le imprese che dalla guerra guadagnano – dalle industrie in armamenti alla difesa in generale.

Nella guerra che stiamo vedendo, ad esempio, investire nell’estrazione di fossili, per quanto negativo, potrebbe portare guadagni nel futuro, perché potrebbero schizzare alle stelle anche i prezzi alla fonte. Si può fare soldi con la guerra e il mestiere della finanza non è fare i soldi laddove si fa meno male ma farli dove si fanno, che sia estraendo carbone o producendo armamenti. O noi gli diamo un indirizzo diverso oppure i soldi vanno dove si guadagna di più. Anche i nostri soldi, se non ce ne preoccupiamo.

Nell’ attuale guerra in Ucraina abbiamo visto il nostro Paese improvvisamente diventato ‘guerrafondaio’, che ha dato importanza ad una risposta militare molto forte. Parliamo di aumentare le spese della difesa italiana, che non si capisce cosa c’entri con questo conflitto, come possa aiutare a non avere guerre. Da questo punto di vista siamo tornati indietro rispetto agli anni ’70 e ’80, dove la consapevolezza del rischio di una guerra nucleare aveva fatto fare passi da gigante e aveva portato allo smantellamento anche di alcuni sistemi di armi.

Nel ’95 c’è stata la messa al bando delle mine anti-uomo, un passaggio importante, invece ora sembra che l’unica risposta sia quella bellica. Come dicevo prima, le risposte non si preparano nel momento in cui c’è la crisi bellica. Inviterei tutti a riflettere che non è che dando più armi a una delle parti si ridurranno la guerra, le sofferenze e i morti, perché è inevitabile che si abbia una escalation del conflitto.

Sappiamo in questo caso che da una parte si può arrivare fino all’utilizzo di armi nucleari, quindi c’è da stare molto attenti a dare più armi per poter far finire una guerra. Non è mai successo che dando più armi le guerre finiscano. Questo non vuol dire che non sia ragionevole aiutare chi si difende, che si facciano le sanzioni economiche, che si intervenga alle Nazioni Unite. La parte di aiuto vero alle popolazioni è una parte importante di un percorso di risoluzione non violenta.

È chiaro che se si mescola il fatto che contemporaneamente arrivano sia aiuti umanitari sia armi poi diventa più difficile – anche mediaticamente – distinguere i piani. Non ci si improvvisa su questo, abbiamo una legge ‘morta’ in parlamento sui Corpi di pace, da 10 anni dovremmo avere formato gruppi di civili capaci nei conflitti di fare forza di interposizione non violenta.

Ci sono anche i soldi, 9 milioni di euro, e non sono stati spesi: osservatori che impediscano violazioni dei diritti umani in una guerra non li prepari dall’oggi al domani.

Come può, quindi, la finanza etica essere efficace contro la guerra?
In primis, come abbiamo detto prima, possiamo scegliere cosa fanno i nostri soldi, “cosa fanno la notte”, cosa fanno rispetto a un mondo in cui oltre a conflitti violenti ci sono fortissime disuguaglianze, paesi ricchissimi in cui la popolazione è poverissima.

Dobbiamo lavorare per un ordine economico diverso a livello internazionale, è importante porsi queste domande quando si decide di investire: STO CONTRIBUENDO A UNA SITUAZIONE DI INGIUSTIZIA OPPURE NO? Farsi questa domanda è già qualcosa di efficace per costruire la pace.

In questi momenti poi l’insegnamento che viene della nonviolenza ma anche dalla finanza etica – in Italia sono fortemente legate – è che si deve sempre cercare di non chiudere i ponti con la parte avversa.

Ripensando al conflitto balcanico, quello ucraino ha una situazione che si legge più facilmente rispetto a quello che succedeva nei Balcani, c’è un aggressore. La nonviolenza ti insegna a cercare di capire le ragioni anche dell’aggressore. Questo sforzo non viene fatto. Pur condannando senza se e senza ma e con forza l’intervento della Russia, è importante capire perché hanno sbagliato e hanno fatto una guerra. Questo sforzo di discernimento è tipicamente nonviolento e può aiutare a risolvere i conflitti.

Trovo più pragmatico il presidente ucraino Zelensky, che fa il suo mestiere, attacca la Russia ma non chiude mai la porta, mentre sembra quasi che l’Unione Europea e gli Stati Uniti abbiano già chiuso la porta non soltanto ora ma anche in futuro, con sanzioni che rimarranno per sempre. Questo non aiuterà a risolvere il conflitto.

Ecco, trattare è un imperativo della nonviolenza, cercare di capire le ragioni di tutti, anche di chi sbaglia, per dargli una via d’uscita. Se l’unica via d’uscita a cui pensiamo è che Putin cada e la Russia si arrenda, la guerra continuerà per molti anni e potrà peggiorare ulteriormente. Non possiamo fingere di non sapere che abbiamo di fronte uno Stato ben armato da un punto di vista nucleare. Tutto questo ha forse più a che fare con la nonviolenza che con la finanza, ma anche la finanza può fare molto oggi, puntando ad esempio maggiormente verso le energie rinnovabili, e non sui rigassificatori, che diventano in guerra dei potenziali bersagli.

Per saperne di più:
https://www.bancaetica.it/

Riguardo al diffuso (e spesso non ammesso) disagio dei preti

di Piero Murineddu

Oggi Giovedi 14 aprile,  Santo in quanto é in queste ore che si compie il “destino” che il Maestro ha liberamente scelto di accettare. Giorno in cui si fa memoria dell’ ultimo momento conviviale vissuto da Gesù il nazareno coi suoi amici più stretti e in cui la tradizione della Chiesa afferma che sia stato istituito il ministero dell’Ordine, dell’  “andate e predicate, lavandovi i piedi gli uni con gli altri”.

In mattinata i preti si sono ritrovati nella chiesa cattedrale di ogni città per vivere insieme al proprio vescovo la Giornata sacerdotale.

Giusto a proposito, nei giorni scorsi ho buttato l’ occhio su un dossier pubblicato un anno fa circa dalla rivista  “Il Regno” incentrato su un particolare aspetto dell’ essere prete, cioè su umanissime situazioni in cui anche lui, come tutti, si può trovare a vivere, quali disagio esistenziale, solitudine, esaurimento emotivo, senso di frustrazione, inadeguatezza…

A ben vedere, malesseri spesso non confessati e tenuti nascosti che favoriscono tante mediocrità spirituali, tante pesantezze umane, tante fragilità ed anche deviazioni.

Riporto di seguito la lunga analisi firmata dallo psichiatra Raffaele Iavazzo, con la convinzione che chi avrà la pazienza di leggere sino alla fine, troverà tanti motivi d’ interesse per chi continua a ritenere importante questa particolare figura, e non solo all’ interno delle comunità cattoliche. Magari vi troverà pure rinnovate motivazioni per avere maggiore comprensione e benevolenza per chi si é preso l’ impegno, tutt’ altro che facile, di fare appassionare gli altri all’ esempio e al messaggio lasciatoci dal Maestro. Sempreché, beninteso, questa passione l’ abbia per primo lui, il prete.

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Sui disagi vissuti e spesso nascosti del prete

di Raffaele Iavazzo

Sono anni che mi occupo dei disagi dei chierici. Sono disagi piccoli e grandi; a volte sono disagi grandi che nascono da questioni comuni come la solitudine, la delusione, la stanchezza e lo stress. Proprio come succede a tutti. E questo già è un primo discrimine, perché ci sono persone che, per l’aura di particolare rispetto da cui sono circondate, non possono consentirsi di avere i problemi che hanno tutti. Sono persone che la nostra stima mette su un piedistallo, il che solo all’apparenza esprime un particolare riguardo, perché nella realtà significa metterle sotto una lente speciale con il filtro di una particolare severità. Sia ben inteso, io non parlo qui di quelle situazioni scabrose in cui si verificano comportamenti indegni non solo di un particolare contesto come quello ecclesiale, ma di ogni agire maturo e civile, come nel caso delle violenze sessuali, di cui parlano le cronache.

Mettiamoci subito d’accordo sul fatto che non si può fare di ogni erba un fascio e che c’è una moltitudine di presbiteri che vive la bellezza della propria vocazione nella fedeltà quotidiana della loro donazione.

Sono un medico psichiatra e quindi la mia esperienza mi mette a contatto con quello che non funziona, e riguarda la sofferenza che nasce dalla perdita dell’equilibrio psichico per molteplici variabili.

Quello che noto abbastanza puntualmente è che la sofferenza nasce e si sviluppa in una condizione di particolare solitudine. È innanzitutto una solitudine di pensiero: essere dentro una realtà in cui si deve rendere conto solo al proprio giudizio, fare affidamento solo sulle proprie forze, non avere obblighi che a sé stessi, in cui nessuno è più compagno di strada, meno ancora amico, ma antagonista da cui guardarsi, secondo il monito di Bauman.

Solitudine a volte legata alla personalità del soggetto, o volutamente costruita, altre volte colpevolmente indotta per abbandono, opposizione o dinamica di potere.

Solo a sofferenza conclamata c’è l’allarme del contesto e la preoccupazione di chi sta o di chi dovrebbe stare vicino. È probabile che la sofferenza proceda secondo le modalità della china scivolosa, per passi lenti e impercettibili, per cui non c’è subito una consapevolezza piena, nella stessa persona a disagio.

Conosco tante storie personali e posso dire che sono storie in cui c’è stata scarsa condivisione. Un tempo l’azione del presbitero avveniva in ambienti relativamente circoscritti ed era riconosciuta e gratificata e questo lo aiutava a mantenere la propria identità. Oggi i confini, anche grazie ai nuovi strumenti di comunicazione e alle esigenze della vita moderna, si sono immensamente dilatati, le pressioni del mondo esterno sono diventate enormemente più forti e il chierico, specie se giovane, è assai meno protetto.

Ma anche le comunità si sono indebolite e sono diventate contesti in cui capita sempre più di rado di confrontarsi da un punto di vista identitario, con la conclusione che le si assume sempre meno come validi indicatori morali.
Anzi, in molte occasioni, per mia esperienza, sono diventate esse stesse generatrici di una messa in discussione della propria vocazione.

Soli con i propri problemi

Ho visto comunità i cui pochi membri sono in evidente difficoltà di relazione e quasi desiderosi di evitarsi.

Il presbitero spesso si ritira la sera stanco, dopo una giornata di fatiche a volte infruttuose, di frustrazioni, di tentazioni, e non ha nessuno con cui parlarne, a cui chiedere un consiglio. Anche i laici, che collaborano con lui e con cui egli ha un rapporto autentico, lo guardano comunque come uno che sta da un’altra parte; non dico estraneo, ma certamente non come un fratello da aiutare.

A volte il pensare a lui come a una guida temo che sia un alibi per farsene meno carico.

A dargli sostegno gli rimangono i confratelli e i superiori. Ma, per quanto riguarda i primi, sono presi ognuno dalla propria attività e dai propri problemi. La comunità, di fatto, resta spesso un’etichetta senza contenuto. I presbiteri procedono di solito in ordine sparso. Un senso generico di fraternità, che comunque sussiste tra i membri del presbiterio, non impedisce il sorgere di incomprensioni, di conflitti personali e di posizioni distanti, che a volte finiscono per cronicizzarsi e produrre tante ferite. E così ognuno resta da solo alle prese con i propri problemi.

Quanto al superiore, ormai, nella società contemporanea, non è una figura invidiabile: egli si trova ad affrontare problemi di ogni tipo. Deve essere un uomo di spiritualità, ma, di fatto svolge anche un ruolo amministrativo e di funzionario, in relazione con altre autorità del suo mondo e di quello civile. Ci si aspetta che sia un maestro, vicino alle difficoltà personali dei suoi collaboratori e capace di orientare anche dottrinalmente la sua comunità, specialmente in questo periodo di transizione, ma al tempo stesso ha compiti di indirizzo e di vigilanza sul bilancio economico della sua comunità, con gli annessi problemi giuridici e finanziari, che diventano sempre più complicati. Deve cercare di non apparire troppo, ma si sa che non può fare a meno di un certo presenzialismo anche per i suoi compiti più specifici, di rappresentante e di pastore. Insomma, non c’è da stupirsi se si perde in qualche sentiero di questo accidentatissimo percorso.

Da questo quadro si capisce il perché dell’isolamento in cui molti presbiteri vivono. Un isolamento che favorisce tante mediocrità spirituali, tante pesantezze umane, tante fragilità, tante deviazioni, da quelle meno gravi a quelle gravissime, di cui poi si parla sui giornali.

Quando ho iniziato la professione i presbiteri arrivavano a me pieni di consapevole prestigio, facevano riferimento a comunità numerose e piene di relazioni, anche influenti. Provenivano da seminari in cui la vita era prorompente e ricca di stimoli.

Poi, non so quando è accaduto, la trama di questo tessuto è andata sfilacciandosi, il ruolo si è fatto più sbiadito, i problemi sono accresciuti e le comunità si sono svuotate, lasciando ai loro posti personaggi sempre più soli, più vecchi e più poveri di tante risorse. So che a un tratto anche il linguaggio è cambiato, essere preti non è garanzia di una certa omogeneità di studi, e di formazione, anzi.…

Nel modificarsi degli scenari sociali

C’è stato un moltiplicarsi di riferimenti e di culture, vedi ad esempio l’internalizzazione di alcuni istituti missionari, e questo, se non si fa attenzione, può spingere a guardarsi ponendo l’accento su ciò che divide e non su ciò che arricchisce.

Cambiano i cicli di vita: un tempo la crescita era scandita da riti di passaggio ben precisi. Oggi, invece, il processo di crescita non ha più confini precisi e la transizione da una fase all’altra della vita sembra non determinare più la rottura dell’appartenenza con la precedente età.

Questa perdita dei confini ha aspetti positivi e negativi. Il fluido attraversamento dei confini da una fase all’altra risulta un importante stimolo, purché diveniamo capaci di flessibili aperture, e dalla parte opposta, la confusione all’interno del ciclo di vita rischia di condurre l’individuo o all’isolamento dal contesto, o allo stazionamento in una fase del percorso evolutivo e al rifiuto dell’attraversamento delle «frontiere», o a un nomadismo identitario involutivo.

Oggi c’è una richiesta continua di cambiamento. Appare sempre più evidente che per attraversare la vita adulta non è più sufficiente fare affidamento sulle esperienze accumulate in precedenza, in quanto le incessanti modificazioni degli scenari sociali (dovute al ritmo di accelerazione del cambiamento) impongono rimescolamenti delle aspettative di ruolo, riattribuzione dei significati dell’età e ridefinizione della propria appartenenza all’età e alla generazione. Questo vale anche per chi sceglie la vita sacerdotale.

Coloro che fanno i formatori dovrebbero guardarsi dal pericolo che la scarsità delle vocazioni possa fare allargare le maglie della selezione, al contrario di un tempo, quando si sono visti comportamenti troppo severi, al limite dell’accanimento; di questo nessuno ha rimpianto, per cui non si tratta di spingere il reclutamento nelle fauci dell’irragionevole.

Credo che possiamo essere d’accordo sul fatto che ci sono delle qualità indispensabili per essere ammessi a un servizio e a una vita tanto delicati. Se fosse possibile fare una lista dei problemi da evitare, partirei dall’insufficiente maturazione emotiva, che spesso funziona come una bomba a orologeria, nel senso che i suoi effetti deflagratori si vedono a distanza e quando meno se ne ha bisogno, aggiungendo subito dopo l’incapacità a reggere relazioni sociali coinvolgenti o al contrario la tendenza all’eccessivo coinvolgimento nelle problematiche altrui, per cui diventa difficile distinguere quello che è soggettivamente vissuto da quello che è oggettivamente possibile o impossibile.

In qualsiasi realtà ecclesiale, ai giorni d’oggi, il presbitero, o qualsiasi altro religioso, fa i conti con condizioni fisiche, politiche e culturali per cui è necessaria una buona tolleranza alla frustrazione, con una sufficiente capacità di elaborare i limiti o gli insuccessi, senza viverli ogni volta come una propria responsabilità.

Il tema della responsabilità

I giovani, da parte loro, dovrebbero cominciare il loro percorso formativo con un sano discernimento circa le motivazioni di una tale decisione, escludendo un inconsapevole desiderio di fuga da responsabilità altrove individuate o la ricerca di un «luogo» dove più tranquillamente approfondire la conoscenza di sé, senza gli assilli che altre scelte comportano, o un subdolo desiderio di esercitare potere decisionale sugli altri, con una pericolosa sindrome del «salvatore», con un’idealizzazione delle proprie capacità e del proprio ruolo. Sia ben chiaro: questi non sono pericoli assoluti. Ciascuno di noi ha fatto i conti con queste evenienze, e probabilmente siamo partiti proprio da certe caratteristiche per valutarle ed eventualmente correggerle, misurando il senso delle nostre motivazioni per meglio adeguarci.

Nella mia relazione con certi pazienti chierici un problema con cui debbo fare frequentemente i conti è il posto dell’azione individuale.

Ci sono due modi di pensare, uno che trova il senso dell’agire individuale ricercandolo in una realtà al di sopra dell’individuo come Dio, la società, l’istituto, la comunità che lo ospita, e l’altro che riconosce all’individuo di essere generatore di senso delle scelte che fa.

Questo porta direttamente al tema della responsabilità, cioè alla nostra capacità di rispondere, di riconoscere e di scegliere possibilità e limiti di quel campo di relazioni che ci costituisce in un certo momento.

Ma che aiuto dà la formazione dei presbiteri al tema della responsabilità? Quali sono i suoi percorsi, le sue esemplificazioni, i suoi allenamenti, la verifica della sua crescita e impegno? Il futuro presbitero è libero da preoccupazioni economiche, libero dalle comuni inquietudini che affliggono i suoi coetanei, a partire da quella della ricerca di un lavoro e fatica di mantenerlo, in un contesto di continua autoreferenzialità, con l’unico compito di accreditarsi come persona degna di cooptazione, prima che di merito.

Lo stesso concetto di vocazione si gioverebbe di essere accompagnato da quello della responsabilità che ne deriva. Che posto ha nella formazione il principio del distacco e della spoliazione del sé?

Il distacco è un principio centrale per una vita di libertà e di donazione e ci guida nella scelta delle priorità e delle cose che contano, nel sentirsi co-creatore, con la gioia che ne consegue, ma anche creatura, che è dentro la logica della grazia.

Qual è la nostra capacità di agevolare i talenti e non la conformità, la creatività nella ricerca del bene e non il pavido mimetismo per timore di perdere il consenso?

La nostra identità è un processo di costante negoziazione tra parti diverse del sé, tempi diversi del sé o ambienti diversi o sistemi diversi di relazioni, in cui ciascuno di noi è inserito. Essa è fatta dalla capacità di tenere insieme le nostre parti diverse. Alcune richiedono scelte che non sono consapevoli. Ciò che siamo non dipende solo dalle nostre intenzioni, ma dalle relazioni in cui queste intenzioni si situano. Siamo dunque anche le nostre relazioni, quelle che accettiamo o che rifiutiamo, quelle che ci limitano o che ci arricchiscono. Questo richiede un grande sforzo di rimanere saldi nella propria identità nonostante tutti i mutamenti che ci vengono richiesti. Questo richiede un’affettività matura e solida.

Alcuni, invece, rimangono vittime di questi mutamenti: sono così dipendenti dalle relazioni che le assorbono acriticamente e si disperdono in mille frazioni senza ritrovare più la loro unità.

Quando i volti diventano maschere

A volte questo è vissuto con lentezza e si ha il tempo e le occasioni per chiedere aiuto e per riceverlo. Altre volte non si ha forza sufficiente per riconoscere la propria debolezza o difficoltà e si procede con apparente immobilità, moltiplicando i volti, che nel frattempo rischiano di diventare maschere, e i linguaggi, che non sono più tentativi adattivi a una società complessa, che esige di parlare più lingue, ma diventano recite funzionali a esprimere ruoli di facciata e a nascondere desideri che non abbiamo la forza di giustificare, in una nuova Babele in cui non sappiamo più se siamo vittime o carnefici in un gioco vuoto, in cui siamo diventati stranieri a noi stessi e agli altri, senza la speranza di compassione per sé e per gli altri e senza l’umiltà per chiedere il cambiamento.

In genere il laico è più libero di ammettere il gioco «perverso» in cui eventualmente è caduto e può ricominciare daccapo. Qualche volta in questo c’è il ruolo benefico di una compagna, che più direttamente ha vissuto il disagio di una metamorfosi dannosa per la convivenza.

Spesso il chierico è privo di questa rete di sostegno, perché nella comunità è più facile mimetizzarsi e perché non ci si sente liberi di ammettere il proprio «allontanarsi», perché le conseguenze negative per la comunità si caricano di significato morale e spirituale e la dimensione del disagio psicologico si associa a quella della colpevolezza, della responsabilità e perfino del peccato. E quando si trova il coraggio per affrontare anche le sfide che la dimensione clericale comporta spesso il gioco si è spinto troppo avanti e l’arrivo nello studio di una psicoterapia porta i segni di un disagio di vecchia data.

Nella mia esperienza trovo il chierico più solo nell’affrontare le difficoltà e più impacciato ad ammetterle, forse perché si sente meno libero, come se avesse l’obbligo di una maggiore immunità da certe debolezze, e lo ritengo più bisognoso di sostegno anche perché è più timoroso del cambiamento. Lo trovo più solo e anche meno orientato alla preghiera e alle virtù.

Il discorso sulla preghiera richiama la qualità del proprio progetto di vita in coerenza con la scelta di Dio, come unico e sommo bene, a cui dedicare, in un modo esclusivo, l’interezza della propria vita, in un rapporto personale e consapevole, di cui la preghiera si fa espressione e segno distintivo di una relazione e non di un ministero o professione.

Quando, invece, la preghiera è solo per rito, le parole si logorano e con esse si logorano i concetti che esprimono: più le usi e più diventano opache, se non incomprensibili, per la vuotezza che le assale e per la scarsa attenzione e credibilità che ricevono.

Per quanto riguarda le virtù, il loro riferimento può essere considerato, a prima vista, un discorso antiquato e non più di moda, ma a ben pensarci esso è l’unico che ci può far superare le tante difficoltà che la vita ci consegna; difficoltà di vita personale e di relazione, difficoltà spirituale e di azione nel nostro lavoro.

L’incoerenza sul celibato

Il discorso sulle virtù non può che partire da lontano, perché la virtù è una capacità operativa che richiede grande allenamento e non si può improvvisare. Per credere, sperare e indirizzarsi all’azione di disponibilità all’altro, bisogna attivarsi tutti i giorni e non senza fatica, così come essere giusti, prudenti, forti e coraggiosi nell’azione morale e temperanti ed equilibrati tra le istanze del nostro io e quelle della comunità. Ogni giustizia, ogni diritto, ogni dovere saranno diversamente vissuti, a seconda che si faccia riferimento alle virtù o alla loro esclusione.
Questo vale per tutti, medici e operai, giudici e artigiani, ma molto di più per chi ha scelto grandi ideali e una vita comunitaria, come sanno i genitori e i chierici. O dovrebbero.

Poi ci sono le situazioni scabrose. A sentire certe cronache e certe denunce, sembra che la Chiesa, maestra di umanità, tragga i suoi membri tra i peggio formati e senza più capacità di selezionare tesori di cultura. Una sorta di contrappasso, dopo anni di formazione insistente sulla necessità di essere superiori a ogni debolezza umana, per il distacco da questa terra, in una negazione ignara e dannosa (ora sappiamo fino a che punto) del fatto che essa ha pastori umani, e comprende nel suo seno peccatori ed è perciò, benché santa, sempre bisognosa di purificazione, come ricorda la Lumen gentium.

Possiamo discutere a lungo su molte questioni, e magari trovarci pienamente d’accordo sul fatto che non ci sia nulla di per sé indiscutibile, ma ci rimarrebbe sempre il compito di dare una risposta a questa realtà che sta sotto i nostri occhi, all’osservazione che la disciplina del celibato risulta diffusamente inosservata e con modalità molto imbarazzanti.l

Non dobbiamo muovere al celibato critiche generiche e superficiali, ma neanche dobbiamo farne un elogio acritico, che non gli fa giustizia e rischia di banalizzarne il significato di assoluto dono di sé che una creatura fa al suo Signore. Si tratta di considerare gli effetti di una continenza coatta, in una società profondamente modificata, in cui nulla è più paragonabile a un prima anche appena passato. Sono cambiati le nostre mappe mentali, la società, le condizioni e il significato dell’autonomia di un soggetto adulto, la relazione tra individuo e società.

Gli «esperti in umanità» possono raccogliersi a riflettere su cosa sia diventata la loro ricca esperienza, di fronte a uno scenario di corruzione su così larga scala e con un tale trasgressivo comportamento che tanto male fa alle nostre comunità?

Ha a che fare con quel monito del Signore: «Non è bene che l’uomo sia solo: voglio fargli un aiuto che gli corrisponda» (Gen 2,18)?

O ha a che fare con un’attitudine di autoreferenzialità di certi chierici, l’arroganza di sentirsi al di sopra di ogni regola, un perdersi senza controllo, senza critica, senza confronto, senza alcuna possibilità di tornare in sé, lontani dal giudizio degli uomini, ma evidentemente anche lontani dal giudizio di Dio?

E questo non riguarda solo presbiteri di periferia, ma anche presbiteri e prelati di elevata formazione, che forse hanno pure avvertito la vergogna della loro incoerenza e della loro paradossale ipocrisia.

I comportamenti trasgressivi

È sempre vero che il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato? O ha vinto il legalismo con la sua dottrina e i suoi codici, senza alcun riferimento allo spirito, su cui pure c’è stata tanta insistenza?

Il clamore di certi casi non fa bene neanche alla riflessione. Si tende a creare un clima dove è facile vedere il marcio dappertutto, a contaminare anche il più ingenuo dei gesti e dei rapporti e si diventa impacciati contro ogni ragione, condizionati e meno spontanei in ogni attività, specie quelle in cui le distanze sono più personali e intime.

E può accadere di sentirsi in colpa per ogni azione di sostegno a certe situazioni difficili, e di sentirsi richiamati unicamente da un dovere di denuncia, senza alcuna concessione all’obbligo di distinguere il peccato dal peccatore, passando dal colpevole eccesso di tolleranza all’altrettanto colpevole eccesso di intolleranza e di incapacità di comprensione.

