Di quello che nel tempo hanno subìto gli africani conosciamo forse una minima parte

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di Piero Murineddu

Namibia, Stato  sudoccidentale africano bagnato dall’ oceano Atlantico. Sappiamo qualcosa di coloro che ci vivono e di come ci vivono, della loro storia e, sopratutto, cosa hanno dovuto subire dai civilissimi europei, in questo caso la Germania, che a quanto genocidi, sembra proprio che se ne intenda parecchio? Senza offesa alle giovani generazioni, intendo quelli che hanno contribuito ad infondere nella testa dei tedeschi che loro, per volontà divina o di chissà chi e che cosa, erano  superiori al resto dell’umanità. In questo caso non parliamo di quello che hanno combinato nella seconda guerra mondiale da loro scatenata per la loro mania espansionistica e per il credersi la razza eletta del mondaccio.

In questo articolo di qualche tempo fa pubblicato su Il Venerdì di Repubblica si racconta dei primissimo novecento. Fatti che son stati una vera e propria preparazione a quello che una quatantina d’ anni dopo avrebbero combinato nei lager agli ebrei, agli zingari, agli omosessuali e a qualsiasi gruppo che la crudele visione dei capi di allora aveva deciso di eliminare dal nostro pianeta, oggi messo male ancor più di sempre.

Namibia, territorio prevalentemente desertico e scarsamente popolato ma che la tendenza arraffona del vecchio continente, in particolare Germania ed Inghilterra, aveva tuttavia trovato il modo di spolparlo il più possibile senza farsi scrupolo di eliminare nel sangue qualsiasi opposizione, com’ é di fatto accaduto.

A questo proposito, mi viene da pensare che se tutti i popoli africani pretendessero di essere ripagati per tutto ciò che hanno subìto e per tutto ciò di cui son stati depredati, noialtri dovremmo almeno accoglierli nei nostri civili Paesi nel modo migliore possibile. Invece quelli che arrivano, molti dei quali nei modi drammatici che sappiamo, non solo pretendiamo che se ne stiano buoni buoni a debita distanza dal nostro perbenismo spesso ipocrita e si adattino il prima possibile alla nostra “civiltà” spesso solo di facciata, ma quelli che vediamo per strada e che magari non sono ben “educati” come lo saremmo noi, zozzoni e marci dentro, vorremmo che sparissero dalla nostra delicata presenza.

Nell’ articolo si legge di stupri e campi di concentramento. In questa porzione di terra africana la Germania organizzò il primo genocidio del XX secolo, anticipando i metodi nazisti che certi cervelli marci da lì a poco avrebbero messo a punto.

Oltre che rabbrividire, ho provato sopratutto una profonda indignazione per il livello di perversione che l’essere umano é capace di raggiungere. Se a qualcuno viene da piangere, non si trattenga. Magari le lacrime possono ancora aiutarci a cambiare finalmente atteggiamento verso questa povera gente che scappa da situazioni di vita disumane.

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Namibia.Quando i tedeschi fecero le prove della Shoah

di Tonia Mastrobuoni

Gli occhi chiari si intuiscono anche nella foto in bianco e nero. Israel fatica a rimanere serio davanti a quel ricordo sbiadito di suo padre che ha appeso in soggiorno, vicino a immagini della sua infanzia in Namibia e di donne Herero in costumi tradizionali. Nel ritratto si vede un africano bellissimo, dallo sguardo fiero. Ma sotto il naso spiccano un paio di baffetti da Hitler. Israel si stringe nelle spalle, sorride imbarazzato: «Non so perché li portasse così, i miei figli mi hanno sempre chiesto di coprirli».

Israel Kaunatijke ci accoglie nel suo coloratissimo appartamento profumato di spezie, nel cuore di Berlino. È un discendente degli Herero namibiani: insieme ai Nama furono il primo popolo sterminato dai tedeschi, oltre un decennio prima del massacro degli armeni nell’Impero ottomano. Il primo genocidio del Ventesimo secolo, dunque, non fu organizzato dai turchi, ma dai generali di Guglielmo II. Nella più importante colonia tedesca in Africa due minoranze ribelli furono sterminate con acribìa e sistematicità teutonica. Solo che la Germania fatica a ammetterlo.

Due anni fa ha votato persino una risoluzione in Parlamento per riconoscere il genocidio degli armeni del 1915. Rimuove però il proprio, triste primato dello sterminio in Namibia del 1904. Israel proviene da un popolo quasi cancellato dalla faccia della terra: in quattro anni gli Herero furono decimati da circa 90 mila a poco più di 15 mila. Sa di avere sangue tedesco nelle vene, sangue dei colonizzatori. Stuprarono migliaia di donne della sua etnia – «compresa, forse, mia nonna». Vive a Berlino da oltre quarant’anni e si considera «l’unico Herero della Germania». Ma la diaspora del suo popolo dura fino ai nostri tempi.

