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Il dolce canto di Maria Nicoletta

luigi e nicoletta

 

di Giovanna Stella

Un particolare canto mi accompagna fin dagli anni adolescenziali, quando a Sennori, all’interno di un gruppo ecclesiale, si cercava di trovare valori forti coi quali giocare la nostra vita. Un canto musicalmente semplice. La voce dell’autrice, Adriana Mascagni, la ricordo non particolarmente graziata, eppure il cantare insieme quelle parole piene di significato dava anche alla melodia una  particolare bellezza:

Povera voce di un uomo che non c’è
la nostra voce se non ha più un perché:
deve gridare, deve implorare
che il respiro della vita non abbia fine.

Poi deve cantare perché la vita c’è,
tutta la vita chiede l’eternità;
non può morire, non può finire
la nostra voce che la vita chiede all’ Amor.

Non è povera voce di un uomo che non c’è,
la nostra voce canta con un perché.

 

Cara Nicoletta, io credo che la tua vita questo “perchè”  l’abbia sempre avuto, e sicuramente, ora che hai varcato il Grande Confine, gioisci già della sua conferma. Da sempre ti preparavi ad intraprendere il Mistero, definito “Casa del Padre” nel manifesto che ha annunciato il tuo Passaggio.

Ti ho sempre conosciuta tenacemente abitata dalla presenza rassicurante del Cristo. Lo cercavi e lo trovavi nelle frenetiche attività a cui ti dedicavi. Gli indifesi, coloro che si pongono o che vengono forzatamente relegati negli ultimi e spesso nascosti posti, erano quelli che attiravano la tua compagnia consolatrice. La tua vita è stata un continuo offrirti agli altri, mettendo le tue sofferenze in secondo piano.

La tua attività d’insegnante l’hai vissuta sempre con passione. Delicata e fantasiosa coi tanti bambini che hai incontrato e che hai amato. Non ti bastavano le tue innumerevoli parole ed esempi concreti per cantare la vita e le lodi al Signore.  Ti piaceva cantare e scherzare, ma a volte dai tuoi occhi trapelava l’inevitabile fatica di vivere. In particolari momenti mi confidavi quella solitudine che solo chi trova vera accoglienza e ascolto riesce  a condividere. Non esitavi nell’asciugare il tuo bel viso solcato da calde e liberatorie lacrime. Con infinita fiducia ti riaffidavi alle Mani Paterne e Materne di Dio.

Ti ho vista fragile come tutte le mamme che sopravvivono alla morte prematura di un figlio. Il doloroso distacco  l’hai serbato gelosamente nel tuo intimo, con la fiduciosa certezza di ritrovarlo. E’ finalmente arrivato il giorno per gioire della Sua Tenera Pace, con Carlo e con tutti i tuoi cari. Con amore libero e completo, continuerai a sostenere  Stefania, Fabrizio,Luigi e tutte le persone che hai momentaneamente lasciato.

Grazie per l’esempio che ci hai lasciato,  carissima Nicoletta.

La difesa nonviolenta non è una pia utopia

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tratto da serenoregis.org

 

La ricerca per la pace e la promozione della Difesa Popolare Nonviolenta costituiscono l’elemento più caratterizzante delle attività istituzionali del Centro Studi, in una prospettiva di continuità e sviluppo dell’opera pionieristica del suo fondatore, Domenico Sereno Regis, in favore dell’obiezione di coscienza e contro l’installazione di missili sul territorio nazionale.

L’idea di pace che vi soggiace prevede non solo l’assenza di guerre e/o di conflitti armati, ma anche la giustizia sociale (poiché non vi è pace senza giustizia), il rispetto per l’ambiente e le generazioni future, l’attenzione e l’ascolto dell’altro – dal livello intrapersonale (gli aspetti difficilmente accettabili di sé), a quello interpersonale, sociale e macrosociale (le culture diverse).

Il raggiungimento di questi propositi potrà certo avvenire solo nel lungo periodo e richiederà, per essere effettivo, sia una grande partecipazione politica (il “potere di tutti” di cui parlava il fondatore del Movimento Nonviolento, Aldo Capitini), sia un modo di procedere reversibile in caso di errore, il che – necessariamente – esclude l’uso della violenza. Più in particolare, il conflitto viene considerato come un aspetto ineludibile della vita, e viene stimolata la ricerca di una sua trasformazione creativa, nella quale tutte le parti interessate siano coinvolte nell’elaborazione di soluzioni da cui ciascuna tragga vantaggi tali da escludere un’escalation della violenza. Quest’ultima può essere tanto diretta, quanto strutturale, culturale e/o psicologica, e nei suoi singoli aspetti o nella loro combinazione va a colpire i bisogni umani fondamentali, tra cui la stessa possibilità di sopravvivenza di milioni di persone ogni anno.