La condanna della violenza sessuale deve essere così decisa da non dover avere imbarazzo a supportare il peccatore; la cura, l’attenzione sensibile e delicata alle vittime, la loro protezione, deve essere così premurosa da saper gestire senza equivoci e ambiguità di giudizio ogni azione di sostegno e di riabilitazione verso chi ha sbagliato.

Anche i figli più vicini provano dolore per una certa afasia delle istituzioni, che non sa dire parole di orientamento e di spiegazione, come se ci fosse la paura di un perdersi senza ritorno.

C’è bisogno di rimanere saldi nella speranza che la Chiesa sappia recuperare dalla sua storia millenaria e dalla preghiera quotidiana, che ancora la sostiene, la capacità di saper riconoscere come Davide il suo peccato e l’umiltà di confessare al suo Signore e pubblicamente la propria colpa.

L’esperienza di chi è chiamato a dare soccorso, spesso quando il peggio è già accaduto e magari da molto tempo, ci dice che alcuni arrivano in seminario con una storia che da sola avrebbe potuto e dovuto sconsigliare di proseguire sulla via del sacerdozio.

Altri hanno un percorso formativo di tutto rispetto e solo strada facendo sentono l’affievolirsi delle iniziali motivazioni, passando a un relativismo etico e alle logiche di un individualismo esasperato, fino all’indifferenza religiosa o alla perdita della fede.

Molti hanno costruito una doppia morale, con una dissociazione della loro coscienza, abbinando un comportamento disinvolto e trasgressivo, anche clamorosamente trasgressivo, alla paradossale dichiarata difesa del loro celibato, proclamandone la bontà e necessità e la disponibilità a sceglierlo di nuovo, se fosse il caso.

Altri, subendo la pressione che proviene da tanti lati, riconoscono che si sono arrangiati per come hanno potuto.
La carne è debole, gli ormoni sono tanti, le occasioni prossime pure, senza volerlo, senza pensarci, in solitudine, con una comunità magari fredda e distante; è accaduto e non senza dolore, un dolore che ha molti destini. Spesso un amico, un amico che può avere titoli e competenze diverse dal presbitero, dallo psicologo, dal medico, fa beneficamente la sua comparsa in scena.

La psiche e l’anima

Arrivano il confronto, l’uscita dalla propria solitudine e la possibilità di una rivisitazione in senso critico. A volte l’arrivo dell’amico è inutile perché l’abbandono di certe regole ha coinvolto un’altra persona che reclama chiarezza e coerenza. È utile solo per confortare e consigliare di non perdersi d’animo e per rimettere ordine.

Tanti rimangono prigionieri della loro turpe maschera e procedono con crescente, patologica disinvoltura, fino alla perdita totale di ogni consapevolezza, in una difesa disfunzionale che consente loro di vivere con apparente adattamento a una vita normale.

Bisogna avere pena per tutti questi, pena per la loro perdita di speranza e per l’inferno di sentirsi lontani dallo sguardo, dalla misericordia e dal respiro del Padre.

Tocca a tutti noi cercare e trovare rimedio per tanta sofferenza e per i molti che vi sono coinvolti. Sorprende che in tanti anni di evidente difficoltà non ci sia stato nessun significativo tentativo di affrontare il problema in modo pubblico, né a livello istituzionale, né a livello comunitario. Perfino la preghiera ne è sembrata distante, mentre il problema ha assunto dimensioni così macroscopiche da meritare un anno santo.

Qualche volta, nella solitudine, capita anche che si faccia confusione tra psiche e anima e che ogni problema venga riportato nell’ambito della direzione spirituale, e allora l’intervento dello specialista richiede una specificazione aggiuntiva, una diagnosi differenziale, che a un occhio non esperto sembra un’esagerazione, ma che nell’esperienza quotidiana è assai subdola e diffusa. Ho avuto in terapia persone dall’animo colto e delicato, che per me sono state fonti di edificazione, che io ho dovuto semplicemente rassicurare, riconoscendo alla loro condizione solo lo statuto della malattia, liberandole dall’angoscia di un tradimento della loro vocazione, solo perché si sentivano più apatiche nella preghiera e nel servizio, come capita tipicamente a chi ha una flessione nel tono dell’umore o riconosce pensieri intrusivi come nel disturbo ossessivo. Nella malattia alcuni sentono ancora di dover rispondere alla domanda: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori…» (Gv 9,1), dimentichi della risposta che già allora fu data, come per dire: «Non ritorniamoci più sopra».

Nel disagio psichico e nella possibilità di cambiare interviene una molteplicità di cause, perché esso coinvolge la persona nella sua globalità e a volte si perde tempo nella logica causale, che ha l’ingenuità di pensare che la malattia sia il risultato finale di una serie lineare di eventi, mentre quello che dobbiamo riconoscere è che essa risente del contributo di processi multipli che toccano la persona in profondità.

Quello che osservo in tante situazioni è che manca il linguaggio adeguato a esprimere le difficoltà e il corpo appare una buona scorciatoia per comunicare le cose che non vanno e di cui spesso non si ha neppure consapevolezza. Qualche volta si ha solo voglia che qualcuno si prenda cura di noi, perché siamo stanchi di soffocare per l’ennesima volta i nostri bisogni rinviati, di anteporre il servizio agli altri alle nostre esigenze personali.

La formazione e i cambiamenti

Qualcuno inizia, forse per la prima volta, un percorso di individuazione che lo porterà lontano, lungo un cammino con tante tappe di discernimento e di maturazione, con ripensamenti e con la ricerca delle motivazioni più consapevoli. In queste condizioni l’incontro con lo psicologo clinico si carica di particolare intensità umana, e alla professionalità dello specialista si chiede la grazia di una testimonianza, il conforto di una solidarietà meditata, un rito di accoglienza e di legittimazione, perché non si è totalmente dentro, ma neanche totalmente fuori, e al terapeuta si chiede una restituzione di senso, di essere ponte della narrazione del proprio sé, per essere aiutati a ricomporre i legami della continuità della propria storia, una sorta di riconciliazione psicologica. Quello che emerge è il bisogno di un ritorno nella propria comunità chiamata a essere la garante della propria identità, un ritorno a un cammino di visibilità e di riconoscimento, un bisogno di essere chiamato per nome e di rispondervi con l’idea di un impegno da rispettare.

Paolo VI, nella sua prima enciclica Ecclesiam suam (6.8.1964), scrive: «È a tutti noto che la Chiesa è immersa nell’umanità, ne fa parte, ne trae i suoi membri, ne deriva preziosi tesori di cultura, ne subisce le vicende storiche, ne favorisce le fortune. Ora è parimenti noto che l’umanità in questo tempo è in via di grandi trasformazioni, rivolgimenti e sviluppi, che cambiano profondamente non solo le sue esteriori maniere di vivere, ma altresì le sue maniere di pensare. Il suo pensiero, la sua cultura, il suo spirito sono intimamente modificati sia dal progresso scientifico, tecnico e sociale, sia dalle correnti di pensiero filosofico e politico che la invadono e la attraversano.
Tutto ciò, come le onde d’un mare, avvolge e scuote la Chiesa stessa: gli animi degli uomini, che a essa si affidano, sono fortemente influenzati dal clima del mondo temporale; così che un pericolo quasi di vertigine, di stordimento, di smarrimento può scuotere la sua stessa saldezza e indurre ad accogliere i più strani pensamenti, quasi che la Chiesa debba sconfessare se stessa e assumere nuovissime e impensate forme di vivere» (n. 28; EV 2/173).

Nessuno poteva prevedere la velocità di queste trasformazioni e nemmeno gli effetti. L’azione di quelle onde del mare l’hanno avvolta e scossa e anche isolata, sì che la sua parola si è fatta meno prestigiosa ed è caduta perfino in sospetto, dentro un contesto inquinato «dal pregiudizio che i cattolici non siano credibili, che abbiano interessi che non dichiarano, che la proposta di vita della comunità cristiana mortifichi l’umano, invece di esaltarlo, comprima la libertà invece di promuoverla», come ci ha ricordato l’arcivescovo di Milano mons. Mario Delpini (Omelia alla messa di inaugurazione della rinnovata sede del PIME di via Monterosa, 15.9.2019).

Nonostante la lucida premessa dell’Ecclesiam suam, la formazione del presbitero è andata avanti con una sensazione di assedio, e con un bisogno di protezione e di difesa.

Questo movimento di trasformazioni carico di energia ha spaventato la Chiesa e l’ha travolta, come capita quando il governo di certe situazioni non sa trovare la sapienza adeguata e si lascia prendere da disorientamento e ansia di perdere l’essenziale della propria storia, e magari si naviga a vista, con improvvisata preparazione e miope programmazione.

La scelta dei candidati

E ci siamo trovati, in tante occasioni, di fronte a una serie di eccedenze, l’eccedenza del personale sul comunitario, del fare sull’essere, del materiale sull’ideale, del prestigio della propria condizione sulla fedeltà ai valori e alla Parola, dell’interesse egoistico sul diritto e sulle regole. Quando le onde del pensiero, della cultura e dello spirito dell’umanità hanno condizionato la crisi delle vocazioni, forse alla selezione dei futuri presbiteri può essere subentrata la sindrome dello psicologo affamato. È questa un’espressione che una mia docente alla Scuola di specializzazione a Milano usava per intendere il condizionamento del bisogno, che all’inizio di carriera di uno psicologo gli fa accettare i casi al di là di ogni competenza.

Allora la prima regola che viene in mente per una adeguata formazione è la scelta meditata dei candidati al sacerdozio.

I criteri della scelta dei presbiteri hanno una lunga e variegata storia, ma fin dall’inizio c’è stata l’indicazione di alcune insopprimibili qualità, come l’irreprensibilità, la non arroganza, la sobrietà dei costumi, l’onestà, l’amabilità del carattere, l’assennatezza e la dottrina sicura. Si tratta di caratteristiche personali in cui non ci sono vincoli di etnia, di stato sociale, di età o di stato civile.

Sarebbe interessante studiare la storia di queste indicazioni, i metodi per accertarle e per averne cura. Di fronte al dilagare di tanti scandali, e non solo di ordine sessuale, viene da dubitare della sicura efficacia degli attuali metodi.

La valorizzazione dei laici fatta dal concilio Vaticano II avrebbe dovuto mettere i chierici in una migliore condizione, passando da un ministero di comando a un altro di servizio, ma l’effetto più evidente in tante occasioni sembra l’appiattimento del ruolo e dell’identità del chierico in una malcelata emulazione delle istanze laiche, perfino nella diversificata formazione e nell’ambito della sessualità. Forse a nessun’altra condizione di management è accaduto un destino di deriva così passiva e poco esigente nei criteri di selezione e di verifica delle attitudini e delle competenze dei propri membri.

Il calo delle vocazioni riconosce molti motivi. Personalmente credo che non sia stato ininfluente un aumento del senso critico verso il magistero e verso l’insistente difesa del suo storico potere, una diversa velocità tra pastori e gregge, una lettura non sincrona dei segni dei tempi, con l’introduzione di molti elementi che trovano il popolo di Dio e i suoi pastori su posizioni differenziate e sempre più distanti.

E, in molti casi, è accaduto che mentre i seminari cercavano, chi più chi meno, di darsi progetti educativi più adeguati ai tempi, le nostre comunità cristiane non assicuravano quell’affettuosa attenzione auspicata e che in tempi anche non lontani aveva garantito il crescere di nuove vocazioni al ministero presbiterale.

C’è stata una dissociazione culturale, da un lato il clero con le sue regole e il suo storico pensiero, dall’altro lato le comunità che avanzano con una maggiore autonomia di ricerca e di discernimento. I giovani presbiteri sono stati in mezzo, intrappolati e confusi in questa dissociazione.

Cambiare la formazione

I seminari hanno svolto una lodevole funzione per molti lustri e sono stati la culla di spiriti eletti. La Chiesa deve a loro stima e tanta riconoscenza. Ma il contesto in cui essi attualmente operano è radicalmente cambiato e la formazione avverte il bisogno di rimanere in stretto contatto con il popolo di Dio, condividendone pene e affanni, gioia di vivere e soddisfazione di sentirsi degni di essere custodi del creato e attenti al suo destino e a tutte le sue creature, innanzitutto a quella umana. L’apertura al mondo e alle sue istanze non è possibile senza una solida preparazione teologica e filosofica, che poggi solidamente sulla costruzione di quell’umano di cui la Chiesa è ancora maestra.

Forse per tutto questo i seminari devono accettare che è giunto il tempo di cambiare.

La scelta vocazionale è molto più personale e meno dipendente dall’aria che si è respirata in famiglia da ragazzo.

La famiglia, che un tempo sollecitava e accompagnava la vocazione, si è trovata in molti casi a essere un ostacolo o addirittura una negazione alla stessa, lasciando il giovane candidato in una solitudine anche culturale e spirituale, come se la famiglia avesse voluto proteggere i suoi figli nella convinzione che la sequela di Gesù non garantisse più un’esistenza compiuta e soddisfatta, assumendo invece la preoccupazione contraria, di fronte a tanti abbandoni e scandali.

In molti altri casi, invece, la famiglia è così disgregata da costituire un ambiente desolato e altamente problematico, in cui è il giovane a dover difendere con le sue sole forze le sue scelte e il suo progetto di vita.

Lo stesso modo di entrare in contatto con la Chiesa è cambiato e tutto questo ha ripercussioni nella rappresentazione sociale della figura del presbitero, nel modo di immaginarsi da parte dello stesso futuro presbitero. Chiesa e novello presbitero spesso si conoscono tardi, e per vie personali e senza il coinvolgimento del contesto ecclesiale, come se la chiamata riguardasse solo uno spazio privato, come se fosse scelta e non chiamata, quindi.

Il concetto di chiamata appare meglio rispettato nel contesto di un movimento ecclesiale o di un istituto religioso, ma le ragioni sia della formazione sia del proprio destino ne sono condizionate e ci troviamo di fronte a presbiteri che rispondono a ruoli particolari, per esigenze particolari, e viene da chiedersi se non si perda qualcosa di essenziale e di universale, come la capacità di portare Dio al mondo incarnando il Vangelo nella fatica del quotidiano vivere, rimanendo agganciati al presbiterio della comunità.

Il riconoscimento del sacerdozio comune a tutti i battezzati presente nella Lumen gentium è stato una grande affermazione di principio, ma con risultati molto deludenti sul piano della vita ecclesiale e della sua organizzazione. È migliorata la consapevolezza dei laici circa la loro vocazione, ma non è migliorata la coerenza della vita interna della Chiesa. La svalutazione relativa del valore del sacerdozio ordinato ha potuto far apparire come particolarmente pesante il suo costo sociale, come il celibato e la consegna della propria vita all’obbedienza all’autorità e alle sue norme.

Il contesto comunitario

Questo non spiega tutto: dobbiamo infatti considerare i mutamenti notevoli della società, con una messa in discussione generale delle tradizioni istituzionali familiari, sociali e religiose. Comunque, a una certa sordità e cecità di fronte a tanti mutamenti è attribuibile una buona responsabilità e ancora persiste una sorta di stupore e di disorientamento, che impediscono di trovare la via di una diversa organizzazione a correzione del tutto.

Il calo delle vocazioni, a sua volta, è diventato causa di altri problemi, perché la scarsità numerica ha messo in discussione non solo l’impegno a mantenere soluzioni abitative sproporzionate e diseconomiche, ma ha complicato anche il reclutamento di insegnanti di valore, con una svalutazione conseguente della proposta formativa e della sua continuità, senza citare la perdita del valore comunitario.

I seminari separano i candidati al sacerdozio dalla loro comunità familiare e sociale, mentre è nel contesto comunitario che si sviluppa la capacità di vivere rapporti che esprimono comprensione e affabilità, maturità oblativa, disponibilità a voler bene e a lasciarsi voler bene.

È nella comunità che si sperimentano i vantaggi della reciprocità e la sana gestione dei conflitti, il confronto dialogico e l’abitudine a non ritenersi la ruota del mondo, in uno stabile equilibrio tra le ragioni dell’io e del noi, unica premessa di libertà che non è mai distanza.

Nei seminari, quando le cose funzionano, possiamo immaginare il ruolo benefico della comunità dei formatori, scelti non solo per la loro bravura a essere insegnanti esperti, ma perché ritenuti maestri capaci di rappresentare un modello appetibile, testimoni affidabili della fatica del vivere, ma anche della sua bellezza e delle sue energie.

Non sempre e non dappertutto è così. Il più delle volte possiamo parlare di équipe formativa, sullo stile di un’accademia, di un corso di studi, con tappe programmate poco personalizzate, dove ci può anche essere una buona analisi introspettiva e psicologica, ma in cui l’individuo corre il rischio di ritrovarsi sostanzialmente solo e autoreferenziale nel rapportarsi alla volontà di Dio e alla sua Parola, nella cura della ricerca della sua volontà, nel lento discernimento del progetto che il Signore ha su di lui e il modo con cui egli lo guida attraverso i piccoli segni della vita di ogni giorno e della realtà.

La comunità educativa migliore per un candidato al sacerdozio è quella che si configura come un contesto vitale, in cui si sperimentano atteggiamenti di responsabile partecipazione e condivisione alla gestione della vita in comune, ciascuno nei propri ruoli e con l’apertura ad acquisirne di nuovi e di maggior coinvolgimento. È una comunità che condivide fede, speranza e carità, che quindi va bene per ogni scelta umana, dentro una condizione che si apre con gioia alla bellezza dello statuto trinitario e in questo si sente corroborata a leggere totalmente e liberamente il proprio io, i propri sentimenti e desideri.

La proposta al sacerdozio dovrebbe essere rivolta agli uomini delle varie età, compresa quella matura, talvolta dopo l’esercizio di qualche professione, sotto lo sguardo vigile ma premuroso del magistero, con animo generoso e illuminato, che sappia coinvolgere le responsabilità delle comunità pastorali e dei suoi membri più consapevoli.

Scendere dal monte

Infatti, solo persone consapevoli dei loro limiti, capaci di perdonarsi e di perdonare, testimoni coerenti e attendibili delle difficoltà della vita e della ricerca di una vera esperienza di Dio, possono rappresentare i riferimenti su cui le comunità possono contare nel loro futuro.

Quando i contesti formativi sono troppo chiusi e ripiegati su sé stessi rischiano di provocare quella che possiamo chiamare sindrome del monte Tabor, la tentazione, cioè, di rimanere ancorati alla condizione di autosufficienza e di rispecchiamento, storditi e innamorati di quel miraggio di bellezza, senza ricordarsi che invece la funzione richiede di scendere dal monte.

Liberarsi dalla sindrome del monte Tabor è la rinuncia non solo a rimanere dentro il perimetro delle tende, ma anche a rimanere nel perimetro della comunità ecclesiale, perché la comunità non aperta al mondo è una comunità che tende all’asfissia e a non diventare il sale della terra.

Lo scendere dal monte è necessario per essere fedeli alla vocazione di andare e predicare, per essere testimoni proprio di quel miraggio di bellezza e per ricordare alla comunità il proprio dovere di collaborare alla costruzione del Regno, anche assumendo la responsabilità di sollecitare nuovi presbiteri.

Sarebbe auspicabile, nella precoce esperienza pastorale dei candidati al sacerdozio, l’introduzione di prolungate permanenze presso contesti familiari di particolare significato: un tirocinio qualificato e diversificato, come capita agli studenti di medicina, di diritto, delle scienze dell’educazione ecc., per sperimentarsi nelle varie forme del futuro ministero, ma senza pregiudizi, non clericale, davvero radicati nella vita della comunità aperta al mondo, ricordando che la liturgia è fonte e culmine dell’azione della Chiesa e non rifugio dal mondo, ciò che ne sarebbe una oltraggiosa negazione.

Un’osservazione frequente è che certi problemi sono più evidenti lì dove il clero ha vissuto come casta separata dal popolo, talvolta senza una robusta formazione e senza adeguata motivazione, con molti problemi personali di bloccato sviluppo e con una concentrazione poco pastorale e molto focalizzata su aspetti rituali e devozionali.

Decisivo in ordine alla formazione è il ruolo del vescovo; su di lui pesa la responsabilità di dire parole che esprimano l’insufficienza degli attuali metodi di preparazione e selezione dei candidati al sacerdozio. Ne va del futuro delle nostre comunità.

Una parola da spendere riguarda la storia dei seminari, con la necessità di prendere atto che quella storia è radicalmente cambiata. È cambiata la società, è cambiata la famiglia, è cambiato l’individuo, è cambiato lo stesso contesto ecclesiale.

Il giovane candidato al sacerdozio, nei seminari, corre il rischio di una maggiore solitudine epistemologica; nella visione del mondo e nella costruzione del sé è più solo, più condizionato da tanti fattori rispetto ai suoi coetanei, in un contesto che ogni giorno gli grida con maggiore intensità e disagio il suo essere diverso. Dei giovani d’oggi egli condivide lo statuto di figlio di una società liquida, appartiene, cioè, a una generazione senza tutto, come diceva Bauman, ma è chiamato a rispondere a un destino in cui abbiamo messo, senza attrezzarlo seriamente, la più alta vocazione.

Ne deriva una seconda parola di preoccupazione, perché i seminari sono sempre meno e meno frequentati e si fa sempre più frequente la domanda circa le ragioni per cui alcuni scelgono una vita così carica di fatiche, che richiede energie di qualità diverse, col sospetto in molti casi che essa sia motivata dal desiderio di risolvere problemi personali di varia natura. Tanti giovani presbiteri sono, infatti, insicuri, con problemi di identità, e con disagio psicologico, con una predilezione degli aspetti rituali, dell’insistenza sull’abbigliamento e sul ruolo clericale.

Le comunità si interroghino

In molte comunità non vi sono presbiteri e si dichiarano fortunate quelle che possono averne dall’estero, trascurando che la soluzione può definirsi solo momentanea, perché il processo di occidentalizzazione è globale.

Abbiamo bisogno di nuovi pastori, che siano espressione di una nuova comunità e della sua fede e siano ricchi di una buona capacità apostolica. L’abbandono della pratica religiosa è crescente e in molti casi viviamo già in comunità da evangelizzare.

È necessaria una presa di coscienza di tutte le comunità, che sono rimaste troppo bloccate su posizioni di delega, poco inclini a prendersi le loro responsabilità, compresa quella che riguarda la scarsità dei loro pastori.

Bisogna poi considerare il pericolo insito nel portare la riflessione circa la condizione sacerdotale a un livello di così alta spiritualità, pensando il presbitero come salvatore d’anime, evangelizzatore e adoratore sacrificante, tralasciando di curare la natura dei suoi vissuti umani e dei suoi bisogni.

C’è da chiedersi, nell’ingravescente condizione di spopolamento delle comunità e nella diaspora spesso clamorosa e disperata dei nostri preti, se non ci sia stata una colpa per avere, in una china scivolosa di una lunga storia, mortificato la gioia dei pastori a cui è stato affidato il gregge di Cristo, e pensare alla possibilità di percorsi differenziati nel loro reclutamento e nella loro formazione, per evitare il deserto di cui vediamo ogni giorno la desolante realtà, togliendo ogni pretesto all’arte dell’arrangiarsi, verso il ritiro in una ricerca di soluzione personale, che può essere sempre più personale, sempre più lontana.

La messe è molta e gli operai sono così ridotti che intere comunità non hanno il presbitero per periodi lunghissimi. In molte zone l’Italia sembra diventata terra di missione ed è affidata a presbiteri provenienti dall’Africa, dall’Asia e dall’America Latina o da paesi dell’Est Europa.

La situazione richiede di affrontare il problema senza salti nel buio, ma consentendo alla prudenza la più ampia libertà di esplorare le vie più coerenti per assicurare alle nostre comunità di raccogliersi attorno all’altare per celebrare il rendimento di grazie, l’eucaristia, e a tutti l’annuncio del Vangelo.

La realtà e la varietà dei problemi, tra loro intimamente interconnessi, richiedono alla Chiesa tutta un serio e durevole impegno a prestare un’attenzione scrupolosa alla formazione, per selezionare candidati veramente motivati, preparati, che non cerchino la loro sistemazione personale nella modalità più facile, con un giusto distacco dal proprio io e consapevoli dei propri limiti e della propria condizione di creatura, che si sentano parte del popolo di Dio e non al di fuori e al di sopra di esso, allenati alla responsabilità e al merito, che non è solo una questione teorica, ma è esercizio quotidiano di saper dire pane al pane e vino al vino, con tutte le conseguenze che questo comporta, senza tentazioni di carriera e di vano narcisismo, per essere strumenti docili della provvidenza di Dio.

Una solida preparazione culturale, insieme a una buona relazione con la comunità di appartenenza, sembrano funzionare da garante adeguato al muoversi in libertà e sicurezza. Alla cultura compete sempre il compito di interpretare e orientare ciò che è nuovo, afferrando l’essenziale del presente con uno sguardo carico di speranza verso il futuro.

Alla buona relazione con la comunità è affidato il compito di funzionare come base sicura, da cui partire per esplorare il mondo, imparando a gestire le conoscenze, a migliorarle, a esprimerle, a confrontarle, nell’umiltà di sapersi parte e nel maturo e saggio orgoglio di sapersi unici, non trascurando la grande risorsa del mondo emozionale e delle sue regole. Una comunità di fede dà a tutto questo una bellezza formidabile, aprendo le prospettive all’universalità e alla santità, intesa nella continua comunione col Padre, pur nella consapevolezza dei propri limiti.

Anna Demuro e la sua Catalina di Limbara

Due righe d’introduzione

di Piero Murineddu

Anna Demuro, maestra elementare in pensione e capacità artistica estesa a diversi campi espressivi. Con grande sensibilità e grandissimo coinvolgimento emotivo, nel suo volume “Catalina di Limbara – Alle origini della vita“. ripercorre tutti i momenti legati a lei e alla sua famiglia. Una storia romanzata, ma fedelmente ricavata dalla vita reale che si portava avanti nelle campagne della Gallura.