Negli anni 60, quando lasciò il suo Paese, Israel si buttò a capofitto nelle battaglie contro l’apartheid, e scoprì solo tardi la tragedia del suo Paese. Ma da allora l’attivista oggi ottantenne è instancabile. Lotta perché al suo popolo «venga riconosciuta un’indennità e una parte delle terre rubate dai tedeschi: ci vivono ancora i loro discendenti!». Gli occhi azzurri di suo padre sono quelli dei bianchi del neonato Regno tedesco, che applicarono al suo popolo una strategia dello sterminio studiata a tavolino e perfezionata in una famosa battaglia, quella di Waterberg. Ormai, dopo anni di ricerche, Israel ha scoperto che suo nonno si chiamava Otto Mueller ed è ancora sepolto nelle terre strappate ai suoi avi africani.

Israel sa che i teschi e gli scheletri degli Herero e dei Nama – che sta cercando in tutta la Germania da anni perché siano restituiti al suo Paese – furono portati un secolo fa nelle università e nei laboratori del Reich da medici che insegnarono anni dopo la loro “scienza” anche ad un certo Josef Mengele. I resti mortali di presunte “razze inferiori” dovevano dimostrare la superiorità di quella bianca. Erano gli anni del socialdarwinismo, delle deliranti teorie sullo spazio vitale, cui si aggiunse qualche anno più tardi l’ossessione per lo sterminio degli ebrei. Teorie che i medici e gli scienziati dell’epoca come Eugen Fischer cercarono di dimostrare raccogliendo prove in Africa.

Facendo spedire in Germania teste mozzate dei prigionieri Herero e Nama e scheletri di bambini detenuti negli atroci campi di concentramento come quello di Shark Island. Aberrazioni delle pseudoscienze di allora, escrescenze maligne del positivismo di fine Ottocento. Israel sa anche che le crudeltà inflitte ai suoi avi scaturivano dai bisogni predatori di una Germania appena unificata, giovane, affamata di terre lontane, ricchezze e materie prime. Sa che nel suo Paese natale si tendono ancora a nascondere i primi campi di concentramento della Storia e le fosse comuni. E quei baffetti sulla foto del padre devono sembrargli una beffa del destino.

Gli storici sostengono – inascoltati – che tra il massacro in Namibia degli Herero e dei Nama e quello degli ebrei nel Terzo Reich ci sia un filo diretto, che il genocidio in Namibia possa essere considerato l’anticamera dell’Olocausto. Tanti soldati che combatterono in Africa andarono poi a formare le milizie dei Freikorps, la teppaglia antisemita e anticomunista degli albori del nazismo. Tanti scienziati furono i professori dei macellai dell’eutanasia, del genocidio degli ebrei e della selezione della razza del Terzo Reich. L’”igiene razziale”, il divieto di mescolarsi con gli africani, fu imposta anche in Namibia. Eppure, la riluttanza a riconoscere questa continuità è gigantesca.

Nonostante l’autorevolezza di chi ha sempre sostenuto questa tesi, che si è irrobustita nei decenni fino a diventare una certezza per lo storico Jürgen Zimmerer. «Non possiamo più considerare i dodici anni del nazismo una parentesi tragica: c’è un prologo» spiega il professore dell’Università di Amburgo, specialista del colonialismo. «La differenza della Namibia con gli altri colonialismi è anzitutto il genocidio come guerra dello Stato, e non come espressione di violenza privata. Lo sterminio di Herero e Nama non è un effetto collaterale: è l’obiettivo, è una pulizia etnica sistematica e centralizzata».

Del resto, ad individuare nel colonialismo le radici della violenza collettiva esercitata sugli ebrei fu Hannah Arendt, già nel 1951. Ma il dibattito pubblico stenta a decollare persino un secolo dopo. Le scuse alla Namibia arrivate finora dalla Germania sono debolucce: un sottosegretario nel 2004 e un portavoce del ministero degli Esteri nel 2015. E di risarcimenti neanche a parlarne. Per Israel lo scandalo è che si sia finalmente istituito un negoziato tra Germania e Namibia, ma che gli Herero e i Nama non siedano al tavolo: «Trattano del genocidio contro di noi senza di noi, non è assurdo?».