L’estrema complessità, globalità e urgenza di questi problemi rende indispensabile un’accurata impostazione della ricerca teoretica, della raccolta della documentazione, della divulgazione e della progettazione degli interventi diretti sul territorio. Sin dalla sua fondazione, il Centro Studi ha provveduto a sviluppare una fitta rete di contatti con enti nazionali ed internazionali operanti nel settore, quali l’International Peace Research Association, l’Italian Peace Research Institute (di cui gestisce la segreteria e cura la redazione della Newsletter), il Mouvement pour une Action Nonviolente (MAN), la Transnational Foundation for Peace and Future Research (TFF), il Movimento Nonviolento (MN), il Movimento Internazionale per la Riconciliazione, il coordinamento internazionale Nonviolent Peace Force, numerosi musei per la pace, la rete internazionale di peace-researchers TRANSCEND ed ha preso parte alla fondazione del Centro Interateneo di Studi per la Pace. Grazie a queste collaborazioni è stato possibile realizzare numerosi seminari e conferenze – rivolti ora ad un pubblico specialistico, ora ad un pubblico più vasto – tra cui si segnalano l’Osservatorio Internazionale su violenza e nonviolenza (con cadenza annuale), i cicli di incontri Come valutare le riforme costituzionali: potere, giustizia e nonviolenza e Politica e violenza, nonviolenza e politica (1997), Lotte nonviolente nel Kossovo, con mostra fotografica, e Conflitto, violenza e nonviolenza: il contributo della psicologia, della psicoanalisi e della psichiatria (1998), Attività delle Peace Brigades International, Il diritto e la guerra, Aspetti strutturali del rapporto tra stato e guerra e il corso di aggiornamento per docenti Il Novecento: un secolo tra violenza e nonviolenza (1999), Trasformazione nonviolenta dei conflitti: l’approccio Maggiore/minore (2001), Dalla “risoluzione” alla trasformazione nonviolenta dei conflitti: il metodo TRANSCEND e Obiezione di coscienza in Israele (2002), Iraq: una guerra annunciata (2003). Quanto alla raccolta di documentazione, si è provveduto a mantener viva la memoria storica grazie al recupero di importanti fondi archivistici di privati e di movimenti pacifisti e nonviolenti attivi in Italia, mentre la Biblioteca, la videoteca e l’emeroteca del Centro Studi vengono continuamente aggiornate, tenendo anche conto, nella scelta dei testi, dell’attività seminariale e convegnistica che viene svolta anno per anno. In particolare i convegni internazionali si propongono non solo di favorire l’aggiornamento di studiosi/e sui più recenti risultati della ricerca per la pace, ma anche di sensibilizzare un più vasto pubblico e le autorità locali sul successo di azioni di intermediazione nonviolenta organizzate dal basso, al fine di dimostrare la perseguibilità – con budget decisamente inferiori a quelli attualmente destinati alle spese militari – di politiche di difesa difensiva e di operazioni di peace-keeping, peace-building e peace-making. Tra i maggiori convegni recentemente organizzati, si segnalano Difesa Popolare Nonviolenta e Protezione Civile (1998), Il conflitto è politica, non guerra (1999), La nonviolenza nella ricerca, nell’educazione e nell’azione: temi e ambiti della ricerca per la pace in Italia e nel mondo (2001), Globalizzazioni, terrorismi e guerre: le alternative della nonviolenza (2002), Forze nonviolente di pace (2003), nonché Epistemologia, Ecologia, Estetica: il contributo di Gregory Bateson alla ricerca per la pace e all’educazione.