Scrive lo studioso Salvarore Tola nella presentazione del libro:
Anna Demuro ci porta alle radici della vita perché ci parla di fatti e momenti essenziali, quelli cui dovremmo saper guardare ancora oggi, nonostante le trasformazioni e l’ accavallarsi delle esperienze: l’ amore, la dedizione e il sacrificio prima di tutto; e poi la centralità della famiglia e tutto quanto contribuisce a farla crescere e a tenerla unita. Tutta la vicenda, la lunga vicenda di una donna dall’ infanzia agli ultimi anni di vita, ha per protagonisti i sentimenti, sentimenti indagati e portati allo scoperto, sino a metterne in luce le radici più profonde”

L’autrice, in modo molto verosimile alla storicità delle vicende narrate, vorrebbe ripercorrere buona parte delle tappe esistenziali che hanno accompagnato la mamma Caterina e la gran parte delle famiglie vissute negli stazzi di campagna nei primi decenni del ‘900. L’ambientazione è la Gallura, territorio nord orientale della Sardegna e luogo di provenienza della Demuro da dove, già dalla prima adolescenza e a motivo del lavoro di ferroviere del padre, si è ritrovata da allora a vivere e a metter su famiglia nel paese dove vivo anch’io, Sorso, non distante dal capoluogo Sassari.

Anna, oggi ottanta piu due d’età, oltre aver aiutato diverse generazioni di alunni a crescere nel migliore dei modi, ha da sempre espresso il suo estro artistico attraverso la pittura, la creazione di manufatti legati a varie tematiche anche sociali e la pubblicazione di libri alcuni dei quali ancora inediti. Non ha mancato di esprimersi anche attraverso composizioni poetiche.

La protagonista Catalina, Alina nel racconto, inizia nel descrivere minuziosamente la casetta dove abita, con nomi nella variante sardalocale quali càscia, cridènzia, pagghjólu, siàzzu, pamèntu, cucciuleddhi…

L’autrice riesce a far esprimere ad Alina i sentimenti che accompagnano tutti i momenti della sua crescita, come quelli dei familiari e degli altri personaggi di cui si narra. Ma probabilmente, anche quelli di chi affronterà la bella avventura di leggere.

Nel volume non mancano versi di canti alla gallurese. Le illustrazioni sono della stessa Anna Demuro.

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Catalina di Limbara –  Alle origini della vita

di Anna Demuro

Parte prima

Lo stazzo e la famiglia

 

Nella grande cassapanca (càscia) noce – scuro c’era il corredo che la mamma aveva cucito da ragazza: tovaglie bianche e colorate, asciugamani di pesante lino bianco con largo pizzo fatto a uncinetto, lenzuola ricamate. Nulla di superfluo. Un tavolo rettangolare, anch’esso molto scuro, occupava il centro della stanza (appusèntu) e una semplice credenza (cridènzia), con due larghi sportelli nell’alzata e in basso quattro stretti, sembrava fatta apposta per risparmiarci il disagio della povertà. Non aveva vetri, infatti, perciò nessuno poteva vedere quel che c’era dentro.

A muro, era disposta qualche panca (bàncu), come quelle di certe antiche chiesette di campagna. Alle pareti, da una parte pendevano la bisaccia (bèltula) di mio padre e tre corbule (còlbuli) di varie dimensioni, dall’altra la stadera (lu pésu) e due setacci (siàzzi). In un angolo, abbastanza in vista, la bandiera di S. Pietro. La vedevo sempre lì. Sapevo che era sacra, perciò la guardavo con rispetto, come si fa con gli arredi delle chiese, e l’accarezzavo con profonda devozione. Per me era un grande privilegio. Sentivo più importante la mia casa. Quel pennone bianco infiocchettato e i preziosi ricami colorati, attorno al Santo, davano a quella casa umile e austera una nota gioiosa di sacralità.

Il pavimento (lu pamèntu), di terra molto scura, sembrava un tappeto senza pelo e prima di spazzarlo, uno doveva diventare seminatore; con una differenza: invece di lasciar cadere i semi con un ampio gesto della mano che andava da sinistra a destra, doveva lasciar cadere spruzzi d’acqua, dopo aver immerso la destra nel catino (lu stagnàli) che la sinistra teneva per il manico, sospeso. L’operazione, che andava fatta sempre con rigore, serviva ad evitare la fastidiosa polvere e rendeva il pavimento più compatto.

Questa era la stanza principale, con una piccola finestra a quattro vetri, da cui si potevano ammirare le maestose cime del Limbara. Nella porta d’ingresso, in massiccio legno scuro, ad altezza d’uomo si apriva, in un’anta, una finestrella (balcunìttu) come quelle delle fate, per la quale, aprendo l’apposito sportello, si poteva vedere chi bussava. Il tetto, senza gronda, era fatto di tegole sarde scolorite che, sporgendo, disegnavano col sole una balza ondulata lungo il muro; a seconda dell’ora, mutava di larghezza.

Era tutta su un piano la casetta, e dalla stanza centrale si accedeva da un lato alla cucina, dall’altro a una prima camera, abbastanza ampia, con due antichi letti in ferro di una piazza e mezza. Le testiere, ad arco, terminavano ai lati con due grandi pomi neri, massicci, e la parte centrale, di lamiera molto resistente, era decorata con variopinti motivi floreali.  Ogni letto aveva un comodino, con un cassetto nella parte superiore; in quella inferiore, a sportello, alloggiava il pitale in smalto bianco col bordo color blu. Un armadio (galdaròbba) a due ante custodiva i nostri modestissimi vestiti: non molti, per la verità, ma potevano bastare.

Maso, il fratello maggiore, dormiva insieme a Vanni che, per età, veniva dopo me; io, che tutti chiamano Alina, con Aria, la piccola di casa. Da questa stanza si accedeva a quella del babbo e della mamma che nulla, o quasi, aveva più della nostra.

La mamma, Cesca, era alta e snella. I capelli corvini, che raccoglieva in una grossa treccia e arrotolava sulla nuca, erano impreziositi, nei giorni di festa, da spille scure tempestate di perline. Aveva grandi occhi neri, labbra carnose e l’incarnato perfetto. Era bella, di carattere mite e signorile di modi. Si occupava  della casa e di noi e nei ritagli di tempo aiutava il babbo nella vigna e nell’orto. Si andava insieme qualche volta alla fonte e ciascuno, con sé, portava una brocca.

Quasi sempre andavo da sola, essendo delle femmine la più grandicella, e lungo il percorso mi piaceva declamare le poesie della mamma:
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Non era tanto lontana la pozza dell’acqua sorgiva e lungo il tragitto coglievo le bacche, che il sole accendeva di rosso vermiglio, per farne collane alle bambole (puppii) che la mamma cuciva coi ritagli di stoffa. Con quelle del mirto preparavo con Aria, per loro, tanti dolcetti. La mamma m’insegnava a cucire cuffie e vestiti per cambiarle nei giorni di festa, come lei faceva con noi.

Il babbo, Jano, era alto, con un fisico asciutto, la fronte spaziosa e gli occhi piccoli e chiari. La sua severità mi metteva a disagio. Esigeva obbedienza, puntualità e precisione in tutte le cose e la voce decisa non ammetteva incertezze. Instancabile come la mamma, lavorava dall’alba al tramonto e il suo ritorno era sempre una festa. Era forte, e la sua presenza ci faceva sentire protetti e sicuri. Maso e Vanni imparavano tante cose da lui nella vigna e nell’orto, e andavano insieme a far legna sul costone della montagna. Avevano anche l’incarico di pascere quattro caprette, ripulire porcile e pollaio (pulcìli e puddagghju) e provvedere al mangime (la pruènda).

Aria ed io aiutavamo la mamma nei lavori domestici. Lei si stancava molto a lavare pile di panni, inginocchiata per ore presso l’acqua del fiume. Aveva scelto una pietra (tègghja), larga e piatta, davanti a una pozza (pischina) non troppo profonda e, con la schiena piegata, insaponava, strofinava e sbatteva con forza tovaglie e lenzuola. Io ne avevo scelto una più piccola che lei aveva collocato accanto alla sua; lì insaponavo fazzoletti e calzini. Così imparavo a fare il bucato, mentre Aria giocava e guardava.

Quando veniva il giorno del pane, mi divertivo a infarinarmi le mani e a lavorare qualche pezzetto di pasta e guardavo ammirata le sue belle pagnotte corpose. Se si doveva accendere il forno, era una gara nell’introdurvi la legna.

Estasiata, guardavo quella bocca di fiamme che sembrava un vulcano e le braci simili a lava, e con meraviglia vedevo che le pagnotte, prima pallide e magre, ne uscivano grasse e dorate. Quale miracolo! Anche i miei pezzetti di pasta, quasi informi, acquistavano una bellezza che non riesco a spiegare. E che festa per Pasqua! Il regalo più bello era l’uovo, quello di gallina, si sa, che la mamma infornava, dopo averlo collocato su un pane a forma d’uccello.

Si preparavano anche diverse specie di dolci con miele e formaggio (cucciuléddhi e méli e casgjatìni). Non c’era abbondanza. Ricordo infatti che avremmo voluto mangiarne qualcuno di più ma bisognava riporli nella credenza per farli durare. L’ospite (stràgnu) non doveva trovarci sprovvisti.

C’insegnava, la mamma, che chiunque bussasse alla porta doveva trovare ospitalità generosa, sedendosi alla mensa con noi. Diceva sempre che la buona accoglienza è il riflesso dell’anima di chi è capace di offrirla.

La religiosità era forte nei miei genitori, persone di fede e timorate di Dio. Ci hanno insegnato come si prega e il senso di tutte le cose.

Le cime dei monti, quando le guardavo da sotto, sembravano il punto preciso dove il paradiso comincia e se le guardavo d’estate, quando i raggi del sole giocano coi riflessi delle rocce granitiche, diventavano per me la culla dei sogni. Sublimavo quella visione. Lì c’era Dio.

Nella maestosità dei tronchi di querce e castagni vedevo le colonne del cielo, e la molteplicità degli storni, che dalle chiome si levavano in volteggi infiniti, mi parlava dei voli degli angeli. Il gorgoglio del ruscello mi portava lontano. Dove, non potevo sapere. Chissà, forse la sua corsa non aveva mai fine. Era la strada delle mille fontane che attraversano il mondo, ora raccolte in pozze profonde di cupi misteri, ora in cascate di fascino, fatte di cristalli di luce.

Il verde velluto di muschio che vestiva le pietre, mi portava il profumo nostalgico del Santo Presepe. Le snelle libellule, dalle trasparenti ali cangianti, erano fate leggere, custodi dell’acqua e dei sassi, di anse e rive di felci, di conche segrete, di ombre e spicchi di sole che disegnavano trine. Tutto intorno sapeva parlarmi, così, senza parole, di lontananze, di pace e di Dio.

Le montagne hanno cime, precipizi e costoni e case molto lontane. Per questo ogni bimbo può giocare soltanto da solo. La solitudine non fa sconti nemmeno all’età.

Una presenza consueta era quella del venditore di bisacce piccole e grandi, di corbule e setacci e cestini (spultìni) di tutte le misure. Per S. Pietro, però, arrivavano da molto lontano uomini, donne e bambini, a piedi, a cavallo e sui carri tirati dai buoi (li carrùli a bói). Molti si adunavano sull’aia davanti alla casa, in attesa che il babbo, con la bandiera, aprisse il corteo verso la chiesetta del Santo, a mezza costa, lontano.  Era grande la festa! Durava dal mattino al tramonto. Ci si stringeva la mano, uno ad uno, anche tra gli sconosciuti. Era un rito che si celebrava da sempre. Quasi tutti si era parenti e ci si abbracciava, perché non c’era stata altra occasione dall’anno passato. La voglia di raccontarsi era forte in ognuno di noi.

Solo raramente si andava a far visita a qualche famiglia. La più vicina era quella degli zii Nardo e Diadora. Distava tanto da noi che, per stare un po’ insieme, bisognava partire, d’estate, nel primo pomeriggio, per rientrare poi quando già il sole era calato da un pezzo. Per noi si trattava del massimo dono: potevamo giocare con i due cuginetti che avevano l’età dei miei fratellini. Io avevo un debole per  Menico, Aria per Rocco.

Menico aveva una bellissima cascata di riccioli biondi, gli occhi sembravano un pezzo di cielo e il sorriso mi faceva sognare. Sentivo attrazione per lui, lo osservavo nei suoi movimenti e facevo di tutto per stargli vicino. Speravo che mi scegliesse sempre nei giochi e se qualche volta non accadeva, la gelosia mi faceva soffrire. Provavo piacere se mi guardava le gambe, mentre camminavo sul muro a secco davanti alla casa o quando mi acchiappava il vestito per non farmi scappare. Se si accarezzava il viso con le mie treccioline o per gioco scioglieva i fiocchetti che la mamma annodava con cura, mi sentivo in stato di grazia. E se le “differenze” tra il mio corpo e quello di Maso o di Vanni, le vedevo soltanto come caratteri distintivi dei sessi, “quelle” di Menico m’incuriosivano. Con lui stavo bene e desideravo che i giochi non finissero mai. Al pensiero di andar via il mio cuore si stringeva e il momento dei saluti diventava sofferenza. Le distanze avevano il potere struggente di farmi intristire.

Se si doveva raggiungere Tempio per fare provviste, occorreva un giorno dall’alba al tramonto. Tempio era la città dei signori! Ci si andava molto di rado perché tante cose le avevamo di già: pane, uova, latte, ortaggi e vino. Chi ci andava era il babbo in sella al cavallo morello dello zio Leonardo. Tornava la sera mezzo assiderato se, d’inverno, soffiava la tramontana o c’era la neve e, spossato se imperversava la canicola estiva. Tante volte si andava a dormire prima del rientro, altre, lo si aspettava con la testa ciondoloni o abbandonata sul grembo della mamma, accanto al focolare nella piccola cucina.

La luce del camino ingigantiva l’ombra delle cose: i cestini appesi al muro diventavano puffini che spulciavano il piumaggio, i grandi vasi in terracotta (li cònchi) e quelli in legno di ginepro (li cagghjni), con dentro una specie di mestolo di sughero (l’ùppu), sembravano guerrieri accovacciati che tenevano l’asta stretta in pugno, e i sacchi dei fagioli, paurosi fantasmi in assemblea. Dopo cena facevamo il “giro” intorno al focolare, seduti su piccoli sgabelli (li banchìtti), a godere del dolce calore che tanto ristorava, dopo il freddo sofferto durante la giornata. Era bello stare così, l’uno accanto all’altro, mentre il babbo ci parlava di pascoli abbondanti, di tanche e stazzi sconosciuti, di carri e di cavalli e pecore figliate, ma anche di raccolti andati in fumo a causa del gelo e della neve, di bestie malate e del rischio di contagio, dell’orto travolto dalla piena e della vigna gravemente danneggiata. Vedevo allora il volto della mamma diventare serio e guardare, con gli occhi fissi, il fuoco del camino, senza più parole.

«Andemu innànzi, né tèmpu bònu dura né tèmpu màlu»,Andiamo avanti, né tempo bello dura né tempo brutto, diceva il babbo quasi a bassa voce.

Alla sera, era d’obbligo il resoconto di un giorno di lavoro andato male o di un’intera annata sotterrata e stavamo lì a tracciare, piccoli e grandi, la linea precaria della nostra vita. I bimbi per primi avvertono i disagi e i loro giochi diventano più seri. Con la candela, prima sul piccolo tavolo quadrato sotto la piattaia, la mamma, silenziosa, ci accompagnava nella nostra stanza. Ci rimboccava ben bene le coperte e se non ci bastavano, ci avvolgeva dolcemente in vecchi cappotti di campagna. L’ultimo saluto era un bacio sulla fronte e andava via, raccomandando il segno della croce e la preghiera della sera.

Se mi attardavo coi pensieri sul raccolto andato male, mi consolavo subito pensando alla polenta che l’indomani avrebbe preparato nel paiolo di rame,lu pagghjólu sopra il camino (la ciminèa).
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Parte seconda

Solo chi lo prova può capire i disagi del dover emigrare

 

A volte, per la difficoltà a prendere sonno, mi tornava in mente come avvolto dalla nebbia, il ricordo lontano della nostra partenza per la Francia. Ricordavo vagamente tanto mare, una nave bianca più grande di una casa e una splendida città che, nella notte, si accendeva di luci colorate. Socchiudendo gli occhi mi pareva di vedere le persone tanto piccole da sembrare formichine. La mamma ci aveva raccontato che, quando eravamo piccolissimi, zio Nardo, fratello del babbo e sua moglie Diadora, li avevano convinti a lasciare la vita disagiata di montagna per tentare la fortuna nelle contrade di Parigi. Sognavano, come i nostri genitori, di trovarvi un lavoro più sicuro che avrebbe consentito l’istruzione per i figli. Era un miraggio, la scuola, per la gente del Limbara.

Il viaggio era un’esperienza nuova e piena di speranze. Era estate. Lo spettacolo unico. Tra cielo e mare ci si sentiva quasi in paradiso, un luogo che di terra amara non sapeva niente. In quei momenti non si sentiva il dolore del  distacco ed era incontenibile la gioia.

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Quando si parte, dopo tanto soffrire, e ognuno porta con sé cuccioli e compagna, il cuore e la mente volano lontano, oltre la propria terra divisa dalle guerre tra poveri e umiliata per secoli da padroni diversi. È la speranza. Quel sentimento che i Sardi custodiscono come i nuraghi e come loro si perde nella notte dei tempi. Rassegnazione no, è il pane dei vinti.

Le campagne francesi sembrano le nostre: cose già viste, perciò familiari; forse è la voglia di vederle così. Poi la grande città. Parigi. Bella, ricca, sontuosa come nessuna mai vista. E la gente, diversa.

Affiora subito il primo disagio di chi non ne conosce la lingua e i costumi, di chi veramente è diverso, e lo sente come un vestito. Un vestito che graffia. Lana grezza. Come i nostri, nella valigia di carta. Bisogna farsi capire, cercare un alloggio dove passare la notte. La gendarmeria ci diede una mano e fummo alloggiati presso una scuola. Il giorno seguente si cercava già un tetto per dieci persone. Eravamo stranieri e per giunta emigranti, e questo complicava le cose. Dopo un lungo calvario di richieste e rifiuti, si riusciva a trovare un sottano umido e freddo. Non ci era dato sperare di più. Era adeguato ai nostri bagagli.

Occorreva trovare un lavoro. Uno qualunque poteva andare bene. Non era tanto il danaro che avevamo con noi, perciò ne avremmo avuto per poco. Il babbo ottenne di fare lo scaricatore in un magazzino e zio Nardo l’operaio presso un cantiere. La difficoltà della lingua era grande e la cosa ci mortificava e avviliva. Vivere, poi, in quella stamberga stava diventando un calvario per noi, abituati alle nostre case spaziose, dove ci si poteva muovere a comodo nostro.

Il freddo dell’inverno ci stava uccidendo in quel buco malsano, dove ci si scaldava col fiato, quando ci mancava il carbone in una specie di braciere di ruggine. Pensavo allora al nostro camino e alla catasta di legna accanto alla casa, alle sere d’inverno passate al calduccio davanti alla fiamma, a raccontare le fole. Mi tornava in mente la mamma del sole che, d’estate, cercava i bambini che andavano in giro tra rocce e cespugli o sulle rive dei fiumi. Li avrebbe portati in un luogo segreto, lontano, donde non sarebbero più potuti tornare.

Diceva la mamma che nessuno poteva evitare di andare a dormire nelle ore di punta. Tutti avevamo un po’ di paura ma Aria, essendo più piccola, ne aveva di più; per questo si addormentava prima di noi. Io, tante volte, non riuscivo proprio a prendere sonno ed essendo il mio letto a parete, potevo contare sul muro i granelli di calce e cemento. Meglio così che tra le grinfie della mamma del sole.

Poi c’erano le streghe tutte vestite di scuro, avvolte in uno scialle che sembrava di pece, nel quale nascondevano il volto per non farsi conoscere. Andavano in giro la notte, entrando nelle case dove dormivano i bimbi più piccoli e ne succhiavano il sangue fino a farli morire.

Ci parlava anche di un paesino attorcigliato a una grande montagna, che per la malvagità dei suoi abitanti, era diventato la dimora del diavolo. Questo provocava tonfi profondi e faceva rotolare macigni con grande fragore; cominciava al calar della sera e continuava per quasi tutta la notte. Il paese aveva perduto il riposo e la pace. Il sindaco, allora, stabilì che quelle montagne venissero assicurate a pesanti catene per impedire al Maligno di farle rotolare fin sopra il paese. Così mi addormentavo, pensando alle fole.

Il lavoro del babbo procedeva a singhiozzo ed era mal retribuito, e per zio Nardo non era diverso. Qualche volta si soffriva la fame e della scuola nemmeno a parlarne. Non bastavano i soldi. Non avevamo  nessuno che ci facesse coraggio. Non c’erano amici. Forse ci si leggeva negli occhi il disagio di sentirci diversi, di valere meno degli altri, di essere accolti per sola pietà. Questi sentimenti, si sa, indeboliscono gli uomini, anche i più forti.

Cominciava a farsi sentire la nostalgia della casa lontana, di amici e parenti, degli animali che avevamo lasciato alla custodia di pastori di nostra fiducia, in attesa, chissà, di un eventuale ritorno. Si sentiva la voglia di antichi sapori, di luoghi rimasti legati al ricordo, di cose, di tetti di tegole sarde, di sassi di fiume, di erbe e profumo di monti, di terra natia. La paura che oscuri ingranaggi finissero per stritolarci e la mancanza di soldi c’impedisse di fare ritorno, ci indussero a lasciare quella vita diventata più a rischio di prima. Il ritorno è molto diverso. La mente è contesa da vecchi e nuovi ricordi. Le parole ci sembrano inutili e cedono il posto al silenzio. Il mare, che prima aveva aiutato fuga e speranze, ora lo sentiamo nemico, perché ci divide dal mondo. “Lu pòaru onèstu no po’ middhurà”(Il povero onesto non può migliorare), diceva la mamma con un filo di voce. Io ascoltavo e tenevo tutto per me.

Aprendo la porta di casa, abbiamo avuto un sussulto. L’odore era quello di un lontano abbandono forzato e voluto. Non c’era rimpianto per ciò che avevamo lasciato. Era un ritorno all’antico passato, sì, di fatiche e disagi, ma anche il solo che aveva scavato, seppure in solitudine e pena, come l’acqua la roccia, e messo radici come le querce e i castagni che sfidano il tempo.

Il candido stazzo, con le tegole sarde sbiadite dal tempo e coperte dal muschio degli anni, è il luogo più caro, a nostra misura, e non valgono tanto, per chi è come noi, le case di lusso in terra straniera. Ora però, la voce del vento, sfiorando appena l’azzurra distesa di mare che sembra un cielo più in basso, ci porta più vivo il ricordo di un mondo diverso che aiuta  a costruire un futuro meno precario, perché lì la terra è come una madre che allarga le braccia e ha qualcosa per tutti. La nostra, invece, è solo un’impronta lasciata sull’acqua. Non abbiamo chi ci faccia coraggio nella lotta di sempre, chi ci offra un bastone per poter camminare o ci aiuti a rialzarci dopo tante cadute. Non ci torna mai il conto in questa terra che grida solitudine e sui sassi scrive la sua storia. Madre senza braccia di figli disillusi che scendono a valle in eterne transumanze, e con gli animali parlano della comune condizione. Matrigna per imposizione, lascia che il vento dei due mari disperda il grido di pastori e montanari, segregati dal consesso umano negli ovili e negli stazzi. Grembo sterile che genera emigranti e disperati e guarda al mare con occhi di granito, seguendo il volo di aquile orgogliose che scelgono altri lidi. L’amaro di cicuta ben servito è un rito che affonda le radici nella sua memoria, inietta veleno fino all’anima, senza toglierle mai l’estremo anelito che resta ancora quello del riscatto.

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Parte terza

La scoperta del proprio corpo in trasformazione

 

Zia Martina era sorella della mamma. Più grande di lei, era sposata a zio Elio e viveva a Tempio, dove lui faceva l’impiegato in Municipio. I loro bambini, Tonio e Linuccia, andavano a scuola. Ci si vedeva raramente, tuttavia eravamo molto affiatati. A differenza della mamma, la zia era una donna pienotta, simpatica e severa. Ero legata soprattutto a Linuccia, che in seguito a problemi di salute, trascorreva d’estate, un breve periodo di vacanza nella nostra casa. Vivevo come in estasi l’attesa del suo arrivo. La sua presenza significava per me respirare a pieni polmoni l’aria speciale della vita di città. Vedevo in lei una bambina straordinaria. Molto rispettosa di tutti, composta e delicata di modi, sapeva muoversi sempre con grazia. Decisa e spigliata, parlava volentieri come tutti i bambini cresciuti tra compagni di scuola e di giochi, che non soffrono le inibizioni e i disagi di chi non conosce la vita sociale. Era libera. Aveva quella sicurezza di sé che viene a chi ha scoperto l’affascinante mistero del saper leggere e scrivere. Questo è un momento magico nella vita d’un bimbo, perché si sente straordinariamente importante, capace di decodificare la scrittura e inventarne una sua; entra in un mondo nuovo che gli mette le ali. Per Linuccia era proprio così.

Invece io ero completamente diversa. Timida e di poche parole, mi sentivo imbranata, esclusa da quel mondo nel quale lei aveva avuto la fortuna di entrare. Pensavo che sarebbe diventata importante, avrebbe vissuto comodamente in città, lontano dalle fatiche della povera gente, dai disagi e dalla consapevolezza di sentirsi perdente. Avrebbe potuto scrivere tutto quello che aveva nel cuore, aprirsi agli altri e trasformare in segni e parole idee e pensieri.
Se fossi stata capace di scrivere, avrei messo su carta tutto l’amore che avevo per Bice, la mia unica bambola, le cose che facevo per lei, i nostri interminabili dialoghi, i sogni, i giochi con Menico e soprattutto quanto lui mi piaceva. Era il primo amore e non lo sapevo! Il mio diario sarebbe stato pieno di lui.

Linuccia, vedendo quanto fosse grande in me il desiderio di apprendere, si sforzava di farmi capire il complicato ingranaggio di lettura e scrittura. Per me era molto difficile perché mi mancava la mobilità della mano, e la mente, completamente estranea a questo linguaggio, non riusciva a rispondere. Per lei, maestra bambina, lo era ancora di più. Per insegnare occorre, prima di tutto, essere adulti. Trovavo più facile imparare a contare i sassolini e le ghiande.