Nel 1950 il grande scrittore della Martinica, Aimé Césaire, scrisse che ciò che rendeva inaudito l’Olocausto «è l’umiliazione dell’essere umano bianco, il fatto che Hitler abbia applicato all’Europa metodi colonialisti che sino ad allora erano stati riservati esclusivamente agli arabi d’Algeria, agli indiani, ai neri africani». Ma se la Germania non riesce a fare i conti con la Namibia, secondo Zimmerer, «è anche perché significherebbe aggiungere un altro capitolo e un altro genocidio alla nostra già pesante storia, mentre molti preferiscono coltivare l’idea che abbiamo giocato un ruolo marginale, nel colonialismo». D’altro lato, aggiunge, «si rischierebbe di scatenare una reazione a catena di richieste di riparazioni e risarcimenti, che potrebbe travolgere anche altri Paesi ex colonialisti».

All’inizio del secolo scorso, la Namibia, detta “Africa Sudoccidentale”, sembra una colonia come le altre. La sua è una storia ordinaria e squallida di espropri, violenze, stupri. Ma il governatore Theodor Leutwein, tutto sommato, crede più nella diplomazia che nel terrore. Anche lui ha istituito, come tante potenze, un protettorato basato su razza e schiavitù, ma è convinto che i namibiani siano una forza lavoro indispensabile. Le cose cambiano drammaticamente con le prime rivolte degli Herero e dei Nama, nel 1904. Berlino si spazientisce e manda giù il suo sterminatore, una sorta di antenato di Göring e Heydrich, il famigerato Lothar von Trotha.

Il generale sassone si è già distinto per straordinaria spietatezza in Cina e in altre colonie africane. Quando arriva in Namibia non ha un’idea chiara su come battere i rivoltosi, ma è lucido sull’obiettivo: condurre «una guerra di razza», costringendo gli africani a «ritirarsi attraverso il terrore e la crudeltà»: le insurrezioni «devono essere represse in un bagno di sangue». Quando il governatore Leutwein cerca di dissuaderlo, ricordandogli che l’Impero ha bisogno dei lavoratori africani, Von Trotha taglia corto: fate lavorare i bianchi. È lì il germe dello sterminio: l’idea che le popolazioni autoctone siano superflue. Cui si aggiunge, osserva Zimmerer, «l’ambizione di germanizzare il Paese», spazzare via la cultura africana per innestarvi la propria. È questa la definizione classica di “genocidio”, ricorda lo storico.

La prova generale dello sterminio è la battaglia di Waterberg, 11 agosto 1904. I tedeschi sconfiggono gli Herero, ma non si accontentano della vittoria militare. Cominciano a spingerli verso il micidiale deserto di Omaheke. Per farli morire di fame e sete. Un rapporto militare dell’epoca narra di «uomini, donne, bambini malati, apatici, stremati dalla stanchezza, che aspettavano immobili e morti di sete il loro destino sdraiati nei cespugli». I soldati che li trovano così, li ammazzano. Contemporaneamente, vengono istituiti i campi di concentramento e forse il primo campo di sterminio, Shark Island, dove muoiono soprattutto i Nama. In autunno arriva anche l’ordine che formalizza il genocidio. Von Trotha lo emana il 2 ottobre del 1904. È passato alla storia come “ordine del genocidio” o “ordine dell’annientamento”. Il generale impone di sparare a vista a qualsiasi Herero: «Devono lasciare il Paese» oppure «li fucileremo».

Nel frattempo, quelli reclusi nei campi di concentramento sono costretti a lavorare per le aziende tedesche in condizioni atroci. A Shark Island, dove sono rinchiusi circa duemila Nama, l’intento di farli morire di stenti è espresso a chiare lettere nell’ordine di un comandante, Berthold von Deimling: «Nessun Nama lascerà vivo Shark Island». Lo scopo non è farli lavorare: è sterminarli. Le foto dell’epoca mostrano uomini, donne e bambini scheletrici, buttati a terra come stracci. I morti vengono portati via a mucchi, nelle carrette spinte a mano. Ai malati di dissenteria o scorbuto che non riescono a mangiare viene detto «uccellino mangia o muori». È anche la mancanza di qualsiasi forma di empatia da parte dei tedeschi, la sistematica “disumanizzazione” degli africani, considerati meno di bestie, che colpisce, nei crudi resoconti dell’epoca. Un altro indizio che porta dritto dritto ad Auschwitz.

Di quello che nel tempo hanno subìto gli africani conosciamo forse una minima parteultima modifica: 2022-06-08T06:31:51+02:00da piero-murineddu
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