Angelino, l’irrimovibile impoltronato quasi invisibile

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di Massimo Gramellini

Nel volgere di poche ore, l’opposizione ha chiesto le dimissioni di Alfano due volte e per motivi opposti. Prima perché avrebbe lasciato entrare in Italia un giovane marocchino senza accorgersi che era un terrorista dell’Isis. E poi perché lo avrebbe messo in galera nonostante fosse improbabile che si trattasse di un terrorista dell’Isis. Alfano ovviamente non ha fatto una piega. Ci è abituato. Da anni non passa giorno senza che qualcuno non chieda le sue dimissioni. Anch’io, nel mio piccolo, le ho reclamate in un paio di occasioni: la vicenda Shalabayeva e il divieto ai prefetti di trascrivere i matrimoni gay. Ma tutti ricorderete la faccia abbastanza spaventosa di Salvini mentre intima la cacciata del ministro dopo i disordini del primo maggio all’Expo, la devastazione di piazza di Spagna da parte dei tifosi olandesi, i ritardi nei soccorsi agli alluvionati di Genova e qualsiasi altra calamità naturale o umana abbia attraversato questo martoriato Paese.

Come il Malaussène della saga di Pennac, Alfano sembra disegnato apposta per il ruolo di capro espiatorio. Un capretto, più che altro. Poco ingombrante ma inamovibile, anche se sempre in discussione. Di Renzi le opposizioni (e parte della maggioranza) dicono le peggio cose, eppure nessuno si sogna di chiederne le dimissioni. E’ lui semmai che ogni tanto le minaccia, ovviamente per finta. Alfano invece non finge: è sinceramente attaccato a una poltrona che occupa però con impalpabile discrezione. Al punto che, il giorno in cui si dimettesse davvero, nessuno se ne accorgerebbe e tutti continueremmo a chiedere le sue dimissioni.

ANDEDDI A FAVV’AMMAZZA’, ovvero Pietosa Arroganza Clericale

Invito a scorrere con attenzione questa conversazione telefonica. Per renderla leggibile, cliccarci sopra.

 

mani

 

         

        ANDEDDI A FAVV’AMMAZZA’

 

di Piero Murineddu

 

Prima di arrivare a Cagliari, Giuseppe Mani è stato capo di tutti i cappellani militari, con diritto ai gradi di Generale. Per nove anni ha retto la Chiesa del capoluogo sardo, e in seguito è stato anche presidente della Conferenza Episcopale dell’isola.  Evidentemente, questo vecchio vescovo ormai in pensione, è un tipetto poco diplomatico e molto diretto. Diciamo al limite dell’istintivo. Se dessimo retta alla fondatezza degli influssi zodiacali, essendo il Nostro venuto alla luce il 21 giugno, ha fatto appena in tempo a superare l’irrequietezza dei Gemelli per abbracciare l’irascibilità del Cancro, ma lo scetticismo verso queste influenze delle stelle nella vita individuale è ammissibile. Ma poi, se si vuole assolutamente leggere l’oroscopo prima di mettere il naso fuori casa, chi se ne impipa:ognuno è libero di agire come meglio gli aggrada, di vivere secondo raziocinio o di consultare gli astri.

Tra gli episodi che hanno caratterizzato la  permanenza  dell’Illustrissimo Reverendo in Sardegna, precisamente nel 2007, dopo aver disposto il trasferimento del parroco di Sant’Eulalia di allora, in un incontro coi parrocchiani contrariati della decisione, affermò piccato: “Non vorrei che pensaste che voi amate la Chiesa e il Vescovo la odia, che voi siete intelligenti e io un cretino che fa le scelte. Levatevelo di testa, questo nella Chiesa non vige; questa non è Chiesa, questa è baracca!” Le cronache raccontano che andò via accompagnato dai fischi.  Un uomo abituato a dare ordini dunque, e gli ordini, perdinci, guai a discuterli, e non solo in ambito militare. E’ possibile che il caratterinonientemale  abbia sempre accompagnato l’  “uomo di Dio”, e si sa, con l’avanzare dell’età certi aspetti della persona si accentuano. Dunque, interpellato per telefono dal giovane giornalista impertinente, il vecchio prete ha perso la (poca) pazienza e ha mandato lui, i colleghi e il proprietario del giornale a “morì ammazzati” (nel posto dove vivo io si dice più modestamente a fass’ammazzà), non facendo mancare l’invito finale d’ordinanza di lodare Gesù Cristo. E va bè,che sarà mai…..di persone sanguigne e facilmente infiammabili il mondo è strapieno, e anche le gerarchie ecclesiastiche non sono esenti.  Il fatto è che la reazione è stata causata da lecitissime domande poste dall’intimorito giornalista (timore dal trovarsi ad interloquire con un monsignorone, tra l’altro addirittura  Generale), il quale non ha avuto neanche il tempo di rispondere il “Sempre sia lodato” finale d’ordinanza. Ognuno dia al fatto il giudizio che crede.