Mia cugina era molto contenta di stare con noi, perché qui era tutto diverso. Voleva provare l’ebbrezza che il vento procura quando, sulla cima dei monti, scompiglia i capelli, accarezza la pelle, mozza il respiro e gonfia le gonne a paracadute. Quando, lontano da occhi indiscreti, ci si immergeva nell’acqua trasparente e fresca del nostro ruscello e ciascuna poteva guardare in libertà “i segreti” dell’altra, che non so perché, i miei genitori non nominavano mai.
La naturalezza che mostrava nello spogliarsi mi sorprendeva, era come se l’avesse fatto altre volte; io invece provavo vergogna, come se la cosa fosse indegna di me e la mia intimità perdesse valore. I miei genitori avrebbero di sicuro condannato la mia “esibizione”. Le “vergogne” (li valgògni) andavano tenute nascoste.

Mi dava coraggio Linuccia; m’insegnava a guardare il mio corpo con naturale semplicità, a conoscerlo, e questo non significava macchiarlo di colpe. Le piaceva pettinarmi i lunghi capelli neri sempre in modo diverso, forse perché lei li aveva di mezza lunghezza e non poteva realizzare tutte le pettinature che invece io potevo permettermi. Mi diceva che il corpo è cosa preziosa da proteggere e curare con gioia e mi raccontava che una sua compagna di scuola era molto meno fortunata di noi: soffriva di poliomielite e aveva una gamba più corta dell’altra e molto più magra, che le impediva una camminata normale.

Lei sapeva dare il giusto valore a se stessa; qualcuno glielo aveva insegnato. Mi mostrava il suo pube e mi spiegava che già si copriva della prima peluria e  i piccoli seni spiegavano, anch’essi, un cambiamento avviato: stava cominciando a diventare una piccola donna. Io ascoltavo, sforzandomi di capire ogni cosa, con la difficoltà di chi non ha potuto sentire qualcuno che le parlasse di questo miracolo. Forse la ragione della mia ignoranza stava nel fatto che avevo solo otto anni. Lei ne aveva due più di me. La mamma avrebbe avuto tutto il tempo per aiutarmi a capire. O forse, la sua era una maestra speciale che sapeva spiegare ogni cosa con molta saggezza e nella giusta maniera, proprio come lei cercava di fare con me, così, senza turbarmi. Tutte le cose che mi raccontava avevano lo straordinario potere di sollevarmi da una quotidianità sempre uguale e saziare la sete di conoscenze che mi faceva intuire dentro di me il vuoto di una voragine. Mi parlava del mondo, dell’esistenza di oceani e catene di monti che sembrava toccassero il cielo, di fiumi e di laghi, di popoli e paesi e grandi civiltà. Sapeva mettere le ali alla mia fantasia.

Quando partiva, nella solitudine dei miei anfratti segreti, cominciavo a volare e vedevo le navi come bellissime schegge di ghiaccio, e appollaiata sulle vette più alte, vedevo giardini e città dove i tetti erano grappoli rossi di fiori nel verde dei campi. E vedevo laghi che sembravano mari e poi fiumi, più grandi del mio, che sembravano strisce di cielo. Con la mente riuscivo a vedere la grandezza del mondo e molto, molto di più. Però mi fermavo senza più fantasia, se guardavo il mio corpo: il pube era sempre bianchissimo, non c’era traccia di bruna peluria e a nulla serviva che il controllo fosse costante. Il fatto che per guardarmi dovessi appartarmi, mi faceva venire i sensi di colpa: nessuno doveva vedermi, dunque era cosa proibita. Allora mi tornava in mente l’osservazione che un giorno mi fece la mamma, in segreto, perché giocavo sul pavimento senza badare alle posizioni che andavo assumendo: “Li stéddhi fèmini si déini carragghjà, pùzzi, no’ si faci cussì ch’è valgògna” (Le bambine devono coprirsi, pucci, non si fa così ch’è vergogna), mi diceva. Questo ricordo sapeva bloccarmi e ridurmi a un “silenzio colpevole”, nell’attesa che cominciassi a diventare anch’io una piccola donna. Ma quanto avrei dovuto aspettare? Ed era lecito che volessi guardarmi? E i seni? Il petto era piatto come quello di Maso o di Vanni. E Menico? Che cosa direbbe se mi vedesse diversa? Mi facevo queste ed altre domande che restavano senza risposte. Nella mia mente, però, una cosa era chiara: non avrei mai voluto cambiare, lasciando lui sempre.

Erano così tante le cose che andavo scoprendo che non riuscivo da sola a metterle in ordine di natura e di tempo, né a capire che ogni cambiamento non è relativo soltanto alla femmina. Ero confusa. E se da un lato volevo crescere e pensarmi già donna, dall’altro volevo restare ancora bambina, così come, in segreto, immaginavo fosse per Menico. Stavamo bene così. Era magica la forza che mi spingeva verso di lui, misteriosa e innocente, un richiamo struggente che trovava risposte appaganti nei sorrisi che mi regalava, nelle corse che faceva con me, nel tirarmi il vestito per frenare il vantaggio che avevo su lui, nella voglia che mostrava di stare con me, invitandomi anche a giocare con Bice per esserne il “padre”.

Il nostro era il desiderio di vivere insieme l’ultima infanzia, il tempo dei sogni, dove i bimbi inventano vita e vissuti in un limbo che ha tutto il fascino di ogni cosa bella che deve finire, dove non esiste il dolore dei grandi.

 

bbbbbbbb

Parte quarta

 

Venuta a mancare mamma, a nove anni inizio a diventarlo io per i miei fratellini

 

Era sempre la mamma che mi riportava alla vita reale, chiamandomi all’adempimento dei miei doveri domestici; l’ultima volta l’ho vista più stanca del solito e pallida in volto. Lamentava uno strano torpore che le fiaccava il corpo e lo spirito. Poi venne la febbre.

Il babbo, preoccupato, lavorava a singhiozzo nell’orto; ogni tanto tornava per controllarne lo stato. Sempre uguale. Il letto contribuiva a sfiancarla ma in piedi ormai non reggeva e la febbre era diventata costante. Il medico, arrivato di notte su una vecchia carrozza, dopo una visita attenta, in segretezza informava il babbo del terribile male: tisi. Sembrava che tutta la casa avesse subito una scossa violenta perché nulla era più come prima.

Occorreva che il babbo fosse presente più spesso al suo capezzale, per darle coraggio e allo stesso tempo per accertarsi che i farmaci le venissero somministrati nel modo prescritto. Mi aveva istruito a dovere: sapevo come trattare le stoviglie che poteva usare solo lei e come dovevo procedere per garantirle una buona assistenza. Il mio ruolo non era più provvisorio. Non c’era tempo per i sogni e le bambole.

La mamma, nonostante fosse inchiodata sul letto, cercava di dare risposte a tutti i miei dubbi e di farmi capire che, se qualcosa non mi fosse riuscita nel migliore dei modi, o avessi dovuta rifarla, non sarebbe stata la fine del mondo. Così  ho imparato a realizzare i primi facili piatti in cucina, a impastare, panificare, infornare.

I miei nove anni non erano tanti, è vero, però il fisico ne dimostrava di più: ero alta e forzuta quanto bastava per adempiere a tutte le faccende di casa e responsabile per prendermi cura di lei. Dovevo esserlo per forza di cose. Quando ero impegnata in lavori che mi allontanavano temporaneamente da lei, accanto al suo letto lasciavo Aria che aveva il compito di riferirmi qualunque necessità avesse la mamma. La sorellina, che aveva ormai cinque anni, mi aiutava nei lavori leggeri e Vanni, due anni meno di me, aveva l’incarico fisso di attingere l’acqua alla fonte e portarmi dall’orto quanto mi occorreva per il pranzo e la cena. Anche il lavoro di Maso era diventato pesante per i suoi undici anni: doveva sostituire il babbo in tutte le attività che lo consentivano.

Nel tempo che potevo trascorrere accanto alla mamma, non mi stancavo di accarezzarne con gli occhi il volto e le mani diventati di cera. La vedevo sempre più debole e stanca ed io, sempre più sola, mi sentivo prendere da un profondo sconforto. Man mano che il tempo passava, farle assumere il cibo diventava, per la gravità del suo male, impresa sempre più ardua, e la sofferenza scheletriva le membra. Mi stavo quasi abituando a piangere solo col cuore ma, a volte, avevo la sensazione che stesse scoppiandomi in petto; allora mi appartavo e lasciavo che anche gli occhi avessero lacrime. Mi rendevo conto, pur non avendo conosciuto mai lutto, che giorno per giorno il mio mondo perdeva i suoi pezzi e i colori che lo avevano acceso, si stavano terribilmente oscurando. Li vedevo già quasi sbiaditi i ricordi felici di bimba e se per età mi aggrappavo alla disperata certezza di avere ancora la mamma, per motivi a me sconosciuti coglievo il gelo nel cuore dell’orfana.

Quando il babbo capì che era vicina la fine, incaricò Maso che avvisasse zio Nardo. Non so come accadde ma arrivarono anche zia Martina e zio Elio a notte inoltrata, quando Vanni e Aria dormivano già.

La mamma, distesa sul letto, sembrava di marmo e gli occhi, ormai chiusi, non mi guardavano più. Quando le accarezzai una mano, non avvertii la consueta vibrazione sfuggente, come era sempre accaduto. Non ebbi risposta. Zia Martina, stringendomi a sé, mi avvolse in un abbraccio d’amore che mi ricordava il calore di lei. Zio Elio fece lo stesso con Maso, improvvisamente sbiancato. Voltai il capo, mentre la zia mi allontanava dolcemente da quella visione, che mi appariva come dietro un vetro battuto da scrosci di pioggia, e rimasi profondamente turbata dal dolore del babbo che, scoppiato in un pianto dirotto, l’abbracciava e baciava chiamandola. Dalla cintola in su il suo corpo giaceva su quello di lei. Non avevo mai visto un dolore così.

In cucina, abbandonata su un vecchio sgabello, come parte definitivamente divisa da un unico corpo, con la testa appoggiata a un sacco pietoso e gli occhi chiusi, vedevo in sequenza i momenti più belli trascorsi con lei. La vedevo seduta, intenta a cucire per me la bambolina di pezza, a tagliare e imbastire pantaloni e vestiti per noi, a fare il pane con l’uovo di pasqua, imbottire il forno di legna e lavare i panni nel fiume. La sognavo mentre andava alla fonte cantando.

Quella notte l’agonia mi era entrata nel cuore e non riuscivo a vedere oltre il dolore. La ferita dell’anima era di quelle che non si chiudono mai e nei bambini diventano sempre più grandi.

Come tutti, l’accompagnavo nell’ultimo viaggio al camposanto di Tempio. Il feretro, collocato su un carro tirato dai buoi, era circondato di ortensie. I grappoli rosa, distribuiti a corona, intorno alla bara, erano l’ultimo vestito che il babbo le offriva; quelli azzurri, del colore del cielo, il suo dono d’amore, e i bianchi significavano la tenera età dei suoi quattro bambini.

Il carro, che sembrava un altare, procedeva lento, in un silenzio irreale. Si udiva, solenne, il passo dei buoi e le ruote, che a fatica stritolavano ghiaia, esprimevano i nostri pensieri. Il corteo, a piedi, andava ingrossandosi lungo la strada sterrata ed io, con gli occhi fissi sul fardello di morte, senza lacrime né voce camminavo pensando:

VVVV

Il babbo aveva perduto la luce del volto. Era diventato serio e di poche parole e se qualcuno di noi mostrava di recuperare la gaiezza dei bimbi, diventava improvvisamente severo e pronto al rimprovero. Per lui non esisteva più la camicia bianca dei giorni di festa, ma solo la nera, come la fascia a lutto che portava su un braccio. Il suo dolore era cupo e profondo come un abisso.

Lo sorprendevo con gli occhi fissi nel vuoto, sembravano spenti, e la bocca, che aveva perduto la sua naturale espressione, era sempre atteggiata a sensazioni sofferte. Non potevo comprendere la profondità del dolore di chi perde la persona che ama e davanti al suo, oltre che inadeguata, mi sentivo di troppo. Non sapevo aiutarlo e forse la mia presenza, come quella dei fratellini, era un ostacolo che gli impediva di urlarlo. Non potevo aiutarlo perché io stessa non sapevo combattere il mio. Così, tutta vestita di nero e con la morte nel cuore, a nove anni non ancora compiuti, dovevo fare la mamma. Quando, ogni mattina, pettinavo i capelli di Aria, mi tornava in mente Alina che giocava alle bambole, ma quando le annodavo il nastro nero in cima alle trecce, diventavo di marmo. Forse le donne che soffrono sono tutte così. Pensavo.

Mi sforzavo di provvedere alla casa e alla famiglia nel migliore dei modi ma la fatica superava ogni limite, per quanto il babbo mi aiutasse a fare il pane e il bucato. Quando mi sembrava di non farcela più, con la mente e col cuore cercavo la mamma e invocavo il suo aiuto. Ogni volta che mi capitava di sfiorare qualcosa di suo, mi correva un brivido per tutta la schiena, come se quell’oggetto o indumento avesse dentro la vita, il respiro. Al mattino, il risveglio era un bagno di gelo nel vuoto di lei.

La cercavo quando accudivo alla casa e ai fornelli o mi occupavo dei fratellini, quando guardavo il cielo e le cime dei monti o accarezzavo una pecora e i suoi agnellini, quando ascoltavo la voce dell’acqua o il canto della cicala e del cuculo. Ne sentivo il profumo tra le cose di casa, tra le querce e i castagni e nell’aria, e nel rosso tramonto ne indovinavo l’amore. Tutto mi sembrava irreale, compresa la vita.

Quando appuntavo sul petto di Maso e di Vanni il bottone nero di stoffa, mi tornava in mente, insieme con quei segni di lutto, quel giorno di morte. E ripiombavo nel buio dell’anima. Il mio era un continuo morire e tornare alla vita, perché avevo il babbo e i fratelli a ricordarmi che c’ero.

Mancata la mamma, i compleanni non si ricordavano più. Solo dopo un anno dalla sua data di morte, il giorno in cui compivo il mio decimo, il babbo tornava dall’orto all’ora di pranzo, con un fascio di ortensie: erano rosa, azzurre e bianche. Un brivido mi faceva tornare alla mente quei fiori sul carro. Gli stessi colori! Mi veniva incontro con un mezzo sorriso, mi baciava la fronte e, porgendomeli con una certa goffaggine «Sono per te, Alina, auguri!» mi sussurrava.  Poi mi spiegava che i colori erano quelli delle persone più care, compresa la mamma.  Quel giorno in casa tornava la luce.

Forse in quel dono, così inconsueto per una bambina, c’era il messaggio forte di un uomo distrutto che vedeva il suo personale sostegno morale nella figlia maggiore, investita del ruolo di madre. Il suo gesto, dopo tanto silenzio, mi avvolgeva tutta nell’abbraccio caldo di una nuova speranza. Era per l’anima, l’ossigeno che le restituiva la vita.

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Parte quinta

Donna ancor prima del tempo

 

Avevo undici anni appena compiuti quando avvertii uno strano dolore in due zone distinte del petto; provai a passarvi la mano e notai una specie di leggero gonfiore. Mi appartai per verificare che cosa mi fosse accaduto e capii subito che si trattava di qualcosa di cui Linuccia, a suo tempo, mi aveva parlato. Mi ricoprii in gran fretta e corsi d’un fiato nella stanza dei genitori, chiudendo la porta. Mi spogliai e, mettendomi in punta di piedi sopra un vecchio sgabello, mi guardai allo specchio dell’antico comò. Non potevo credere! Sul pube era comparsa una leggera peluria e i seni cominciavano a crescere. Anche in me, come già in Linuccia, si compiva il miracolo.

Provavo una sensazione straordinaria di gioia mista a stupore, soddisfazione di me e del corpo, dimenticato tra le pieghe di un dolore che non trovava conforto. Mi sembrava di essere depositaria di un segreto quasi incredibile, di essere diventata improvvisamente bella e importante e per questo degna dell’ammirazione di tutti. Provavo la sensazione dolcissima di avere i colori e il profumo delle ortensie che l’anno prima il babbo mi aveva donato. Forse era stata la mamma, in segreto, a parlargli di me e a ricordargli che tra non molto sarei diventata una donna. Per lei la morte aveva giocato d’anticipo.

Man mano che il tempo passava, i segni di quel cambiamento diventavano sempre più chiari e ne ero orgogliosa, ma non capivo in che cosa consistesse l’ ”essere donna”. Provavo gusto a guardare allo specchio il mio “nuovo profilo”, a pettinarmi sempre in modo diverso, a sorridere. Anche Maso, tredici anni, stava cambiando. Aveva quasi la statura del babbo e la voce sembrava un trombone. Uscivano all’alba insieme per andare al lavoro e tornavano per l’ora di pranzo. Avevo due uomini in casa ed ero fiera di loro. Vanni, nove anni, sapeva sbrigare molte faccende ed era per me un valido aiuto. Aria era la mia bambola vera ma già le insegnavo tante cose, come la mamma aveva fatto con me.

Durante una visita degli zii Nardo e Diadora, il babbo si accordò con loro sull’acquisto di alcuni metri di stoffa, con i quali lei avrebbe confezionato per noi pantaloni e vestiti. La necessità rimandata non consentiva più attese. In quella occasione rividi anche i cugini. Menico, che aveva l’età di Maso, era alto poco meno di lui e la voce era grossa. Forse, come me, era cambiato nello spirito come nel corpo. Il sorriso era quello di allora, e mi piaceva, ma non provavo più alcuna attrazione.

Cominciavo a capire che cambiano tutti, maschi e femmine e che per noi due era finita l’infanzia, quella stagione stupenda in cui i bimbi credono ancora alle favole. A tredici anni avevo quasi un corpo da donna. Sembrava che la natura avesse voluto restituirci la mamma, perché, dicevano tutti, le somigliavo per snellezza, statura e colore d’occhi e capelli. I seni turgidi sotto il vestito, rendevano il profilo armonioso, ma m’imbarazzava la femminilità prorompente.
Qualsiasi complimento mi venisse rivolto, per me sapeva di oltraggio al naturale riserbo.

Non facevo le trecce ma raccoglievo i capelli dietro la nuca, fissandoli con le spille appartenute alla mamma. Lo facevo per me, per quel bisogno innocente di volermi specchiare e il desiderio segreto di essere vista. Ma lì non passava nessuno. Ci si poteva guardare solo tra noi. Cominciavo a sentire la voglia di dire, anche senza parole, che c’ero, che forse contavo qualcosa, che gli altri avrebbero dovuto vedermi. Avvertivo già il peso di una vita che mi divideva dal mondo e se da bambina ogni cosa mi parlava di favole antiche, ora tutto appariva diverso. La mia era solo fatica di vivere, aggrappata a una montagna, da cui scivolavano i sogni come la pioggia sui vetri.

Non c’erano amici con cui parlare dei propri segreti, di aspettative o speranze o della voglia crescente di svago. Fare quattro salti al suono di un vecchio fonografo in casa di amici, come di tanto in tanto facevano gli zii con Menico e Rocco o Tonio e Linuccia, per noi era solo utopia. Superare le distanze era diventato più facile, anche se la corriera, che chiamavo l’”angelo azzurro”, passava solo due volte: al mattino e alla sera. Ci legava soprattutto l’ostinazione del babbo nel vivere un lutto tremendamente lesivo della libertà di ciascuno.

Sentivo un forte bisogno di aprirmi, di gridare al cielo e al granito la voglia di vivere, di sapere e conoscere, di andare oltre i confini reali del mio piccolo mondo e volare. La mia ignoranza mi procurava un profondo disagio che cresceva con me e mortificava ogni slancio, e quando mi prendeva l’incontenibile voglia di scrivere, tracciavo su un foglio, con la matita che mi aveva regalato Linuccia, le lettere alfabetiche che mi aveva insegnato. Ma le lettere, sole, non formavano parole e pensieri.

Lasciavo quel foglio, testimone di una disabilità che mi umiliava e feriva, e affidavo alla voce la mia esuberanza. Mi piaceva poetare momenti dolorosi e felici. Era come se mi impadronissi del cielo, ne abbracciassi la luce, e liberassi nel sole la vigoria della mente. Il babbo però non doveva sentirmi: la camicia era nera. Mi allontanavo perciò dalla casa e dall’orto, superavo la vigna e tra siepi e cespugli raggiungevo la cima, da cui dominavo quasi tutta la valle. Sull’altura, a ponente, liberavo la voce troppo a lungo impedita:

mmmmmmm

Dalla zia Diadora imparavo a tagliare e cucire i vestitini di Aria e qualche gonna per me. Lei aveva l’incarico di provvedere al babbo e ai ragazzi. Imparavo anche a filare la lana, così potevo realizzare calze per tutti e qualche golfino. Certo, la lana era grezza, pungeva, ma era meglio di niente per combattere il freddo. E poi, così, si poteva risparmiare qualche soldo di più. Certo, mi sarebbe piaciuto possedere qualche vestito di quelli che la zia comprava a Linuccia nei negozi di Tempio. Ma io non potevo sognare.

Era dura la vita per noi. Maso e il babbo lavoravano dall’alba al tramonto e tante volte il raccolto andava a ramengo; di questo e altro, che riguardava il modo di condurre il lavoro, parlavano sempre. Quando le cose andavano male, il volto del babbo diventava più scuro e provavo per lui tanta pena. Indovinavo la sua solitudine che nessuno di noi avrebbe mai potuto colmare e la paura di un futuro che lasciava poche speranze. Senza la mamma il suo tempio aveva perso una colonna portante e il dolore, mai lenito, aveva indurito il suo cuore. Il volto, intristito da una sofferenza nascosta, recava i segni precoci di un’età che non era la sua. Anche lui, come me, era orfano di un amore che, seppure diverso, aveva lasciato in entrambi un vuoto incolmabile. Per questo lo sentivo molto vicino e lo amavo di più, nonostante il silenzio.

Io però, come Maso, avevo le mie naturali esigenze, quelle di ogni adolescente che ha bisogno di chiarire i suoi dubbi, di essere aiutato a conoscersi e di avere un dialogo intenso e costante. Questo non c’era. La confidenza mancava, e quando mi accorsi di avere le gambe rosse di sangue, fui presa dal panico. Il babbo, chiamato d’urgenza da Vanni, varcando la soglia, mi vide terrorizzata e tremante. Aveva intuito che si trattava del flusso mestruale. Mi strinse in un abbraccio che sembrava non volesse finire, e ho la certezza che ci fosse anche la mamma mentre mi sussurrava «No timì, Alì, séi divintata una fèmina manna» (Non temere, Alina, sei diventata un donna).

Non so come fece, sebbene molto impacciato, a spiegarmi in poche parole che nelle adolescenti accade così e questo è un processo molto importante che deve avvenire. Non si sentì, evidentemente, di aggiungere altro, perché mandò a dire a zia Diadora che venisse, perché c’era bisogno di lei.

Mi sembrava che la mia intimità fosse stata squarciata. Mi vergognavo, e mi addolorava che fosse accaduto in presenza di lui, così riservato e affatto incline a parlare di quanto poteva riferirsi alla sfera sessuale.

Mi sentivo inadeguata a quel ruolo: non sarei stata capace di accettarlo con l’animo giusto e tanto meno di rispondere alle domande dei fratellini. Fu provvidenziale l’aiuto della zia che mi diede le informazioni essenziali e mi insegnò a gestire “quei giorni”. Lo fece con tatto e questo mi aiutò ad accettare la nuova condizione e superare il disagio.

A quattordici anni sapevo di essere una donna “completa” ma nessuno mi diceva quel che mancava. La maturazione sessuale non aveva fatto i conti con la mia ignoranza. Corpo e mente premevano contro questa barriera come un mare in tempesta, ma la mia libertà erano i sassi e il silenzio e un pezzo di cielo per aiutarmi a sognare. In essi cercavo l’infanzia perduta, il tempo dell’arte fantastica d’inventare la vita, di nascondere sotto una pietra il dentino caduto, per avere dal topo una goccia di miele. Ora però, avevo bisogno di saziare la sete di un’adolescenza negata, dove i sogni c’erano ancora, ma ingrigiti da aspirazioni represse.

Parte sesta

Innamoramento

 

La distanza e i disagi non favorivano certo le visite di zia Martina e zio Elio, perciò solo rare volte ci si vedeva e in quelle occasioni, seppure per brevissimo tempo, avevo modo di ricrearmi lo spirito con Tonio e Linuccia. Da tempo sia l’uno che l’altra, avevano conseguito la licenza media inferiore e lasciato la scuola. Tonio lavorava presso un libraio e Linuccia cuciva il suo corredo da sposa. Era un piacere sentirli parlare. Mi affascinava la loro cultura e li avrei ascoltati per ore senza ombra di noia.

In una delle sue attesissime visite, Linuccia mi aveva confidato d’essere diventata donna a quindici anni e che la mamma l’aveva preparata a vivere serenamente quel giorno. Per lei è stata molto bella l’attesa e ha accolto il momento con gioia. Si sentiva importante, completa e felice e da allora, come ogni donna, ha cominciato a sognare il suo principe azzurro. Mi incantavano questi discorsi, avrei voluto che durassero molto più a lungo, ma la nostra separazione oltre a deludermi, mi faceva molto soffrire. La solitudine favoriva il frequente ritorno di questi pensieri, che finivano per occupare quasi tutto lo spazio mentale.
Linuccia sapeva sempre trasmettermi serenità e fiducia e le sue parole cominciavano a farmi capire l’importanza e la bellezza dell’essere donna.

La mia femminilità diventava col tempo motivo di orgoglio e volevo destinarne la purezza all’uomo dei sogni. Mi sorprendevo a pensarlo maturo, audace e importante, capace di farmi provare straordinarie emozioni. Mi eccitava il pensiero di “lui”, per quanto solo virtuale, ma non riuscivo a capire come funzionasse l’amore. E poiché la timidezza e il pudore non mi avrebbero consentito domande, passavo il tempo a immaginarmi nella dolce prigione di due braccia che avessero odore d’uomo e a sognare il sapore dei baci che pensavo si potessero dare solo sul volto o tutt’al più sulle labbra, ma questo, nella mia ignoranza, poteva essere preludio all’attesa di un figlio.

La voglia crescente di voler sembrare davvero una donna mi spingeva a indossare, quasi per gioco, i vestiti della mamma sempre lì, nell’armadio. Le prime volte, provarli, mi dava la sensazione stupenda e incredibile di sentirmela accanto, di avvertirne il calore del fiato e la presenza reale dietro le spalle tanto che mi voltavo, non senza un po’ di misterioso timore, per verificare se davvero ci fosse. Sembravo lei vestita così e la magia dello specchio mi rifletteva l’immagine col volto di Alina. Mi piaceva quella bruna figura di donna, nel vestito di crespo fiorito che arrivava fin sotto il polpaccio, e la scarpa chiara, con appena di tacco, ci stava a pennello. Già sognavo di vestirmi così la prima volta che il babbo mi avrebbe permesso di uscire, quando Maso avrebbe compiuto il diciottesimo anno di età e avrebbe potuto portarmi con sé. Speravo che il tempo passasse veloce, avevo fretta di vivere, volevo uscire dalla casa paterna, diventata oramai troppo stretta.

Aria, dodici anni, era alta poco meno di me ed era diventata una brava massaia, Vanni sembrava un ometto. Così, quel giorno di festa, nel primo pomeriggio, Maso ed io potemmo finalmente assaporare la libertà di uscire da soli. Una luce diversa avvolgeva le cose, sembrava che il sole avesse scelto straordinari cristalli per segnare il sentiero, sprigionato nell’aria la fragranza incredibile della giovinezza del mondo e catturato per noi l’universo. Mi inebriava la vista delle guglie granitiche che toccavano il cielo, della bruna macchia che mi stendeva un tappeto e dell’acqua, diventata galassia per condurmi lontano. La mente era invasa di luce e il cuore non lasciava più spazio al dolore passato. Sotto il vestito di crespo fiorito s’indovinava il mio corpo sinuoso che respirava la vita. Sedici anni sono tanti per chi vive segregato dal mondo, e lasciano il segno.

Nel lungo percorso che ci separava dalla fermata dell’angelo azzurro, pensavo alla mamma quando, come me, otteneva di vivere, seppure per poco, una gioia senza misura, e le chiedevo, pregando, di farla durare. Il silenzio di Maso in quel sentiero di luce, mi diceva che anche lui forse, era assorto negli stessi pensieri.
In corriera, comodamente seduta, seguivo dal finestrino le superbe sughere che mi venivano incontro e, salutandomi, fuggivano via: per me era tempo di andare. Le creste dei monti azzurre e lontane, seguivano nel silenzio di sempre, quel volo di rondini; sapevano che saremmo tornati.

La città era il nuovo scenario e gli attori, diversi. Tempio, che avevo sempre potuto pensare solo nei sogni, era lì, per offrirmi le emozioni di chi, per la prima volta calca la scena. Il tacchettio dei passanti sul lastrico grigio, mi ricordava che c’era anche il mio; ero una di loro sul palcoscenico che mi offriva una parte.
I palazzi con i balconi fioriti, somigliavano tanto ai castelli delle fiabe che Linuccia raccontava quando eravamo bambine; le vetrine erano la fiera dei sogni. E c’erano piazze e fontane che accrescevano il fascino di questo giardino di pietra, dove ai bimbi i nonni raccontavano fole. Meraviglia unica, per me che conoscevo solo cavalli e carri tirati dai buoi, erano le colorate automobili, che si mostravano come signore eleganti sulle passerelle di favolose metropoli.
I passanti, disinvolti, nulla avevano della nostra goffa andatura; le movenze, ingentilite dalla vita cittadina, stridevano con le nostre, grossolane da sempre.

Era d’obbligo, oltre che un piacere, la visita agli zii che, stupiti dell’incontro tanto inaspettato, si profondevano in abbracci. I cugini, assenti, di lì a poco sarebbero rientrati con gli amici. La casa era accogliente e zia Martina ce la fece visitare. Linuccia, come Tonio, aveva una cameretta tutta sua, con un lettino in ferro che somigliava ai nostri, una scrivania in noce antico e l’armadio per i suoi vestiti. Nella stanza principale, molto ampia, c’era una bella credenza con l’alzata a vetri, che lasciava vedere i bicchieri di cristallo e le porcellane decorate. Un grande tavolo rettangolare, con un prezioso vassoio di ceramica, dominava al centro della stanza e tutt’intorno c’erano le sedie con la spalliera elegantemente modellata.

Il mio sguardo veniva catturato da un aggeggio su un mobile, a forma di scatola, con un piatto metallico, un braccio e una tromba di grandi dimensioni. Alla mia curiosità la zia rispondeva che si trattava di un fonografo che Tonio aveva acquistato da un amico. Maso, come me, lo guardava incuriosito quando i cugini facevano rientro, parlottando allegramente, in compagnia di quattro amici: Teresina, Giò, Salvo e Loretta. Fu tanta la gioia di vederci che Tonio e Linuccia scivolarono, distratti, sui convenevoli di rito e i quattro rimasero impalati. Rimediò la sensibilità di zia Martina. Lo sguardo di Giò mi fece trasalire, mentre la sua mano cercava di stringere la mia. Per qualche secondo restammo a guardarci, inchiodati sull’uscio. Poi, come per miracolo, il vecchio fonografo cominciò a suonare. Era Tonio che aveva invitato gli amici a fare quattro salti da lui. Seduta tra Maso e la zia, mi sentivo pervasa da un turbamento profondo e sconosciuto.

Intanto una coppia apriva le danze. Erano Salvo e Linuccia impegnati in un valzer. La grazia di lei, che volteggiava leggera mi lasciava senza fiato. Poi fu la volta di Tonio e Loretta cimentati in un tango. Teresina discorreva con zio Elio e con Giò. Maso ed io, quasi in disparte, non sapevamo conversare e nemmeno ballare. Sentirmi diversa mi bruciava, avrei voluto fuggire. Linuccia, che intuiva il nostro disagio, convinse Maso a lasciarsi guidare in un tango che, essendo lento, poteva risultargli più facile. Tonio lo fece con me, dopo qualche giro di valzer con le altre ragazze. L’emozione, intensa, mi faceva sudare e la musica, con le sue dolcissime note, mi faceva quasi morire alla vita reale, e mi sorprendevo a seguirla con naturalezza, come fossi abituata.

Forse Giò mi guardava. Lo ammiravo nell’elegante completo alla zuava, la sciarpetta di seta avana a righe marroni annodata sulla camicia bianca, e il berrettino con visiera a quadretti. Mi stupiva la sua facilità di parola, la signorilità di modi, la riservatezza squisita. Il tango era finito. La musica, diversa, faceva scatenare anche gli sposati e zia Martina si esibiva con zio Elio. Lo sguardo di Giò cercava il mio. Non ballò con le altre e l’ultimo tango volle farlo con me. Mi teneva, fiero, tra le braccia forti, sfiorandomi il petto col bolero e prima che la musica finisse, parlandomi all’orecchio «Ci ‘idimu a Santu Pétru» (Ci vediamo per la festa di S. Pietro), disse.

Nel viaggio di ritorno il tempo si ferma per farmi assaporare in tutta la pienezza, quelle incredibili emozioni. Tornano le immagini del teatro di città, coi personaggi e lo scenario, e l’aria di progresso e di cultura che vi si respira, le case di granito cariche di storia, i comignoli in raduno, le donne alle finestre e i balconi accesi di gerani. E torna, insistente, il dolce pensiero del ragazzo bruno che mi ha catturato il cuore. Sento le vibrazioni delle mani delicate e calde tra le mie, il profumo maschio della pelle, il respiro sul volto allacciati nel tango, il petto contro il mio e il fremito che arriva fino all’anima. È la confusione totale del cuore e della mente. Non so più se siano sensazioni reali o fantasie. La corriera si ferma. Con Maso che come me non ha detto una parola, riprendo il sentiero che mi porta a casa. Il sole è scomparso dietro i monti e la debole luce che accompagna il giorno già finito, arresta bruscamente il viaggio dei pensieri.

Correva l’anno 1925, il settimo dalla scomparsa della mamma, e finalmente il babbo poteva prepararsi a festeggiare il giorno di S. Pietro, indossando la camicia bianca d’una volta. Si ricominciava, dopo tanti anni, a parlare d’incontri religiosi, di fede e di promesse, di fiori, bandiere e feste campagnole. I miei pensieri erano per Giò. Era un problema riuscire a prender sonno e la notte diventava il mio rifugio, dove rivivevo nei dettagli i momenti stupendi di quel pomeriggio. Mi domandavo se quello fosse amore. Per me lo era. Se fosse quello vero non lo sapevo. Però lo accarezzavo e lo baciavo col pensiero e lui mi sorrideva e mi abbracciava e mi stringeva forte al petto. I suoi occhi buoni mi avevano stregato. Mi eccitava fortemente il desiderio e l’offerta virtuale era completa. Tutto l’essere mio era in tumulto. Non conoscevo questo sentimento fatto di contrasti: il corpo che fremeva, il cervello che frenava.

Il giorno della festa di S. Pietro, puntuale, Giò mi viene incontro nel suo elegante completo alla zuava. Mi sorride stringendomi la mano e poi saluta il babbo e i fratelli. Si sta vicini per il tempo della messa e poi si parla un po’ all’ombra delle sughere o seduti sulle pietre di granito davanti alla chiesetta. La sua disinvoltura m’innamora. Invece io, imbranata e senza iniziativa, mi sento morire di vergogna.  L’incontro si conclude con la promessa di rivederci, la domenica, in casa di Linuccia.

Giò mi parlava di sé, degli studi interrotti con la morte della mamma e dell’attesa di un lavoro. Viveva col babbo, Mondo, a Tempio e con lui curava l’orto, non lontano dal centro. Nel tempo libero gli piaceva leggere romanzi e libri di cultura, amava la musica ed era un provetto ballerino. Voleva sapere tutto di me ed io gli aprivo il cuore; non era mai successo e questo mi aiutava a comunicare e rapportarmi agli altri. Imparava così a conoscere la mia sensibilità e il disagio che mi procurava la mancanza d’istruzione. Era geniale nelle sue trovate, sapeva sempre togliermi d’impiccio. Gli piacevo e questo gli bastava. Gli piaceva la mia semplicità, l’ingenuità e la purezza di modi e sentimenti.

Quel pomeriggio di domenica in casa di Linuccia, c’erano i cugini; gli zii facevano visita ad amici. I primi ad arrivare furono Loretta e Teresina che convinsero Maso e Tonio a fare un giro. Subito dopo ci raggiunsero, puntuali, Salvo e Giò. Non so se la cosa fosse stata concordata, perché Linuccia si appartò con Salvo nella sua cameretta e Giò ed io restammo soli. Non durò molto la fortuna ma tanto bastò per darci un bacio. Le sue labbra caldissime sfiorarono le mie teneramente e la sensazione fu straordinaria.

Andando via, cominciavo a sentire sempre più profondo, il bisogno di stare insieme a lui. Quel dialogo aperto era un balsamo sulle mie ferite, mi faceva star bene e mi dava speranza e sicurezza. E la forza magnetica che spingeva l’uno verso l’altra, era l’amore che sognavo, e Giò era il mio principe. Mi faceva sentire importante, mi diceva che ero bella e mi desiderava e avrebbe voluto subito sposarmi. Non potevo credere a tanto! La mia vita sarebbe cambiata lontano dai luoghi che avevano conosciuto tanta sofferenza. In città non si poteva essere soli. La presenza di amici aiuta a superare le difficoltà della vita e nella tristezza c’è sempre qualcuno che ti mette coraggio. È più facile trovare lavoro e ci sono fabbriche, scuole e negozi e quanto serve per soddisfare i bisogni primari e anche di più. La mia fantasia galoppava ma a quell’età non si può fare che questo.

Essendo cinque anni più grande di me, Giò aveva da tempo conosciuto l’amore; per me era il primo, e quando nella sua casa ci trovammo soli, a nulla valse la mia resistenza al suo desiderio di avermi. Mi piacevano i suoi avidi baci e le carezze che facevano vibrare tutto il mio corpo, ma quando cercava le mie “cose segrete” provavo vergogna a mostrarle. Sentivo ardere il volto e sudare le mani e la sua virilità prorompente non riuscivo a frenarla. Non ero pronta. Mi sentivo inibita da un’educazione paterna troppo severa e avevo paura, ma la dolcezza delle sue insistenze e il sentimento profondo che nutrivo per lui, vinsero la mia ritrosia. Mi irrigidii e la penetrazione fu dolorosa. Mi fece sanguinare. Lo amai, sì, ma non come avevo sempre sognato.

Conoscere l’amore significa vivere l’atto sessuale nella totale pienezza di vibrazioni, impulsi e partecipazione congiunta di cuore e cervello alla completa donazione di sé. L’amore è abbandono. Per me non era stato così. Mi sembrava di aver sciupato la mia intimità solo per soddisfare il desiderio di Giò. Eppure anch’io l’avevo cercato fino a eccitarmi. Gli avevo fatto dono di me, ma solo nella dimensione irreale. Avevo idealizzato troppo l’amore, forse per età e ignoranza o forse solo per gene. Giò vide il mio profondo disagio. Mi prese tra le braccia e, coprendomi di baci, mi ripeteva che si amava così. Realizzai, successivamente, che la mia verginale adolescenza era passata. Non ero la stessa d’una volta. Sentivo suo tutto l’essere mio e lui in me. Giò mi aveva “reso donna” ma la mia sensibilità era rimasta graffiata.

Parte settima

La gravidanza

 

In uno degli incontri domenicali in casa dei cugini, dissi a Linuccia che non stavo bene: la nausea non mi dava tregua e il flusso mestruale era mancato. Era al corrente, perché glielo avevo confidato, dell’incontro d’amore con Giò nella sua casa e non mi nascose la preoccupazione che aspettassi un figlio. Zia Martina, informata della cosa, non potè che confermare, a suo parere, i timori della figlia e decise, prima di ogni cosa, di sottopormi a visita.

Si trattava di una gravidanza.Se i sospetti di Linuccia mi avevano tolto la serenità, la certezza aveva sconvolto la mia vita. Mi sentivo schiacciata da un peso troppo grande: avevo gettato nel disonore tutta la famiglia. Nemmeno Giò riusciva a darmi un po’ di pace. Era tenerissimo con me e premuroso, mi copriva di attenzioni come fossi cosa rara e cercava di rassicurarmi con la promessa che ci saremmo subito sposati. Mi terrorizzava l’idea di doverne informare la famiglia. Il babbo mi avrebbe ripudiato, perché gli uomini sono i primi a condannare. Per me non c’erano giustificazioni né difese, ero colpevole d’amore, «una svalgugnàta chi si dia cuà» (una svergognata che doveva vivere nascosta).

Sentivo più che mai la mancanza della mamma; forse avrebbe saputo capirmi e consolarmi, per la comune appartenenza al consesso delle escluse, cui era negato anche l’esser donna. Vivevo anch’io nella non cultura che mi relegava alla passività di un ruolo subalterno: una creatura nata per il solo piacere maschio e il procreare. Avevo in grande spregio la civiltà dell’essere inferiore e a me toccava viverla nella sua interezza: l’atavico oltraggio del ripudio avrebbe reso l’onore trafugato.

Zia Martina volle assumersi l’incarico d’informare in segretezza il babbo e con lui decidere il da farsi. La casa paterna diventava per me un luogo provvisorio, che mi chiedeva di lasciargli solo ricordi e null’altro di me; mi portavo addosso un carico di vita che a sedici anni diventava una montagna. Il volto del babbo era tornato scuro, il suo silenzio esprimeva la condanna e lo sguardo gelido mi feriva a morte. Non ero più la sua Alina docile e mansueta, la bambina-madre sottomessa, l’adolescente fragile e impacciata, ma una peccatrice che conosceva uomo fuori da ogni sacramento. Invece ero io, e volevo solo amare.

L’abbraccio dei fratelli mi fece tanto male, quello del babbo mi trafisse il petto. Sola, lasciavo la mia casa per trovare ricovero presso zia Martina. Nulla mi sorrideva più nel triste viaggio di abbandono. Ogni cosa si tingeva di dolore come l’anima mia, lungo il sentiero un giorno segnato di cristalli. Parlavo ai monti, al fiume, all’orto e alla vigna, agli anfratti segreti e alle conche, ai ricordi legati alla mia mamma, alla vita solitaria dello stazzo bianco e al figlio che portavo in grembo.

andendi mi ni socu

Zia Martina mi dava coraggio e tanto amore. Nell’armadio di Linuccia aveva ricavato un piccolo spazio per i miei vestiti e, stringendo un po’ gli arredi, aveva potuto collocare un letto anche per me. Mi diceva che le mie cose non davano fastidio, ma io mi sentivo un po’ una ladra e mi faceva male la pietà. Per guadagnarmi i pasti oltre il ricovero, facevo la massaia a tempo pieno, sostituendo Linuccia che faceva la commessa in un negozio di vestiti.

Zio Elio, persona assai discreta, mi accolse come gli altri con affetto e devo dire, a onor del vero, che nessuno in famiglia mi faceva pesare in alcun modo la precarietà della mia nuova condizione. Non c’era da stupirsi: le persone di cultura sanno superare tanti pregiudizi. Avevo temuto il giudizio di zio Elio quasi come quello di mio padre, nonostante l’accoglienza, invece no, non ne espresse alcuno. Magari m’illudevo che non mi giudicasse o forse la sua apertura intellettuale lo aiutava a vedere in me quella che ero: una ragazza fragile, sola, cresciuta troppo presto nel disagio e nella sofferenza che, con l’ingenuità di una bambina, ha colto dal giardino della vita qualcosa anche per sé. Neppure Maso e Tonio espressero biasimo e questo mi faceva pensare che al maschio giovane convenisse ragionare sul fatto che l’amore si fa in due.

Zia Martina e Linuccia mi dimostravano tanta solidarietà; la prima perché conosceva molto bene la cultura atavica che voleva la donna sottomessa all’uomo incapace di pulsazioni sue, di desideri e aspirazioni; la seconda perché questa cultura la fuggiva.

Scorreva tranquilla la vita in casa degli zii e questo mi aiutava ad essere serena, inoltre potevo godere delle attenzioni di Giò che non mancava di venirmi a trovare tutte le sere. La sua presenza affettuosa mi rassicurava, lo sguardo buono mi diceva tutto il suo amore e l’ansia per il bimbo che cresceva in me. Trovare un lavoro era il suo chiodo fisso; gli avrebbe consentito di sposarmi e dare una casa a nostro figlio.

Zia Martina aveva comprato della tela di cotone per farne lenzuola di corredo, e m’insegnava a fare l’orlo a giorno e qualche semplice ricamo. Man mano che acquistavo sveltezza e abilità, mi proponeva cose più complesse: federe, tovaglie e asciugamani con ricami abbastanza elaborati. In pochi mesi realizzai tre paia di lenzuola e sei federe per letto da una piazza e mezza, sei asciugamani di pesante lino bianco e tre tovaglie fantasia per sei persone. Non trascuravo però il lavoro casalingo, nonostante cominciasse a crescere la pancia.

La gravidanza, arrivata al quarto mese, aveva modificato il mio profilo e il volto non era più smagrito. Toccandomi il ventre con delicatezza, quasi fosse rischioso per il bimbo, pensavo all’amore che mi aveva dato Giò e al suo significato. “L’amore è vita”, pensavo e, nel silenzio, parlavo con la vita. Pensavo anche alla cecità di una cultura millenaria che non riusciva a vedere nella donna la madre di ogni uomo e dell’umanità.

La zia, con la sua saggezza, aveva pensato di farmi preparare il corredino per il bimbo. Sapevo lavorare a maglia, quindi non mi fu difficile realizzare ghette e golfini con la morbida lana colorata che Linuccia sapeva scegliere per me. Ricamavo camiciole di piquè, cuffie e bavaglini che mi ricordavano quelli delle bambole. Che tempi! Il ruolo di madre per me si ripeteva.

Ho visto zio Elio pieno di speranza quando una mattina, di ritorno dall’ufficio, mi disse che aveva parlato di Giò al direttore di un’azienda di trasporti, con sede a Sassari e filiali a Tempio e a Palau. La cosa mi riempiva l’anima di gioia tanto che ne parlavo a Giò nella consueta visita serale e lui, accarezzandomi con amore il volto e il grembo, mi diceva che forse c’era da sperare. La sua vicinanza era preziosa e il mio amore per lui sempre più grande. Lo vedevo sotto una luce tutta nuova: era il padre di mio figlio e il figlio era l’amore.

Quella sera Linuccia tornò con una grande scatola tutta infiocchettata; l’aprì e mi mostrò una stupenda copertina bianca in morbida lana tutta traforata e porgendola a me «E’ per tuo figlio», disse sorridendo. L’abbracciai commossa. Era troppo! Presi in mano quella nuvola bianca e con un lembo mi accarezzai una guancia, immaginandovi il corpicino del mio bimbo. Zia Martina, nel frattempo, aveva portato la pila di lenzuola, tovaglie e asciugamani che avevo ricamato e, facendosi avanti, la consegnava a me dicendo che era un po’ di corredo per la nostra casa. Non potevo credere! Piansi di gioia pensando che faceva lei quel che avrebbe fatto la mia mamma. Io, che avevo lasciato la casa paterna con i soli vestiti che portavo addosso, avevo tutto. Mai avevo ricevuto tanto amore.

Parte ottava

Il matrimonio e il parto

 

Dopo qualche settimana da questi avvenimenti, zio Elio mi annunciava che Giò sarebbe stato assunto dalla filiale di Tempio dell’azienda di trasporti. L’abbracciai e lo coprii di baci, mentre lui asciugava le mie lacrime. Tonio e Linuccia erano molto fortunati ad avere dei genitori come loro e io non lo ero meno per aver avuto la gioia d’incontrarli. Così Giò non tardò a ricevere la lettera e quando me la mostrò era raggiante: veniva assunto e avrebbe dovuto coprire la tratta di Palau, fruendo dell’alloggio a S. Gavino. Il luogo a me sconosciuto era lontano, e questo mi faceva male perché avrei dovuto lasciare le persone care, ma la casa e il lavoro contavano di più. L’azienda concedeva poco tempo, giusto quanto serviva per mettere insieme le cose che avevamo e raggiungere la sede.

Era un pomeriggio di sole quando zia Martina mi chiese di fare quattro passi per le vie di Tempio. «Ti farà bene» mi disse. Mi era sempre piaciuto guardare le vetrine. Chi non può comprare ha almeno il diritto di sognare. La zia si fermò davanti a un bel completo rosa antico, abbastanza ampio, come richiedeva la voga del momento. Mi invitò ad entrare e alla signora che ci veniva incontro chiese di servirmi un abito elegante. Sentii bruciarmi il volto e cominciai a sudare. Nel mio stato, pensavo, mai avrei potuto essere elegante. Indossai quello in vetrina. Era una nuvola di crespo che arrivava fino alla caviglia e scivolava con delicatezza sul pancione ammorbidendone il profilo. Le maniche a giro scendevano aderenti fino al gomito, poi la larghezza in fuga raggiungeva il polsino lungo e stretto, con tanti bottoncini. Allo specchio mi trovai bellissima e la sensazione fu di quelle mai provate. Il corpo, tanto diverso nel peso e nel profilo, sotto il vestito assumeva un aspetto maestoso: era quello che merita ogni figlio che dimora in lui. Lasciammo quel negozio per scegliere, in un altro, le scarpe adatte all’occasione.

La sposa era già pronta quando arrivò Giò nel suo completo chiaro. Fummo uniti in matrimonio davanti a una cappella laterale, quando ancora la città non si era risvegliata, perché a una peccatrice poteva essere concesso solo questo. Tonio e Linuccia furono i nostri testimoni. A parte gli zii, i soli presenti furono gli arredi, perché l’assoluto silenzio era l’unica consegna. In quello stesso giorno zio Elio, insieme a Giò, decise di fare un sopralluogo a S. Gavino per verificare, diceva lui, la funzionalità della futura nostra abitazione. In verità il motivo era diverso: si dovevano montare una camera da letto e una cucina, ennesimo regalo degli zii. Mi sembrava un’allucinazione e quando riuscivo a capacitarmi, avevo paura d’essere felice. Il rinnegato è come un ramo reciso da una scure: il taglio è definitivo. Non riuscivo più a frenare il bisogno di manifestare la mia riconoscenza a coloro che mi ridavano speranza e non potendolo fare in altro modo, decisi con Giò, che Tonio e Linuccia tenessero a battesimo il bambino che sarebbe nato.

Partimmo subito. Il distacco fu molto doloroso. Lasciavo affetti e una parte di Gallura entrata ormai nel sangue, per una destinazione lontana e sconosciuta. Il treno sferragliava attraverso le campagne che già portavano i segni della primavera, e solo in lontananza vedevo qualche casa e greggi sparse sulle alture. Era il mio passato che tornava, il mondo che voleva tenermi prigioniera, perché chi vive solo e conosce la voce degli anfratti è come la pecora marchiata; come lei può brucare solo l’erba delle tanche, con la testa bassa sulla terra che calpesta. Accarezzavo il figlio nel mio ventre, come fosse la messa d’un sigillo a un patto di comune appartenenza, ma la mente fuggiva l’antica solitudine, piovra nera che voleva impadronirsi anche di lui. Con le sue tenerezze Giò interrompeva i miei pensieri, portandomi alla realtà che parlava di casa e di famiglia, la nostra, che finalmente poteva ricomporsi per cominciare a vivere. Parlava di noi e dell’amore, della nascita del bimbo e del futuro che coi colori avrebbe fatto impallidire il mio passato.

Il treno si fermava per noi a S. Gavino, che non distava molto da Palau. Era grande la casa: due stanze al piano terra e tre a quello superiore. Ci si perdeva. Il letto, con la testiera alta, in lamiera pesante decorata, come andavano di moda, era completo di materasso, guanciali e copriletto (la mànta). Mancavano federe e lenzuola che stavano dentro le valigie. L’armadio a due ante molto larghe, aveva in basso due cassetti, dove la zia aveva riposto due coperte di lana ben piegate. Nel comò avremmo collocato il corredo personale di Giò e del bambino, le mie poche cose personali e il corredo per la casa. La cucina era composta di un mobile lungo e basso a sei sportelli, al cui interno stavano stoviglie e un po’ di viveri che ci avrebbero permesso di arrivare allo stipendio, senza correre il rischio di patire fame. Un tavolo quadrato e quattro sedie completavano gli arredi. I fornelli, due griglie rotonde distanziate quanto basta per consentirne l’uso parallelo, erano realizzati in muratura e potevano essere alimentati con legna o con carbone. Il combustibile doveva essere introdotto nello spazio sottostante, attraverso bocche quadrate munite di sportelli. La struttura, in basso, si apriva a rettangolo, per consentire la provvista del materiale da bruciare. Non mancava il camino di mattoni rossi.

Mi abbandonavo su una sedia per stanchezza e stordimento, guardando e riguardando tutto intorno, mentre Giò andava in cerca d’un po’ d’acqua e due bicchieri per placare l’arsura accumulata in una giornata di battaglia. Incredibile! Eravamo finalmente soli nella casa tutta nostra e potevamo saziarci di quei baci qualche volta rubati e quasi sempre espressi solo con lo sguardo. La prima notte è straordinariamente bella. Mi pervade un profondo sentimento di dolcezza per Giò, che si prende cura di me e del bambino con una dedizione che commuove; gli apparteniamo, ci circonda di premure e dice che siamo il suo punto di riferimento. È molto tenero con me e gli leggo negli occhi la gioia e la fierezza della parte recitata nella tragicommedia della nostra vita. La voglia che ha di me è troppo forte e, del membro virile pronto all’amore, sento sul mio corpo la morbidezza vellutata della pelle. Il mio stato avanzato non frena il desiderio, e riusciamo a placarlo con le mani avide d’amore quanto le bocche, nel fremito che scuote i nostri corpi. Per la prima volta vedo scivolarmi tra le dita il flusso prezioso della vita e capisco come è stato concepito il mio bambino. Giò, con gli occhi chiusi, si abbandona.

La mattina ci si leva di buon’ora per collocare ogni cosa nei cassetti e nell’armadio, ripulire bene tutta la casa e conoscerne un po’ gli spazi esterni. L’acqua potabile possiamo attingerla dal pozzo munito di carrucola; al secchio e alla corda, provvederemo noi, come pure agli attrezzi per il forno a pochi metri di distanza. Bartolo e Vittoria erano due simpatiche persone sulla quarantina e i figli, Filippo e Cesarina, avevano diciotto e quindici anni. Abitavano circa un chilometro più in là, verso Palau, ed erano pastori. Vollero fare la nostra conoscenza e vennero a trovarci, portandoci in dono una forma di formaggio stagionato. Offrimmo caffé e biscotti fatti in casa e parlammo di fatica e di lavoro e della vita quotidiana. Constatata la mia avanzata gravidanza, ci promisero visite frequenti, pregandoci di tenerli informati qualunque fosse la necessità. Inoltre, ci dissero che presso di loro avremmo trovato, oltre al formaggio, latte, uova e di tanto in tanto qualche pollo. La loro solidarietà fu per me motivo di consolazione: mi sarei sentita meno sola.

Chiesi e ottenni, dietro compenso, che Cesarina si occupasse del nostro bucato fino a quando non mi fossi ripresa dopo il parto. Per lavare i panni si doveva andare al fiume e il mio stato non lo consentiva. Già pensavo a come avrei potuto fare, col bambino appena nato, ad affrontare il disagio e la fatica. La mia inesperienza non mi consentiva di sapere che per una madre non esistono barriere, non avevo fatto i conti col mio sangue né visto la carne della carne.

Al parto mancava poco più di un mese e per me si avvicinava la paura. Una donna che ancora non conosce doglie, teme sempre il peggio e io non avevo a fianco la mamma né la zia Martina. Non riuscivo a capire, nella mia ignoranza, come avrebbe fatto a vedere la luce il bimbo chiuso nel mio ventre; anche di questo evento dovevo conoscere i segreti solo sperimentando di persona. Pensavo anche al dopo. Avevo paura che il mio corpo non potesse tornare più come una volta e questa eventualità mi rattristava, perché agli occhi di Giò avrei potuto apparire meno bella e quindi perderne l’amore. Camminavo a fatica e la spossatezza generale frenava i movimenti. Col pensiero parlavo con mio figlio che sentivo muoversi nel grembo. Gli dicevo quanto mi pesava, che lo immaginavo maschio e tra non molto ci saremmo conosciuti. Gli ripetevo che la sua fretta di venire al mondo aveva intricato la mia vita.

Ora Giò doveva provvedere alla sua culla. Suo padre gli aveva regalato, nel giorno delle nozze, una piccola somma di danaro e quindi poteva procurarsi tavole, chiodi e quanto riteneva fosse necessario. Era molto ingegnoso e riuscì a realizzarne una in legno naturale, tanto piccola e graziosa da sembrare la culla delle fate. Poggiava su due piedi che fungevano da dondolo e sulla piccola testiera incise i nostri cuori. Mi procurò del crine e un po’ di stoffa che mi servirono per il materassino e con qualche metro di tela di cotone realizzai lenzuola e federine.

Il lavoro avrebbe costretto Giò a stare fuori tutto il giorno, per questo, quando prese servizio, mi raccomandò caldamente a Bartolo e Vittoria. Cesarina aveva modo di verificare il mio stato di salute tutte le volte che prelevava i panni da lavare e alla consegna del bucato fresco. Ma Dio volle che fosse proprio Giò a constatare, al rientro dal lavoro, che non stavo bene: avvertivo dei dolori, non sapevo esattamente dove, ma diffusi a tutta la zona del bacino. Non erano forti né continui però pensammo subito si trattasse delle doglie, perché i tempi del parto erano maturi. Giò correva a casa di Bartolo e tornava con Vittoria, mentre Filippo sellava il cavallo per andare a Palau in cerca di un’ostetrica. I dolori tornano più forti. Tengo il ventre tra le mani e cammino nervosa per la casa, chiamando la mamma a mezza voce. Volgo lo sguardo verso la culla bianca accanto al letto, quasi a chiederle la forza che mi serve e mi sento spaccare da una fitta terribilmente dolorosa. Le doglie si fanno più frequenti. Vittoria m’invita a camminare, spiegandomi che il movimento favorisce la discesa del bambino, accelerando la dilatazione e quindi il parto. Ci provo. Faccio qualche passo ma resto impalata dal dolore. Sono spaccata.

La voce è roca. Le doglie diventano continue. Vittoria e Giò mi spingono lentamente verso il letto e mi aiutano a distendermi. Il dolore lancinante m’impedisce qualsiasi lamento. Perdo il controllo del mio corpo. Vomito. Vittoria ordina a Giò di preparare l’acqua calda nel catino. Le doglie m’impongono di spingere. Vittoria non si perde di coraggio e si prepara a far nascere il bambino proprio nel momento in cui l’ostetrica entra nella stanza. Sento la sua voce che mi ordina «Respira forte e spingi, spingi, spingi!». Giò mi tiene le mani a cui mi aggrappo, nella disperata richiesta di altre forze. Un urlo roco accompagna l’ultima fatica.

«Alì, amóri méu, è nàtu nòstru fiddhólu!» (Alì, amore mio, è nato nostro figlio!), esplode Giò. Mi abbandono esausta. Il suo volto, che brucia di tensione, si adagia sul mio rigato di lacrime e sudore. Mi sorride l’ostetrica porgendomi il bimbo infagottato. È splendido! Bacio la sua pelle morbida di seta e lui cerca la mia. Sono in stato di grazia e con Giò celebro la vita. È commosso e contempla estatico il figlio dell’amore. L’ostetrica mi accarezza e se ne va. Vittoria si trattiene a farci compagnia e per tenermi sveglia prepara un buon caffé. Non so come avrei fatto senza lei. La guardo con profonda ammirazione per il suo cuore grande e mi sembra di vedere la mia mamma. Le donne sanno che cos’è il dolore e le vedi andare dove c’è bisogno; sono sempre madri anche senza figli.

Quando arrivano Bartolo, Filippo e Cesarina il bimbo dorme beato nella culla. Sono curiosi di vederlo ma nessuno osa toccarlo. Si è fatto tardi e prima di andare via Bartolo dice a Giò che Vittoria resterà tutta la notte: non si lascia sola la puerpera (la paltugghjàna). Giò mostra imbarazzo perché non disponiamo di un altro posto letto, ma Bartolo lo tranquillizza dicendo che ha provveduto, portando con sé una branda da strapazzo. La notte passa tranquilla. Il giorno successivo Vittoria torna a casa e arriva Cesarina, che resta con noi fino a quando lascio il letto e posso recuperare un po’ di forze. La nascita del bambino rafforza il nostro rapporto di amicizia. Se la vita a me è stata matrigna, la Provvidenza ha risposto con pietà.

 

Parte nona

Nannino

 

Tonio e Linuccia, alla vista di Nannino, si profusero in vezzi e, prendendolo in braccio, lo chiamavano per nome e lo coprivano di baci. Zio Elio e zia Martina assistevano alla scena, nell’attesa di una parte in quel piccolo quadro di famiglia.

Il battesimo del bimbo fu l’occasione per trascorrere insieme qualche ora e ritrovarsi nell’ansia e nei ricordi del tempo dell’attesa, che restava in ciascuno un percorso di fatica e di speranza, di sofferenza e di riscatto.

Negli occhi di Giò si leggeva tutta la fierezza del padre e del marito, ruoli consacrati che cancellavano col rito il disonore e la vergogna. Io, diventata moglie e madre, rendevo alla famiglia l’originaria dignità che solo una come me poteva aver macchiato d’ignominia. Ora potevo stare tra la gente perché non ero più l’essere spregevole aborrito da suo padre né la sepolta viva che doveva espiare la sua colpa nel rifugio, per non contaminare l’onorata società. Se per la cultura ufficiale la mia conquista poteva chiamarsi libertà, per me era soggezione a uno schiavismo nato ancor prima dei nuraghi, che l’uomo amava perpetuare per il suo ancestrale bisogno di dominio.

Così il ricco possidente assoggetta lo straccione, il letterato il povero grullo di campagna e il potente le masse popolari. Per me era l’ignoranza la madre di ogni schiavitù ed io mi sarei fatta tigre per difendere mio figlio dalla sua minaccia, sapendo anche di poter contare sulla sensibilità e l’intelligenza di suo padre.

La venuta al mondo di Nannino la vedevo come la scia luminosa che lascia in cielo una cometa: la luce guidava alla sua culla il padre di Giò, Menico e Rocco e gli zii Nardo e Diadora. Il bimbo, allattato al seno, cresceva bene e quando arrivarono Loretta, Salvo e Teresina, era roseo e paffutello.

Cesarina da tempo aveva concluso con noi il suo rapporto di lavoro; al fiume andavo io con in testa un catino pieno di panni da lavare e Nannino adagiato in una cesta che portavo in braccio. Era lunga la strada da percorrere e tutto diventava più difficile col freddo dell’inverno. Non avevo perso l’abitudine a lavare stando inginocchiata, né  a piegare la schiena sulla pietra.

Tornava il tempo dell’adolescenza: la fatica era la stessa, di diverso c’era un figlio.

Era cambiato lo scenario: non erano i monti a chiudere l’orizzonte del mio mondo ma campi desolati, muri a secco e il rudere di qualche casolare. Il silenzio era quello conosciuto. Sentivo la voce d’incredibili distanze mescolarsi ai misteri di segreti abissi venuti dal passato e il fluire di millenni sempre uguali che popolava la valle di fantasmi e incideva sulle rocce volti umani d’altri tempi.

I vagiti di Nannino erano per me l’unica risposta al silenzio della vita nelle lunghe giornate di bucato, e in casa, aspettando che tornasse Giò.

Quando vennero a trovarci Maso, Vanni e Aria, nostro figlio aveva già sei mesi. Era un bambolotto dalle guance color pesca, che sgambettava nella culla o sul mio grembo, mentre gli tenevo le manine tra le mie. Il pianto diventava riso quando mi affacciavo alla culla e sentiva la mia voce o lo portavo con me, nelle giornate di sole, lungo il sentiero che portava alla casa di Vittoria.

Maso, diciannove anni, non era molto cambiato: capelli lisci e scuri, pelle bruna e un sorriso largo che infondeva sicurezza. Mi tenne stretta in un abbraccio che sapeva d’antica intesa e di complicità. I suoi grandi occhi parlavano della comune adolescenza vissuta sui picchi del Limbara, dello scampolo di libertà che fu causa della mia segregazione e del cammino di dolore imposto dalla società dei benpensanti. Fu molto affettuoso con Giò, come se il loro incontro nascesse da una lunghissima amicizia mai interrotta. E di Nannino s’era innamorato sul momento.

Vanni, quindici anni, era quasi un uomo. Alto e magro, fronte spaziosa e capelli ricci, era giocherellone come da bambino. E Aria, la mia bambola cresciuta, aveva tredici anni. Non mi superava par statura ma poco ci mancava. I capelli lunghi erano raccolti, come i miei, dietro la nuca, la pelle era chiara e gli occhi neri. In lei la bellezza e la femminilità non potevano essere disgiunte. Mi portavano una ventata di vita di famiglia e tante lacrime di gioia. Avevano il profumo dei miei monti, la freschezza dell’acqua del ruscello, la fragranza del  verde di montagna e negli occhi la mestizia del rimpianto. Ci portavano in dono i frutti dell’orto e della vigna che il babbo aveva colto per noi, e i suoi saluti. Maso mi raccontava della sua tristezza, che gli mancavo, e parlava di me come di figlia che mai l’avrebbe perdonato. Le ore di lavoro le passavano così, tra lunghi silenzi e sfoghi amari, con la testa china sul solco e sulla zappa.

Cominciavo a capire che il dolore non era stato solo mio e s’era insinuato nella mia vita e nella sua come l’acqua satura ogni spazio.

La partenza dei fratelli chiudeva una splendida giornata e spegneva la gioia provvisoria. Giò soffriva del mio isolamento non voluto e m’incoraggiava dicendomi che S. Gavino era una destinazione temporanea, bisognava solo pazientare, in attesa di un trasferimento ad altra sede, per anzianità di servizio o meriti acquisiti. Mi parlava spesso del lavoro. Faceva il caposquadra alla manutenzione della ferrovia ed era benvoluto da superiori e subalterni. Aveva l’incarico di relazionare qualsiasi fatto riguardasse la tratta sotto il suo controllo, ed era bravo. Lo vedevo scrivere la sera, dopo il lavoro, fogli e fogli che poi mi leggeva per soddisfare la mia curiosità. Aveva una bellissima grafia: chiara, pulita, i caratteri grandi, obliqui, perfettamente uguali. Sembrava che il vento avesse inclinato verso destra una siepe ben curata di piantine di grano a mezza altezza. Come lo invidiavo! Io ero una frana e quando glielo ricordavo, mi sorrideva e, passandomi un braccio intorno al collo «Mi piaci cussì» «Mi piaci così» mi sussurrava.Ma non mi bastava perché come ogni donna, avevo un mondo mio dove coltivavo tanti sogni. Nei ritagli di tempo, quando Nannino riposava, sfogliavo i suoi libri ancora chiusi dentro una valigia. Lì c’era la cultura a me preclusa; li accarezzavo e poi li riponevo, pensando che avrei potuto creare per loro uno spazio visibile e adeguato. Contavo sulle idee geniali del mio sposo; realizzò infatti uno scaffale a tre ripiani dove li disposi con cura, riservando un posticino ai quaderni che Linuccia mi aveva regalato da bambina. Li conservavo come cimeli antichi. C’erano i miei scarabocchi a ricordo di un’infanzia dimezzata. Collocammo lo scaffale in una stanza vuota al piano superiore, dove stavano la nostra camera da letto e la cucina; quella diventava la stanzetta di Nannino nel giorno del suo secondo compleanno, lo stesso in cui scoprivo di aspettare un altro figlio.La cosa ci riempì di gioia, perché sognavamo di dare al bimbo un fratellino che dividesse con lui amore e giochi. Avevo notato che cresceva taciturno e troppo solo nella grande casa vuota di presenze; sarebbe diventato troppo presto adulto accanto a me e nei ricordi sarebbero mancati quelli dell’infanzia.I bimbi soli non amano sorridere.Guardavo Nannino con dolcezza nuova, era un comunicare con l’amore nuovo amore e volerne dividere il mistero e la profondità. Si ripeteva il miracolo stupendo della vita, che mi faceva rivivere le incredibili emozioni d’una volta, arricchite di consapevolezza e volontà. Si rinnovava la mia totale appartenenza a Giò, perché concepire un figlio significa sentire vivo nelle viscere e nel sangue il seme che vi è penetrato.

E il buon seminatore era grato alla sua terra.

La nuova situazione consigliava di correre al risparmio, per questo Giò coltivava un orticello nei giorni di riposo ed io lo sostituivo quando invece era in servizio. Aprivo e chiudevo il solco all’acqua che attingevo dal pozzo con la forza delle braccia, diserbavo la terra e fornivo sostegni alle piantine. Mi occupavo anche di poche galline e un maiale che avevamo deciso di allevare per soddisfare le esigenze di famiglia. Nannino mi seguiva osservando tacito ogni cosa, ed io cantavo, felice del suo amore e del mio uomo:

cante bedda

Nannino cresceva a vista d’occhio, golfini e pantaloni erano sempre da rifare. L’essere in grado di far maglia, di tagliare e di cucire era una fortuna che mi permetteva un notevole risparmio, tuttavia di ogni capo aveva solo il cambio e dovevo provvedere in tempo al lavaggio e all’asciugatura. Avevo riposto nei cassetti il suo corredo da lattante e già pensavo che sarebbe stato provvidenziale al nascituro. A fare la mamma avevo imparato prima ancora che lo diventassi, per questo Giò, e per la capacità che avevo di gestire i piccoli risparmi, mi consegnava lo stipendio, chiedendomi al momento quanto gli serviva. Potevo constatare che almeno in amore ero stata fortunata; mi adorava e riponeva in me la massima fiducia.

Mi confessava che soffriva molto del fatto che avesse troppo poco tempo per stare col bambino «No mi résci a gudimmillu còm’arìa ‘ulùtu» (Non riesco a godermelo come avrei voluto), mi diceva sottovoce, quasi avesse paura che lui sentisse.

Parte decima

Chicchina

 

Chicchina venne  alla luce quasi all’improvviso, nel tardo pomeriggio di una domenica d’estate. Erano con noi Vittoria e Cesarina, venute a renderci un canestro con dentro una focaccia cotta al forno. Mentre assaporavo il pane ancora caldo e ne respiravo la fragranza, mi sentii irrigidire da una fitta dolorosa e poiché la gravidanza era giunta al nono mese, capimmo subito di cosa si trattava. Facevo appena in tempo a distendermi sul letto, che la bimba nasceva tra lo stupore e l’incredulità di Giò e di Vittoria che mi spiegava la facilità del parto, dovuta a una dilatazione anticipata. In effetti, dalla fine dell’ottavo mese, avevo avuto la strana sensazione come di larghezza vaginale e di pressione verso il basso, e temevo che il bambino nascesse mentre camminavo. Pensava giusto dunque Vittoria, donna eccezionale con la passione di far nascere i bambini. Dopo la fatica, mi porgeva con orgoglio una bambolina dalla pelle bruna e i capelli neri, che mi lasciava senza fiato. Era il massimo! Una sorellina per Nannino e un dono stupendo per noi due. Riflettevo. Per ogni figlio che nasce l’emozione non ha paragoni.

Fu tenuta a battesimo da Salvo e Loretta e la circostanza servì a rinnovare le visite; ci si vedeva infatti solo in queste occasioni. Nannino adorava la sua sorellina e per vederla anche quando dormiva, saliva su uno sgabello e si affacciava alla culla. Lo osservavo a distanza. Restava a lungo, immobile, appoggiato alle tavole bianche, senza fiatare. Pensavo a tutto quello che nella mente di un bimbo poteva passare: dalla voce al silenzio, all’immagine, al pianto. Aveva ceduto la culla a Chicchina prima ancora che venisse alla luce; lo avevo preparato senza alcuna fatica, perché gli piaceva il suo letto da grande e si sentiva un ometto. La bontà dipinta sul volto ricordava il santino del Divino Bambino; era la nostra icona d’amore che già percepiva di noi ansie e timori. Seduto sul pavimento accanto alla bimba, la faceva giocare per ore, ed io potevo sbrigare, tranquilla, le faccende di casa. Consolava il suo pianto con baci e carezze di una tenerezza infinita e la sua sensibilità era motivo per me di commozione profonda. Tornando al passato, mi vedevo intristita dal rifiuto di un mondo senz’occhi, troppo lontano per capire, di un figlio, le meraviglie della mente e del cuore. Mi offendeva il ricordo dolente di quel ventre fecondo che non mi era dato mostrare, e spegneva in me la speranza di una nuova cultura. Ci legava uno straordinario rapporto, paragonabile solo a quello che esiste tra il feto e la madre, perché insieme avevamo vissuto e sofferto il dolore di chi è rinnegato .Dell’amore per Chicca faceva uno scudo a difesa della sua libertà, quasi fosse presago di qualche lontana sventura. Mi compiacevo, guardandoli, e «Che arcano mistero! Sono nata tre volte», dicevo a me stessa.

Giò ed io avevamo imparato a fare tante rinunce, perché era desiderio comune possedere una sala da pranzo e collocarla al piano inferiore. Avevo in mente di comprare una bella credenza, un tavolo, sei sedie e una rete che avrei trasformato in divano, realizzando un copriletto con balza e due lunghi cuscini a mò di spalliera. Mi sarebbe piaciuto anche comprare piatti e bicchieri, ma avevo paura che fosse troppo sognare; tuttavia mi sforzavo di sbarcare il lunario senza intaccare i pochi risparmi. Nell’orto, Nannino vegliava la bimba, mentre innaffiavo i solchi e zappettavo la terra. In casa avevamo le uova, come pure le provviste di salsicce e prosciutti, strutto, lardo e carne in gelatina. Quando si ammazzava il maiale (l’ammazzatògghju di lu pòlciu) era una festa: ci si riuniva con la famiglia di Bartolo, e si mangiavano la coratella (la rivèa) arrostita al camino e il sangue bollito, dolce e grasso (lu sàngu dùlci e lu sàngu gràssu), di ottimo gusto, nel grosso budello imbottito. Erano giorni memorabili, soprattutto per i bimbi che sgambettavano per casa o sull’aia, osservando ogni cosa. Si poteva risparmiare anche sulla legna. Giò, infatti, era autorizzato all’utilizzo delle vecchie traverse per rotaie, al cui smaltimento nessuno provvedeva, ed erano d’ingombro negli spazi adibiti al deposito di nuove. Inoltre facevo il pane in casa come ai vecchi tempi e, come la mamma, preparavo l’uovo di Pasqua ai bambini. Come allora, tornavano le fole intorno al focolare, le stesse che raccontava a me, e insieme alle scintille, lungo la cappa salivano anche i sogni. Avevo recuperato, tramite i fratelli, il suo corredo personale, compresi i capi di vestiario, e anche questo ci fu di grande aiuto.

Quando comprammo la sala da pranzo mi sembrò di toccare il cielo con le dita: era la prima volta che potevamo gioire di un acquisto così grande, realizzato dopo tanti sacrifici. Per noi non c’era stato un viaggio né uno svago dai tempi degli incontri con gli amici in casa di Linuccia, e i giorni di festa erano stati cancellati dal lavoro. Ci abbracciammo commossi davanti ai nostri mobili in ciliegio chiaro. La credenza aveva tre sportelli a vetri nell’alzata e tre in legno nella base. I vetri, incisi al centro con motivi floreali, erano impreziositi da qualche leggera pennellata color oro e il legno era levigato e luminoso. La sala, oltre al bellissimo tavolo quadrato e sei sedie, contava una specchiera col piano in marmo verde con striature bianche. I nostri risparmi, assai modesti, ci consentivano solo un pagamento personalizzato e non ci permettevano, al momento, di realizzare altri desideri. Non mi dispiaceva più di tanto. Perché il pieno di felicità era già fatto; per questo l’attesa non sarebbe stata lunga né difficile. Infatti non lo fu. Al momento opportuno scegliemmo insieme un bel servizio di piatti, dodici bicchieri e due caraffe che collocai nei ripiani della bellissima credenza. All’acquisto dei mobili ci fu fatto omaggio di due portavasi in legno, molto delicati. Erano alti poco più di un metro, con due ripiani che univano le quattro stecche laterali; su quello superiore, un po’ più piccolo, collocai una piantina ricadente e su quello inferiore, una a cespuglio. Disposi i portavasi lateralmente alla credenza; dirimpetto c’era il bel divano che avevo realizzato con una favolosa stoffa fantasia. Al centro del tavolo collocai un bel vassoio di ceramica, gradito dono di Loretta e Salvo.

Tornando dal lavoro, Giò guardava ammirato la saletta, elogiando il mio buon gusto nella disposizione degli arredi. Era fiero della famiglia e della casa, come lo ero io; l’una e l’altra crescevano con la fatica quotidiana. Mi sembrava di vivere un sogno e qualche volta mi sorprendevo a dubitare della reale esistenza di ciò che possedevo. Avevo paura che qualcuno mi portasse via quel pezzo di cielo che avevo dentro al cuore. Chi è povero sa apprezzare anche le cose molto semplici e ogni conquista diventa straordinaria, quasi irreale. Per me era così. Abituata a vivere nella quotidiana rinuncia, la novità di un acquisto anche modesto, mi accendeva di gioia e mi aiutava a sperare. E poi c’era Giò, col suo ottimismo, a illuminare il nostro percorso di vita; per lui ogni ostacolo restava delle sue dimensioni reali, per me diventava montagna. L’amore di Chicca e Nannino e il gusto della casa accogliente non bastavano a colmare il vuoto che avevo nell’anima, forse perché troppo presto avevo piegato la schiena e troppo a lungo conosciuto il silenzio, perdendomi in esso. La mia era una sete che niente e nessuno poteva saziare: volevo sapere e conoscere ed ero appassionata di versi, e non sapendo parlare né scrivere la lingua italiana, li esprimevo in vernacolo e li mandavo a memoria. Sognavo di far partecipi gli altri di questa passione ma non avevo strumenti, né potevo sperare che a questo bisogno ci fosse un rimedio. Il mio pensiero era figlio del vento e andava perduto, tutt’al più potevo tenerlo per me, ma questo non serviva a nessuno. La mia si associava all’infelicità degli esclusi «Ca no sa è pègghju di lu chi no vidi» (Chi non sa è peggio di chi non vede), pensavo amaramente. Questo chiodo fisso tormentava i miei giorni e la mia terra ne era colpevole, con i suoi monti ai confini del mondo, le valli che non conoscevano eco e le campagne popolate di serpi.

Per lei il tempo si era fermato ai nuraghi, non aveva saputo vedere oltre il mare la vita, e rifiutava le braccia ai figli più deboli. Chi voleva vivere, morendo doveva partire, e chi restava doveva morire. E poi c’era la morte alla cultura e al sapere che forse è quella peggiore, perché è un’agonia che dura tutta la vita. Ti assale quando pensi all’infanzia vissuta nel buio, all’adolescenza umiliata, al figlio che porti nel grembo, al bucato e alla culla e all’uomo che ami e vedi solo alla sera. Ti colora i giorni di nebbia e fuliggine e anche quando il sole si mostra, non riesci a scaldarti .È un cancro che toglie la consapevolezza di sé e svilisce la vita. Ti esclude dal mondo che ti appartiene solo a metà, dove ti senti straniera pur essendone figlia, dove devi “graffiare” per poter sopravvivere e l’indifferenza degli altri ti aiuta a morire. Non conoscerai verità, ti sarà negato il diritto e tolto del tuo, perché ci sarà sempre chi vorrà adeguare sapere e cultura ai propri interessi e tu non avrai possibilità di difesa. La scuola è come la culla: l’una sviluppa la mente, l’altra necessita al corpo. Chi, come me, è cresciuto nel piccolo stazzo, al mondo ha perduto la voce e il pensiero è come un bambino mai nato. Per amore dei figli avrei spezzato catene, impedito il corso dei fiumi, bruciato l’orgoglio e urlato il dolore. Per loro avrei sconfitto la morte. E tornavo a sperare di lasciare quel luogo dove ogni rosso tramonto diventava di sangue e ogni alba una rada di lacrime, dove Chicca e Nannino crescevano come me divisi dal mondo. L’amore di Giò e la sua fatica di padre mi aiutavano a superare l’attesa di tempi migliori. Nannino aveva compiuto il quinto anno di età e presto, con Chicca per mano, l’avrei accompagnato alla scuola che distava da noi quanto la casa di Bartolo. Si sarebbe trattato di una pluriclasse, sempre meglio di niente. Avrebbe imparato a leggere e scrivere, e a socializzare con i pochi bambini che provenivano dalle campagne. Pur conservando l’idioma che faceva parte della nostra cultura, avrebbe imparato a parlare la lingua italiana. La via del riscatto passava per questa.

Continua…

La Sorso del 1833/1856 secondo Angius – Casalis

 

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di Piero Murineddu

Ancora in vita la carissima Gavina Demurtas, nel mio curiosare periodico, s’intende fatto sempre col massimo rispetto, nella stanzetta della sua casa dove il preziosissimo e compianto PETRONIO PANI aveva creato una sorta di Archivio delle sue innumerevoli ricerche sugli svariatissimi interessi, avevo scoperto il 17esimo volume del Dizionario “La Sardegna paese per paese“, in cui gli autori, i religiosi Angius e Casalis, informano sulla SORSO degli anni 1833 – 1856 (*)

Vi si parla dei luoghi, persone, economia di allora. Della pescosità nello stagno, meno abbondante dopo la universale mortalità di pesci nel 1795 per avvelenamento; di passeri in numerosi sciami che recavano non poco danno alle biade in maturazione;  dei palmizi, da cui i poveri ricavavano i germi che si vendevano per cibo e delle foglie con le quali si fabbricavano corde e spazze; del midollo della radice e del tronco (sempre della palma nana) che ha un sapore che stuzzica l’appetito e porta a bevazzare possibilmente di quello rosso;  della tùvera, specie di tartufo che dava delicatezza alle pietanze; della tanca del signor Francesco Luigi Marogna in cui si erano scoperti indizi di un’antica fabbrica di vasellame.

I sorsinchi erano laboriosi e industriosi, e raramente qualcuno era costretto a mendicare il pane. Le donne lavoravano sempre. La scimmietta cieca, sorda e muta era la regola anche allora, e infatti se capitava qualche delitto, nessuno vedeva, sentiva e tanto meno parlava. Insomma: fatti gli affaracci tuoi e non rischi, anzi, puoi addirittura sperare di toccare i cent’ anni e andare anche oltre. Al tempo, si legge che tra i poco meno di 4 mila sussinchi, ad arrivare ai cent’anni potevano essere appena un masciu e una fémmina. Segno che i più non se li facevano i cazzacci propri? Ma no, dai. Comunque sia, a ciascuno il giudizio se le cose oggidì siano cambiate o meno.

In occasione della festa della Vergine, che si distingue con lo strano titolo di “No mi ni caba’ “, i seguaci del Poverello d’ Assisi ricevevano abbondanza in vari et eventuali. A tal proposito, in quegli anni nel convento erano presenti addirittura 29 frati, per cui le offerte in alimenti da parte della popolazione non potevano che essere  molto gradite. I preti presenti  erano invece 11. Si può così dedurre che il gregge sorsinco fosse adeguatamente curato?

Interessante questo testo che consiglio di leggere senza fretta e con l’ attenzione che merita. Si noterà che molti termini sono scritti diversamente da come facciamo noi oggi. Dal momento che si tratta di religiosi, i due erano sicuramente “studiati”, per cui non si tratta di errori da attribuire ne a loro ne tantomeno a me, per cui, tranquilli: come ci trasformiamo noi, si trasforma anche la lingua.

Buona lettura

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SORSO, volgarmente Sosso, villaggio della Sardegna nella divisione e provincia di Sassari, capoluogo di mandamento sotto il tribunale di prima istanza della predetta città, già compreso nella Romandia, come fu detto il contado dell’antica colonia romana, Torre, che fu una delle due capitali del regno di Logudoro.

La sua posizione geografica è nella latitudine 40° 47′ 40″, e nella longitudine occidentale dal meridiano di Cagliari 0° 32′ 30″.

Siede a piè delle colline in cui termina verso maestro-tramontana il gruppo di Osilo, e comincia la maremma sabbiosa di Romandia. Per la qual situazione resta difeso da’ venti di mezzodì-scirocco, ed esposto alla tramontana, al maestrale e al ponente. Gli altri venti sono men liberi per maggiori o minori ostacoli. Dista dal mare poco più di due miglia con inclinazione quasi insensibile del piano.

Nell’estate per la periodica brezza marina o per i venti il caldo è molto temperato, nell’inverno il freddo è sopportabile, se non regni l’aquilone. Come si può supporre spesso imperversano furiosi i venti.

Le pioggie non sono molto frequenti, come nè pure i temporali di grandine e di fulmini. La neve imbianca talvolta il suolo, ma in poche ore o in pochi giorni svanisce.

L’umidità è spesso molesta e non è rara la nebbia, sebbene sia leggera e nulla nociva.

L’aria anche ne’ tempi dello sviluppo de’ miasmi n’è poco contaminata.

Sono in Sorso le strade poco regolari, ma generalmente sufficientemente larghe e selciate, dove potrebbe nell’inverno la terra imbeversi d’acqua e farsi pantano. I fabbricati sono semplici, sì che pochissimi hanno un bell’aspetto. Eravi notevole il palazzo baronale, ma l’ira popolare nella insurrezione del 1795 de’ popoli logudoresi contro i feudatari tanto lo guastò che ormai non restano che le sole mura.

Vi sono molte comodità pubbliche, botteghe di merci e di commestibili, cantine, una beccheria ecc. Vi sono delle città in Italia che in paragone pajono meschini villaggi.

Territorio. La lunghezza del medesimo si può computare di miglia 8, la larghezza media di 3, sì che si può computare una superficie di circa 24 miglia quadrate, o poco meno di giornate 20,000.

La massima parte di questa superficie è piana, la restante rilevata in colline facili, e quasi in ogni parte coltivabili.

Presso al mare a un miglio dalla foce del Silis, volgarmente rio di Sorso, sono tre piccole collinette poste in triangolo che diconsi Tres montes; quindi è notevole il monte di Pietrafuoco, che si prolunga per tre miglia sino al mare, dove è conosciuta la punta dello stesso nome.

Fra le valli noto quella che comprendesi quasi tutta nella circoscrizione di Sorso ed è quella dove scorrono le acque di Sennori in direzione a ponente-maestro per versarsi nello stagno di Platamone, come appellasi.

Questo rivolo ha la prima sorgente nella valle di Buttangari, l’altra presso il monistero distrutto de’ Benedittini, detto di s. Michele di Piana, e poco sotto un’altra detta di lu mattoni. Quando non si semina in questa valletta vi si piantano melloni, cipolle, tabacchi, e la corrente serve all’irrigazione.

La valle del Silis nella maremma non ha una notevole depressione. Anche in questa parte i sorsinchi servendosi dell’acqua vi coltivano i legumi.

Le fonti sono poche comparativamente alla totale superficie del territorio; ma bisogna ritenere che la massima parte di questo è piana con lunghissimi spazi sabbiosi.

Prossimamente al paese sono quattro fonti, le quali raccolte in quattro vasche coperte sono introdotte in un castello, onde si versano all’uso pubblico.

Questo castello è costrutto di pietra ordinaria ed ha in rilievo il sole e la luna, il simbolo delle quattro stagioni ed un serpente attorto ad un’ancora.

Queste acque dando più che serva al bisogno della popolazione bastano ad inaffiare gli orti ed i giardini che si trovano nel suo corso alla distanza d’un miglio.

Presso i confini del territorio di Sassari, nella regione di Gerido, si apre una fonte; quindi un’altra dissotto e ad un miglio, che dicono l’Abbiu; una terza nella stessa valle, che si conosce sotto l’appellazione di Canthru Martini, e inferiore a queste una quarta nel luogo detto Sa Paludedda.

Tutte queste acque raccolte in un canale formano un rivolo che basta ad irrigare gli orti coltivati in essa valle alla distanza di miglia 3.

Nelle dette acque si prendono anguille, e trovasi il muggine presso le foci.

Lo stagno di Platamone è lungo poco meno di miglia 2, e largo circa 2/5. In esso trovasi una peschiera formata da un piccolo canale, nello sbocco del quale mettesi un canniccio, dove, essendo calate le acque, le anguille e l’altro pesce restano in secco. Il prodotto della pesca vendesi a Sorso ed a Sassari.

In altri tempi era maggior abbondanza in queste acque, e fu dall’anno 1795 in seguito ad una quasi universale mortalità de’ pesci, che la pesca diminuì, in seguito, come pare, all’avvelenamento delle medesime. La pesca è fatta quasi sempre da un uomo solo.

Si trovano in questo stagno infiniti stormi di anitre, di folaghe e d’altre specie acquatiche.

La comunicazione di questo stagno col mare essendo quasi sempre chiusa, ciò è causa che non vi possano entrare dei pesci, e siccome nelle sue sponde vi hanno tratti fangosi onde nell’estate si svolge molta infezione, però sono nell’estate frequenti le terzane doppie nel paese, quando soffiano con troppa frequenza i venti di ponente-maestro.

Il selvaggiume si ristringe alle sole volpi e lepri, che non sono in gran numero, perchè i principali del paese molto spesso vanno alla caccia.

Si prendono pure pernici, quaglie, tordi e merli. I passeri sono in sciami tanto numerosi, che recano non poco danno alle biade quando non sono ancora mature.

Nella regione verso greco trovansi, ma rari, alberi ghiandiferi ed altre piante cedue. In questa parte trovansi sparsi per tutto i palmizi, i quali sono un ramo di lucro ai poveri, perchè sterpano i germi che si vendono per cibo, e delle foglie fabbricano corde e spazze.

Nei terreni ingombri delle macchie dei palmizi trovano i medesimi copiosissime le lumache, dalla vendita delle quali ritraggono molte migliaja di lire. Il palmizio è un arbusto del genere delle palme nane, che, come abbiamo accennato, trovansi in altri littorali dell’isola. Le foglie sono come quelle della palma ma a ventaglio. La radice e tronco ha un midollo biancheggiante e più compatto, ed un sapore dolce-amaro che non dispiace ai forestieri, stuzzica l’appetito, e chiama molto vino. Nei tempi di carestia supplisce, come altrove, i pomi di terra. Questa pianta, sebbene tagliata, se si lascino le maggiori radici, ripullula.

Abbiamo notato le molte sabbie che coprono grandi tratti delle maremme, e le rendono sterili, perchè in quella regione appena vedesi qualche filo d’erba: tuttavolta la sterilità non è assoluta, perchè in quelle arene si produce la tùvera, certa specie di tartufo che pare aver somiglianza alle trifole del Monferrato, ma che sono inodore. Nelle tavole sono una pietanza dilicata, e se ne mangia in quantità senza temer offesa allo stomaco, come accade per lo contrario nelle trifole.

La roccia unicamente dominante in questo territorio è la stessa che trovasi nel territorio di Sassari.

Si fa in varii siti della calce, che però non lega molto forte, e si tagliano delle pietre per edifizi.

Trovasi pure argilla buona per i vasai, e in altro tempo era adoperata. Non sono molti anni che in una tanca del signor Francesco Luigi Marogna si sono scoperti gli indizi d’un’antica fabbrica di vasellame, dove si trovarono molte lucerne di essa terra di colore rosso, ed alcune figure o statuette. Siccome una di esse aveva in rilievo le parole El rey Herodes, però si può da questo congetturare, che nel tempo della dominazione castigliana fosse ancora questa fabbrica in attività.

Popolazione. Nel censimento del 1846 si numerarono in Sorso anime 3984, distribuite in famiglie 1059 e in case 811.

Questo totale d’anime componevasi dalle seguenti parziali secondo le età in uno ed altro sesso: sotto i 5 anni, maschi 253, femmine 271; sotto i 10, mas. 253, fem. 359; sotto i 20, mas. 447, fem. 450; sotto i 30, mas. 343, fem. 347; sotto i 40, mas. 275, fem. 227; sotto i 50, mas. 267, fem. 224; sotto i 60, mas. 87, fem. 97; sotto i 70, mas. 35, fem. 26; sotto gli 80, mas. 14, fem. 4; sotto i 90, mas. 1, fem. 2; sotto i 100, mas. 1.

Distinguevasi poi il totale secondo la condizione domestica, il totale de’ maschi 1977 in scapoli 1175, ammogliati 731, vedovi 71; il totale delle femmine 2007 in zitelle 988, maritate 721, vedove 298.

I numeri del movimento della popolazione sono, nascite 160, morti 90, matrimoni 42.

Nel 1829 numerava Sorso anime 3414; nell’anno seguente ne mancarono circa 200. Nel 1830-31 32 nacquero 500, morirono 300, si maritarono 130. Nel 1835 si numeravano maggiori d’anni 20, maschi 1087, femmine 1133, minori maschi 969, femmine 962.

Il popolo di Sorso è uno dei più laboriosi e industriosi che abbia la Sardegna, tutti occupandosi in qualche professione, ed intendendo a procacciarsi il necessario, o ad accrescere la fortuna. Chè se non si riconoscano grandi patrimoni, sono però moltissimi che vivono in qualche agiatezza, ed è raro veder alcuno che vada mendicando il pane. Le donne sono attivissime come gli uomini, lavorano sempre, e quelle della bassa classe vanno pedestri a Sassari per una via di quasi 5 miglia portando frutta e tanti altri articoli, spesso per un piccolo profitto.

È passata in proverbio la semplicità dei sorsinchi; ma se gli antenati furono in generale persone scempie, i loro posteri son tutt’altro, così come si avvera dai popolani di altri paesi, che aveano la stessa riputazione di questi. Parve a molti che il clima contribuisse a rendere stupidi ed imbecilli gli abitatori; ma il clima non essendosi alterato quelle condizioni morali, certamente esagerate, ora non sono più riconosciute.

Si accusano i sorsinchi del nessun loro concorso al buon procedimento della giustizia, non trovandosi uno tra una moltitudine spettatrice d’un delitto, che attesti contro il conosciuto delinquente. La causa di questo fatto è nel timore che possa venir loro male da’ parenti del reo.

Notossi pure quasi nullo lo spirito sociale in alcuni casi, perchè nessuno soccorse in favore de’ deboli oppressi da uomini violenti, e quando da banditi fu fatta invasione nel paese e aggredita qualche casa, nessuno osò prender le armi per rispingere gli assalitori e proteggere gli assaliti.

I sorsinchi parlano il dialetto sassarese, ma con una pronunzia lenta, dalla quale pochi si disavvezzano.

I principali del paese, massime i nobili, vestono come nella città, e parimente le loro donne; gli altri hanno le brache sarde sopra i calzoni di lino, usatti di panno forese, giubba di panno e gabbano di detto panno con berretto nero o color di caffè; le loro donne vestonsi per lo più con indiane, lasciato il panno che già usavano, e imitando le donne dei contadini di Sassari.

Le più frequenti malattie nell’inverno e primavera sono le infiammazioni d’ogni genere; nell’estate ed autunno febbri periodiche sovente intermittenti.

Vedesi spesso la clorosi, e nell’estate non sono rarissimi i casi del carbonchio, che si guarisce con facilità, se nel bel principio, levata la cotenna, se gli attacca un pezzo di corno di cervo abbruciato, e si sostituisca un altro simile pezzo distaccato il primo.

Nel carnevale le persone della bassa classe mascherate e non mascherate ballano nelle piazze, le persone di miglior condizione ballano in sale particolari di notte.

Nel primo ed ultimo giorno di carnevale vi è corsa di cavalli nella piazza, cioè nella strada principale, e si vedono correre li 30 e più cavalli in discesa. Fra questi vi sono quei cavalli nobili, che sono nel numero de’ corsieri, e che si mandano in tutte le feste dove corra-si il palio per gareggiare nell’arringo.

I defunti si accompagnano alla chiesa da tutta la parentela. Se uno sia perito per mano nemica le donne vestite di sajo e velate di bruno nell’accompagnarlo levano i lamenti, si offendono nella persona, e non si moderano neppur nella chiesa.

Sono tra’ sorsinchi applicati all’agricoltura persone 1170 in circa, alla pastorizia 150, ai mestieri e al negozio circa 130. Le donne si occupano nella tessitura del lino e fanno ottime tele e con disegni lodevo

li. Altre intrecciano le foglie de’ palmizi in corde e fanno spazze, che si vendono in tutto il Logudoro. Abitano in Sorso sedici famiglie nobili e il casato di alcune è di alta antichità.

Nelle professioni liberali si numerano notai 10, procuratori 6, medici 2, chirurgi 2, flebotomi 3, farmacisti 3. Ma forse neppur adesso le partorienti non hanno una levatrice che le assista.

Il clero componesi di preti 11 e frati 29.

In tutto il paese sanno leggere e scrivere circa 200 persone; ma non tutte impararono nella scuola primaria.

Questa scuola suole avere inscritti 50 fanciulli; ma non vi concorre con qualche assiduità neppur il terzo di questo numero.

Quando sussisteva il sistema delle milizie Sorso avea con Sennori una schiera di 112 militi; dopo l’instituzione della guardia nazionale, essendosi abolita quella milizia e non organizzata ancora l’altra, non si può notare la forza armata che abbia questo paese.

Agricoltura. Nella sua circoscrizione sono terreni attissimi a tutte le specie di cultura, de’ cereali, delle piante ortensi, della vigna, degli alberi, solo eccettuato il castagno, che non potè mai allignare.

Nel 1835 Sorso avea terreni chiusi giornate 7000, aperti 4500, pascoli pubblici 4500…

La seminagione del grano è di circa 2500 starelli cagliaritani, quella dell’orzo di 1500, quella delle fave di 350, quella del lino di 300.

La fruttificazione ordinaria del grano è del 10, quella dell’orzo al 15 e anche spesso al 30.

Abbiamo indicato i diversi siti e quanto sono essi estesi ove si fa l’orticultura, e basta questo perchè si stimi quanto essa sia estesa. Lo smercio facile di questi articoli che si può fare in Sassari ha incoraggiato alla medesima.

Le più comuni specie di erbaggi sono cavoli di tutte le specie, lattughe, cardi, citriuoli, melloni di ottima qualità ecc. Si fa pure piantagione di tabacco e bisogna dire che le foglie degli orti di Sorso in buona situazione sieno preferite a tutte le altre, perchè macinate danno un tabacco che supera le altre farine. Se si permettesse l’esercizio di questa industria Sorso darebbe tabacchi finissimi da potersi pareggiare a quei di Spagna! e questa asserzione non parrà temeraria se si consideri la bontà di quelli che si fanno di contrabbando, e per conseguenza senza quella diligenza ed attenzione che si darebbe in un lavoro libero.

La vigna prospera mirabilmente e produce uve di vino e mangiabili di ottima qualità. Le varietà delle uve sono più di venti tra bianche e rosse e nere.

La vendemmia è copiosissima di vini neri e bianchi comuni e fini. Tra questi ultimi è da notare la malvasia, la quale non cede a nessun’altra nell’isola, massime se vecchia di alcuni anni.

Sebbene facciasi una prodigiosa consumazione di vino nel paese restane ancora una gran quantità che si compera da’ Genovesi a tal prezzo, che ogni carica di 80 litri vendesi a soldi 50 (lire 2. 50), quando vendesi bene.

Si bruciano molte centinaja di cariche nei lambicchi, e l’acquavite vendesi a Sassari e a Portotorre.

Gli alberi fruttiferi non sono complessivamente meno di 250000, e di tante specie, quante ne abbiamo accennato in Sassari, perchè i sorsinchi imitano in tutto i sassaresi, e quando vedono nel territorio di Sassari riuscire una coltivazione essi tosto la imprendono.

Le specie più comuni sono olivi, peri, pomi, agrumi, susini, noci, mandorli, albicocchi ec., di moltissime varietà, e in totale ceppi 200000.

Oliveti. In tanto numero di alberi fruttiferi forse la metà e più sono olivi, da’ quali si ottiene un olio, che per la migliore sua qualità è nel commercio pregiato più di quello di Sassari. Esso come quello della Planargia dovrebbe vendersi a un prezzo maggiore, ma ciò non si avvera spesso perchè si confonde con quello di Sassari.

La cultura de’ gelsi sarebbe favorita dal clima, ma non si è ancora introdotta, perchè difficilmente si tentano le novità, e non si crede a’ grandi vantaggi che si promettono.

Pastorizia. Le regioni incolte sono mediocremente fornite di pascoli, e quasi totalmente prive quelle della maremma sabbiosa.

Il bestiame manso, che i sorsinchi tengono a loro servigio, consiste in buoi 1000 per l’agricoltura e il carreggio, cavalli 200 per sella e basto, giumenti 650 per la macinazione del grano e anche per trasporto di carichi.

Si aggiungano majali 150 che si ingrassano per provvista di casa, e un numero immenso di pollame, che le donne allevano per vendere i capi vivi nella piazza di Sassari e le uova.

Il bestiame rude nelle comuni specie ha i seguenti capi, vacche 750, cavalle 230, capre 2600, pecore 5500, porci 1400.

Da questi armenti e dalle greggie si provvede la beccheria del paese, e si ha dal latte il formaggio necessario alla consumazione interna ed un residuo, che vendesi in Sassari o in Portotorre.

La cultura delle api può comprendere 200 alveari.

Commercio. Da’ prodotti agrari e pastorali e da molti diversi articoli, che si sono accennati ottengono i sorsinchi lire nuove 200000 in circa.

Strade. Da Sorso si può difficilmente carreggiare sulla roccia o suolo naturale sino a mezzo l’intervallo da Sassari nella valle di Logulentu, dove si trova la strada fatta dai sassaresi. Meglio si va in tempi asciutti co’ carri sia presso s. Gavino, dove dopo miglia 6 entrasi nella grande strada.

La via a Castelsardo lunga miglia 10 è piuttosto facile per la prima metà.

Nel rio di Silis trovasi un ponte che resta a miglia 5/6 dalla foce.

Religione. Il popolo di Sorso è compreso nella giurisdizione dell’arcivescovo di Sassari ed è servito nelle cose religiose da tre o quattro preti, il capo de’ quali ha il titolo di pievano. Prestano ancora servigio i frati francescani di due conventi.

La chiesa parrocchiale di antica struttura è stata consagrata sotto l’invocazione di s. Pantaleo martire.

Divisa in tre navate di dieci colonne è sufficientemente capace, e fornita di sacri arredi, ma non ha ornamenti di pittura e scultura degni di menzione. Notasi in una pietra ordinaria una iscrizione dove sono poche lettere visibili, le quali certamente non portano nè un piccol cenno, che indichi la sepoltura del giudice Barisone, come pretendesi da alcuni. Vedi il Tola nella sua Biografia degli uomini illustri della Sardegna.

Sono nell’abitato cinque chiese filiali, dedicata, una a s. Anna, l’altra a s. Agostino, la terza alla s. Croce, la quarta e la quinta sono annesse a’ conventi de’ minori osservanti e de’ cappuccini.

La chiesa di s. Croce è uffiziata da una confraternita, è molto frequentata nella settimana santa per i riti del tempo che vi si celebrano, e negli ultimi giorni del carnovale per le quarant’ore.

In quella de’ frati osservanti hanno una cappella i confratelli della Vergine d’Itria.

Le feste principali sono per s. Agostino nella indicata chiesa ne’ cui vespri si corre il palio, per la Vergine d’Itria, e s. Pasquale Baylon nella chiesa de’ francescani suddetti.

Si celebrano con maggiore o minor pompa, con fuochi artificiali e anche con corsa di barberi, secondo la quantità della limosina questuata nelle aje.

È pure festa popolare quella che si celebra col prodotto delle limosine delle aje nella chiesa de’ cappuccini in onore della SS. Vergine che distinguesi col titolo strano di Noli-me-tollere.

I religiosi ricevono in tal giorno un sontuoso regalo dagli operai della festa, consistente in vacche, montoni, porchetti, formaggio, vini prescelti, in 40 o 50 canestri di pane fino, aranci, ciriegie, ecc. La festa chiudesi con la corsa de’ barberi e con fuochi d’artificio.

Porta la tradizione che il simulacro della Vergine venerata nella chiesa de’ cappuccini sia stata trovata nella spiaggia ed è famosa per miracoli.

Sono in Sorso due cimiteri, uno attiguo alla chiesa parrocchiale, l’altro al convento de’ frati osservanti.

Chiese rurali. A un’ora e mezzo dall’abitato trovasi una chiesa dedicata all’apostolo s. Pietro, piuttosto grandetta, la quale però è sotto la giurisdizione ecclesiastica di Castelsardo.

Molto prossime alla medesima vedonsi le mura d’un’altra chiesa già dedicata a s. Paolo, come è tradizione.

Dall’altra parte, cioè verso ponente, a un’ora dal paese sono le rovine d’un monistero di benedittini.

Alla parte del meriggio in distanza di miglia 2 restano le rovine d’una piccola chiesa dedicata a s. Quirico, d’un’altra intitolata da s. Barbara, d’una terza dedicata a s. Biagio, e non sono molti anni che sussisteva ancora quasi intera la chiesa di s. Andrea in sul sentiero a Sassari, ammirata per la sua costruzione.

In vicinanza a’ limiti con Castelsardo sul lido del mare sono ancora chiare le vestigie della chiesa di s. Felicita, della quale restano le fondamenta.

Infine sul colle di Taniga, verso libeccio, sono tre chiesette, una dedicata a s. Giacomo apostolo, l’altra

s. Marta, la terza a s. Cristoforo. Quest’ultima è piccolissima.

Antichità. A mezzo miglio dal paese si riconoscono le vestigie di due nuraghi.

Alla parte meridionale trovansi le rovine di un abitato, intorno alla suaccennata chiesa di s. Andrea, e in altri due punti, ne’ quali erano i villaggi di Geridu e di Gennor. Verso sirocco a distanza di miglia 3 era Oruspe; al settentrione a un miglio e mezzo nel luogo detto Ruinas, altra popolazione, di cui si ignora il nome, e che deve essere caduta da tempo lontanissimo; più in là sono altre rovine, alle quali si dà il nome di Muros de Maria, e verso levante a circa 5 miglia vedonsi altri vestigi nominati di Suidduddu.

Cenni storici. Nel 1527 fu la terra di Sorso invasa da Rencio Orsino dopo l’infelice riuscita dell’assedio e assalto del Castello aragonese, e gli invasori raccolsero tanta copia di vettovaglie, che vuolsi sieno bastate all’armata per tre mesi. Notasi che i sorsinchi fecero strage di molti francesi.

Il famoso corsaro Barbarossa nelle frequenti sue navigazioni nel mare dell’isola, si avvicinava alle spiaggie di Sorso in anno non determinato, ma di poco posteriore all’aggressione di Portotorre, e alla spogliazione della chiesa di s. Gavino, e sbarcava di notte parte della sua gente per saccheggiarla. Erano già in terra circa 800 giannizzeri presso la foce del fiume Foca (il Fara nella corografia nomina il fiume della valle di Cocco), quando Giovanni Maronjo avvertito della invasione, radunati non più di 50 uomini a cavallo, andò incontro a’ barbari, e lanciò i suoi da due parti sopra di questi, i quali sperando di sorprendere la popolazione furono sorpresi tra la via, e per gli alti clamori de’ sorsinchi credendo di esser presi fra due grosse schiere si volsero in fuga precipitosa verso il mare. Ma pochi si salvarono gettandosi in mare. Gabriel Sasso de Vega nel volume de’ suoi romanzi celebrò in versi questa vittoria.

In altre memorie questo nobile Maronju trovasi nominato Lorenzo, sul quale sono conosciuti diversi aneddoti.

Nel tempo della guerra di successione, quando il Vicerè posto da Filippo fuggì da Cagliari in Sassari, accorsero qui le milizie de’ vicini paesi condotte da’ baroni, o da’ loro procuratori. Vi accorse pure D. Pietro Amat barone di Sorso con i suoi vassalli, ma essendo partigiano di Carlo III persuase il Vicerè a ritirarsi per sua maggior sicurezza nel Castello aragonese. Come il Vicerè se ne partì, entrò egli nella città con la cavalleria di Sorso e di Sennori gridando alti evviva all’austriaco, e favoreggiato da’ cittadini della stessa fazione si impadronì del governo. L’Imperatore lo confermava poi nella dignità di governatore di Sassari e del Logudoro.

Questo barone cominciava la lite che durò sino al 1831 contro i suoi vassalli sulla mezza portadia, e fu decisa dopo 144 anni dal supremo consiglio di Sardegna con sentenza de’ 5 maggio 1831 in favore de’ vassalli.

Noteremo qui le altre memorie storiche de’ tempi più antichi.

È tradizione che uno dei giudici del Logudoro sia stato sepolto nella parrocchia di Sorso, come fu indicato.

Comunemente si crede fosse Barisone figlio di Mariano II e di Agnese di Guglielmo di Massa, succeduto al padre nel 1233, e ucciso ancor giovinetto dai sassaresi tra una sedizione dopo 3 anni e 3 mesi di regno: ma il P. Tealdi delle scuole pie nel suo ms. Catalogus Judicum turritanorum sostiene fosse un altro Barisone molto più antico, e indica quello stesso che assalì e vinse i saraceni, i quali sbarcati presso il promontorio Frisano avevano invaso e devastato la terra e il monastero di Tergu. Dicesi che mentre dopo la vittoria ritornava alla sua residenza in Torre, preso da malattia dovette fermarsi in Sorso, dove morì. Egli asseriva esser così dichiarato nel codice di s. Maria Nulvense.

Questo pare a me più probabile, perchè non si saprebbe comprendere come fosse avvenuto che Barisone II ucciso da sassaresi fosse portato in Sorso, se pure non vogliasi dire che la sedizione fu fatta in Sorso da militi sassaresi, il che però si direbbe senza fondamento alcuno.

 

 

(*) Presentazione del Dizionario ANGIUS- CASALIS   “La Sardegna paese per paese”  curata da L’Unione Sarda

Sul finire degli anni 20 di due secoli fa l’abate torinese Goffredo Casalis decise di pubblicare il Dizionario geografico storico statistico commerciale degli Stati di S.M. il Re di Sardegna.

E nel quadro dell’importante e complessa iniziativa fece una scelta certamente indovinata: dare l’incarico di raccogliere tutte le informazioni sulla Sardegna a padre Vittorio Angius, cagliaritano, scolopio, insegnante, uomo politico, scrittore, giornalista, studioso infaticabile e ricercatore scrupoloso.

Angius accettò subito e con grande entusiasmo. E immediatamente inviò un questionario molto dettagliato a intendenti, vescovi, parroci, sindaci e intellettuali.

Dal canto suo riprese lo studio di opere storiche considerate affidabili. In breve raccolse un’enorme quantità di materiale, tanto da essere indotto a questo ragionamento: «difficilmente Goffredo Casalis potrà gestire una tale valanga di informazioni, meglio sarebbe se mi incaricasse di scrivere le “voci” che riguardano la Sardegna».

L’abate torinese non se lo fece dire due volte. E Vittorio Angius, per assolvere al meglio il qualificato e qualificante incarico, iniziò un viaggio che doveva durare oltre nove anni e durante il quale visitò la Sardegna paese per paese studiando con rigore e pazienza gli usi, i costumi e la lingua parlata in ciascun centro, facendo incetta di informazioni e dati sulla popolazione, sulle attività economiche e prendendo appunti precisi, infine, sulle caratteristiche delle abitazioni private e dei pubblici edifici.

Oppure un …Natale di seconda mano

Oggi è tempo d’incendi, organizziamo presepi, dalle stelle tu scendi e ci senti e ci vedi addormentati in panchina o indaffarati a far niente ed il freddo che arriva, ci brucia e ci spegne

Non c’è nessun segreto, nessuna novità
non c’è nessun mistero, nessuna natività
Io ti regalo una foglia da masticare col pane
e tu una busta di vino per passare la fame

Sior capitano aiutaci a attraversare
questo mare contro mano
Sior capitano, da destra o da sinistra non veniamo e questa notte non abbiamo
Governo e parlamento non abbiamo e ragione, ragione o sentimento non conosciamo e quando capita ci arrangiamo,
e ci arrangiamo con documenti di seconda mano, on documenti di seconda mano

Oggi è tempo d’attesa, organizziamo qualcosa mentre balla sul marciapiede, la vita in rosa che ci guarda e sorride e non ci tocca mai

Ultimi di tutto il mondo, piccoli fiammiferai
Non c’è nessun perdono in tutta questa pietà, non c’è nessun calore, nessuna elettricità. E oggi parlano i cani per sentirsi più buoni, intorno al nostro fuoco cantano canzoni

Sior capitano aiutaci a attraversare
questo mare contro mano
Sior capitano, da destra o da sinistra non veniamo e questa notte non abbiamo
Governo e parlamento non abbiamo e ragione, ragione o sentimento non conosciamo, e quando capita ci arrangiamo, e ci arrangiamo con documenti di seconda mano con documenti di seconda mano

Mentre noi organizziamo presepi senza Mistero e senza Natività

di Pina Sutura

Tratto dall’album Amore nel pomeriggio del 2011, Natale di seconda mano è un brano, una poesia in musica, come altre di Francesco De Gregori, che pone l’accento, tra maestria, ironia e occhi aperti sulla realtà, sul Natale dei cosiddetti ultimi, su coloro che addormentati in panchina, non conoscono ragione o sentimento, non vengono da destra o da sinistra e sono ultimi di tutto il mondo, i piccoli fiammiferai: quella varia e disperata umanità, abbandonata e derelitta di cui il mondo si ricorda esclusivamente a Natale, ma solo per mettere a tacere la coscienza, forse. Stupisce l’estrema attualità del testo: un De Gregori, quasi profetico che dal 2011 anticipa già ciò che sarebbe successo negli anni a venire quando scrive di attraversare questo mare contro mano, di documenti di seconda mano, di richieste di aiuto inascoltate, di povertà, di disperazione senza perdono e senza pietà, (il riferimento ai barconi della speranza è più che chiaro e lampante) mentre noi, persone per bene, organizziamo presepi, senza mistero e senza natività.

Il tema è aspro e non racconta di situazioni idilliache o di favole a lieto fine, anzi la brutta e cruda realtà continuerà  a perpetuarsi periodicamente con i meccanismi di sempre, dagli albori della storia ai giorni nostri e probabilmente anche per il tempo a venire. Alla faccia di chi, oltre 2000 anni fa, è nato per portare l’amore nel mondo….

natale di seconda mano

Ma il Natale di seconda mano è riferito anche a tutte le solitudini nascoste nelle case delle nostre città, alle finte allegrie che animano tavole imbandite, mentre parlano i “cani” per sentirsi più buoni nel giorno di Natale e azzannare ferocemente in tutti gli altri giorni dell’anno.

Le metafore, le allegorie presenti nel testo, le similitudini oltre alla grandissima musicalità  rendono il testo degno di essere annoverato tra la vera poesia. E se quanto affermo potrebbe far storcere il naso a chi pensa diversamente, ricordo che se Bob Dylan, cantautore a sua volta, ha ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura qualche anno fa, un motivo ci sarà e sicuramente, certi brani, non sono solo canzonette.

Un testo di lacerante bellezza che più si ascolta e più si rivela, un testo più che mai profetico e attuale la cui crudezza fa riflettere sull’umanità intera, su chi sta al di qua e al di là della linea di confine che separa i poveri dai ricchi ma che, nello stesso tempo, li mischia e li confonde, perché non c’è ricchezza materiale che valga la grandezza del cuore e non c’è bellezza del cuore che si compra con tutto l’oro del mondo. Se questo Natale ci insegnasse che c’è molta più gioia nel regalare una foglia da masticare col pane o nel ricevere una busta di vino per passare la fame, avrebbe realizzato il suo vero scopo: insegnare l’amore all’umanità, senza “natali di seconda mano”

Lasciate che io possa nascere                                               

Lasciate che io consoli ogni dolore                                                                                                

lasciate che io liberi ogni oppresso                      

che ogni persona possa urlare la sua dignità                                       

che ogni bambino possa colorare il soffio del vento                                                                     

e ogni piazza si affolli                                                                                                            

cercami tra questa folla                                                                                                              

non abortitemi                                                                                                                     

lasciate che io possa nascere in questa notte

Oppure….

di Piero Murineddu

Quello che riporto su è il breve testo che l’autore del video mette a completamento della canzone di De Gregori.

Il suo nome è Tonino Urgesi, 58enne affetto dalla nascita da tetraparesi spastica ed esperto di “affettività e sessualità nella persona disabile”, su cui è stato chiamato a relazionare in vari convegni e seminari, come lui stesso dice nel seguente profilo autobiografico https://sites.google.com/prod/view/tonino-urgesi/chi-sono

Argomento, quello del diritto alla sessualità dei disabili o come si dice oggi “diversamente abili”, mai sufficientemente preso in considerazione come si dovrebbe.

Lasciate che io possa nascere in questa notte. Oltre il rifermento alla sua venuta al mondo (l’ecografia prenatale al tempo non credo si conoscesse, ma questo allargherebbe troppo il discorso), la frase conclusiva mi sembra opportuno allargarla alla condizione di chi, cercando altrove condizioni vivibili che la propria terra d’origine gli preclude, “mamma” Europa in tutti i modi non glielo vuole permettere, e senza farsi troppi scrupoli.

Significative le immagini delicate e drammatiche scelte per il montaggio, realizzato per il Natale del 2007 e che seguono passo passo le parole cantate da De Gregori.

Un bambino di spalle, in una situazione sicuramente di povertà se non addirittura di guerra, lo conclude. Difficile stabilire se oggi è diventato un giovane felice, come ogni individuo avrebbe diritto, oppure….

Pregiudizio

Parte prima (*)

di Antonio Galdo

Il pregiudizio sta vincendo il braccio di ferro con il suo contrario, il giudizio. Nel secondo, infatti, si esercita il senso critico, si guardano tutti gli angoli e gli spigoli di una cosa prima di provare a dare una valutazione, si respira profondamente e non si parla per slogan. Il pregiudizio, invece, si alimenta con la semplificazione, anche di cose per loro natura complesse, e con l’idea di fare battute a effetto, dando risposte più emotive che reali. Il giudizio, se pacato e convinto, avvicina. Il pregiudizio allontana, e dunque separa.

Già l’etimologia della parola ci aiuta a capire quanto sia labile il confine tra il pregiudizio e la realtà. E quindi tra la bugia e la verità. La parola deriva dal latino prae, che di fatto significa prima, e iudicium, ovvero giudizio. Insomma: il pregiudizio in qualche modo è una sorta di giudizio anticipato, costruito su basi non veritiere, e quindi come tale non attendibile. Ma è pur sempre a un passo dal suo contrario, quel giudizio che invece ha bisogno di riflessione, conoscenza e senso critico. Perfino Albert Einstein, di fronte al pregiudizio tendeva ad alzare le mani e diceva: «È più facile scindere un atomo che abolire un pregiudizio». Io penso invece che il pregiudizio si possa sconfiggere, e ci sono anche degli antidoti molto efficaci, come provo a dimostrare in questo articolo. A condizione però che innanzitutto siamo in grado di riconoscerlo.

Il pregiudizio è come un virus. Meno funzionano gli anticorpi e più si espande, fino ad assumere sembianze tali da renderlo endemico. D’altra parte, tutti, nessuno escluso, siamo soggetti a rischio, specie in un tempo contemporaneo scandito dalla fretta e\o dalla velocità e da quella assoluta mancanza di tempo e\o di voglia di approfondire, verificare, confrontare. Tutti antidoti del pregiudizio.

Il meccanismo di demolizione funziona bene quando i pregiudizi analizzati rasentano l’assurdo o il ridicolo. Tipo: Gli africani sono pigri, Le biblioteche sono luoghi noiosi, La donna è mobile, Gli uomini sotto tutti uguali, I clandestini sono tutti delinquenti. Diverso, invece, il discorso che tocca pregiudizi altrettanto radicati ma che in questo libro vengono smontati con argomenti troppo liquidatori, contrapponendo, ovviamente in modo involontario ma con un effetto paradosso, un pregiudizio a un altro pregiudizio. Faccio due esempi. Un capitolo è dedicato a provare, con argomentazioni forti, quanto sia infondata l’idea, pure condivisa da tanti, di un Nord che ha colonizzato il Sud. Dalla nascita dello Stato unitario. Inutile dire che stiamo parlando di un tema complesso, e come tale difficile da sintetizzare in poche pagine, ma nel libro si mettono in fila alcune considerazioni che dovrebbero, da sole, smontare il pregiudizio. Il sistema agricolo del Nord era più evoluto, l’alfabetizzazione era più alta, le infrastrutture erano migliori, il credito più accessibile. E allora? Bastano questi punti di osservazione, tra i quali ne manca uno che non è proprio un dettaglio (l’alto livello di industrializzazione di alcune zone del Sud) per negare che il Mezzogiorno abbia subito una forma di colonizzazione, e quindi di separazione, della quale, poi, non si è mai più liberato?

Il secondo esempio riguarda l’idea, qui bollata come un pregiudizio-luogo comune, che Leggere i libri rende migliori. L’autore del capitolo nega la possibilità che il libro possa, in qualche modo, modificarci, in un senso o nell’altro. Considera la lettura quasi un fatto neutrale nella nostra formazione (questa idea non rischia di essere un pregiudizio?). E senza scivolare nella retorica del piacere della lettura, del libro che «rende liberi», forse è il caso di ricordare la quantità di ricerche scientifiche che dimostrano miglioramenti concreti, molto concreti, nell’uomo grazie ai libri. Leggere fa bene al cervello, potenzia i neuroni, migliora la memoria, incentiva le relazioni umane, può incidere perfino sulla felicità. Non si tratta di cose tali da poter dire, senza scivolare nel luogo comune, che Leggere libri rende migliori?

COME SUPERARE I PREGIUDIZI

Da qui, tornando alla genesi del pregiudizio, vale la pena riflettere sulle cause, sulla genesi del pregiudizio, sui motivi per i quali siamo così circondati, quasi assediati, da un dibattito pubblico e da mini-conversazioni private infarciti di luoghi comuni. Senza neanche renderci conto di come questo meccanismo alimenti effetti collaterali, tipici di un virus: le generalizzazioni, la superficialità abbinata alle semplificazioni, l’assenza di senso critico. Non solo. Il pregiudizio, impacchettato nel luogo comune, esclude il dubbio, considerato un segnale di debolezza: e invece si tratta di una leva essenziale per essere forti, solidi, efficaci e convincenti di fronte alla complessità che ci accompagna come una protesi del corpo.

COME LIBERARSI DEI PREGIUDIZI

C’è però un elemento che può modellare il pregiudizio fino a farlo diventare qualcosa che ci consente altre, preziose scoperte. Lo aveva capito bene Anton Cechov quando scriveva: «I pregiudizi, come tutte le brutture della vita, sono utili, perché con il tempo si trasformano in qualcosa di utile, come il letame in humus». In pratica: dal pregiudizio può nascere una discussione, un’analisi, che porta a dubbi e quindi a giudizi più che a nuovi pregiudizi. Con il tempo, dice Cechov. Peccato che noi purtroppo ne abbiamo davvero poco, e spesso lo utilizziamo male o lo sprechiamo: anche per questo, come dei naufraghi in un mare in tempesta, ci appoggiamo, anima e corpo, alla zattera del pregiudizio-luogo comune.

RIMEDI NATURALI CONTRO
IL PREGIUDIZIO

Ci sono alcuni rimedi naturali, molto semplici, per tenere lontano il rischio del pregiudizio. Si tratta di piccoli comportamenti, talvolta banali, ma molto efficaci specie quando diventano abitudini, stili di vita. Per esempio: il perciolo del pregiudizio si azzera quando si ha la capacità di mettere in discussione innanzitutto la propria opinione e se stessi, dandosi uno sguardo autocritico e non autoreferenziale. Così come il pregiudizio si smonta da solo, quasi non riesce a comparire, quando la mente e il cuore si aprono, non fuggono dai contatti, non si spaventano della diversità con gli altri. Anche in amore si varca spesso la linea di confine tra il giudizio e il pregiudizio. Non ti amo più, è il giudizio che diventa una presa d’atto della realtà. Siamo troppo diversi, è una forma sottile, un tantino eduolcorata, di pregiudizio. Nel tentativo di non scivolare nella palude del pregiudizio, esercitando continuamente il dubbio, scoprirete una particolare creatività e anche un desiderio di abbandonarvi all’incontro, a non restare chiusi nella solitudine. A vivere respirando l’ossigeno che arriva dalla relazione con gli altri.

(*) L’ articolo, tratto dal sito “nonsprecare.it”, nasce dalla lettura del volume “Il Pregiudizio universale”, edizioni Laterza, a cura di Giuseppe Antonelli

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Parte seconda

di Antonio Meleleo

In tempi di Coronavirus diventa molto attuale osservare quali trappole mentali caratterizzano la comunicazione delle persone e minacciano le loro decisioni. Il pregiudizio è una di quelle più diffuse.

Sento e osservo le persone comunicare basandosi su opinioni sommarie non formate con dovizia di particolari. L’Italia in questi tempi è vittima non solo del virus ma anche dei difetti tipici del funzionamento cerebrale, e ciò rende la situazione ancora più difficile. In momenti come questi in cui bisognerebbe essere il più razionali possibile, le emozioni e gli istinti non gestiti a dovere – l’intelligenza emotiva in Italia è ai minimi termini – prendono il sopravvento a fanno commettere atti incomprensibili.

La storia, si sa, non insegna. Ci vantiamo del nostro sviluppo e dell’essere diversi dalle bestie, ma forse dovremmo rivalutare la maggiore onestà del mondo animale. Lì il pregiudizio non alloggia, non c’è posto per giudicare senza le prove; non si perde tempo pensando di risparmiare tempo (il pregiudizio abbrevia il processo decisionale, ma alla fine dà la risposta sbagliata e bisogna ripartire da capo). Le bestie sono schiette, gli umani un po’ meno.

Sospendere il giudizio. Questa è una delle regole più importanti anche per vivere una vita più felice. Cioè, nella vita di tutti i giorni prova a non giudicare troppo in fretta perchè se si pensa di aver capito tutto è perchè manca qualche informazione.

Se desideri stare meglio tu ed essere più persuasivo, applica l’epochè greco: cioè la sospensione del giudizio. Sii cauto nel giudicare i comportamenti, le situazioni e soprattutto le persone. Prima di giudicare osserva attentamente.

La sospensione del giudizio fa sentire l’altro accolto, o come si direbbe con un termine di moda oggi, incluso. Sentirsi accettati per ciò che si è anziché rifiutati per ciò che non si è, è uno dei trucchi principali per essere più convincenti e persuasivi.

Non confondere il pregiudizio con la prima impressione. Non è un processo facile quello che porta all’applicazione quasi automatica dell’epochè, perché ci sembra innaturale e invece è solo questione di abitudine.

Per istinto il nostro cervello valuta le situazioni e le persone. Lo fa velocemente soprattutto per capire se per noi sono una minaccia oppure no, ma proprio qui nasce il problema. Spesso confondiamo il pregiudizio con la prima impressione. La prima impressione è quella sensazione istintiva elaborata dal cervello rettile nel giro di qualche frazione di secondo. Il pregiudizio invece è un’elemento di disturbo che mina la portata informativa della percezione che i nostri sistemi antichi, rettile e libico, ci stanno restituendo alla velocità di 720 km all’ora. Il pregiudizio è un po’ più lento della prima impressione ma infinitamente più veloce del giudizio. Si genera sulla base di scorciatoie decisionali fuorvianti e il suo limite principale è che viene espresso in base a ciò che è contenuto nella nostra scatola cranica: e se nella nostra testa c’è aria fritta anche il giudizio sarà aria fritta! Per questo dico che se pregiudichiamo o se giudichiamo troppo in fretta diveniamo schiavi.

Il pregiudizio ti rende schiavo della tua mente. Si, schiavo del tuo sistema di conoscenze, di esperienze, di credenze, di stereotipi, di luoghi comuni e più in generale del nostro modo di processare le informazioni e di generare le decisioni che ci portano all’azione. Nel momento in cui si arriva a formulare un opinione è più rassicurante averlo fatto dopo aver verificato se non siamo caduti in qualche trappola.

Pregiudicare i comportamenti altrui che non si condividono può essere fonte di sofferenza. Se ti vuoi sentire meglio, un “trucco” egoistico è quello di usare l’emozione del perdono come antidoto. Il perdono è un’emozione antagonista degli stati di insofferenza, frustrazione, vergogna e perfino del dolore che deriva ad esemopio da un lutto o da una separazione. (…)

Il perdono poi, quando è agito preventivamente, si può chiamare anche accettazione incondizionata: accettazione ad esempio che gli altri si comportino in modo diverso da noi e che siano diversi da noi.

Se appaiono diversi da te, se hanno fatto scelte che non condividi o se si sono comportati in modo per te incomprensibile – e, beninteso, non hanno violato i tuoi diritti o ti hanno messo in pericolo – accoglili nella loro diversità.

Il pregiudizio può essere molto pericoloso e traumatico. La storia ci insegna che il pregiudizio, la superstizione, le false credenze e altri meccanismi errati usati per prendere delle decisioni hanno generato assassini impuniti e vittime sacrificali.

Ma anche senza scomodare la morte, probabilmente ognuno di noi è stato vittima del pregiudizio, in entrambi i sensi: sia perchè è stato scorrettamente pregiudicato, sia perchè ha scorrettamente pregiudicato.

Pertanto alleniamoci ad evitare questi pericoli e magari anche ad accogliere le differenze; Se poi si riuscisse addirittura ad esaltare il valore di ciò che è differente da ognuno di noi, se si apprezzasse la ricchezza delle sfumature che il mondo ci offre, ciò potrebbe addirittura creare nuove opere d’arte.

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