Voglio piuttosto soffermarmi sul seguito del poco gentile augurio:”Non voglio vedere il mio nome sul giornale, altrimenti do ordine ad un gruppo di gente di non comprare l’Unione per una settimana”. Oh caspiterina, proprio un vero Generale! Sembra che anche quando era a Cagliari abbia attuato questa – come chiamarla – minaccia, ritorsione, vendetta o, più poeticamente, boicottaggio. Nel caso di quest’ultima possibilità, sarebbe una forma di lotta nonviolenta, ma – e di questo chiedo scusa –  non propendo a pensare che l’illustre Mani sia un seguace di Gandhi o di Luther King. Credo invece che la minaccia del vecchio prete sia frutto dell’antica arroganza clericale che ha portato molti ad allontanarsi – grazie a Dio- da una certa Chiesa, che per secoli ha abusato del potere non solo spirituale sulle anime per tenere sottomesse le persone e condizionarne le vite. Anche grazie all’azione dell’attuale Papa, il Messaggio originale evangelico sta’ ritornando faticosamente in primo piano, nonostante le molte resistenze all’interno della stessa Chiesa (gerarchie, preti e molti laici). Ho fiducia che questa vicenda del mica tanto reverendissimo Mani sia uno degli ultimi colpi di coda di un clericalismo da sempre combattuto dallo stesso Gesù Cristo. Ma comunque, Egli è venuto a salvare i peccatori e, a differenza di quella umana, la Giustizia divina  guarda nel profondo. Se lo si vuole, nessuno è esentato dall’intraprendere un cammino di conversione, anche i gerarchi della Chiesa. Pentimento e Ripararazione, quindi: il vecchio arcivescovo si tolga i pesanti gradi di Generale, riconosca il suo sbaglio, chieda scusa a chi ha offeso e collabori, per quanto può, a svelare  tutte le turpitudini che hanno scandalizzato i piccoli e i grandi. Così sia

Regina e Chris: la svolta della loro vita

catrambone

 di Emanuele Lauria

La “nave della solidarietà” ha incrociato davanti alla statua della Madonna della lettera intorno alle 13. E, di lì a poco, ha lasciato sulla banchina Marconi il suo carico di vite scampate alle onde: 405 migranti, prevalentemente eritrei, soccorsi il 14 maggio su un barcone di legno a 30 miglia dalle coste libiche, fra Tripoli e il confine ovest della Tunisia. Lo sbarco ha sancito numeri da record della missione filantropica di Regina e Christopher Catrambone, lei calabrese e lui statunitense di origine calabrese, che hanno messo su un’organizzazione denominata Moas (Migrant offshore aid station) con lo scopo di cercare e trarre in salvo gli extracomunitari in fuga verso l’Europa.
La Moas, che ha sede a Malta, è l’unica associazione privata che si occupa in modo strutturale del recupero dei naufraghi nel Mediterraneo. Ha ripreso l’attività da pochi giorni e dal 5 maggio, il giorno di un primo sbarco a Pozzallo, a ieri ha salvato oltre 1.400 persone., fra cui 211 donne e 106 bambini. Sono numeri che con orgoglio vanta Cristopher Catrambone, giunto a Messina a bordo della nave Phoenix. Negli occhi ancora il terrore dei migranti durante le operazioni di soccorso: «Il nostro equipaggio – racconta Catrambone sul profilo Twitter dell’organizzazione – non aveva mai visto nulla di simile. Questa gente veniva su dalla stiva della barca in un flusso infinito di umanità. Alcuni, fra i migranti, ci hanno raccontato storie terribili di persecuzione e fuga. Queste persone non hanno la libertà, non hanno nulla».
La Phoenix è una nave da 40 metri, con un personale di venti fra medici e soccorritori, dotata di una pista su cui decollano e atterrano due droni che supportano le ricerche in mare. È una sorta di ambulanza del Mediterraneo che, in raccordo con le autorità, coadiuva i mezzi “ufficiali”. L’idea, ai coniugi Catrambone, nacque nell’estate del 2013, durante una vacanza in barca nel Mediterraneo, alla vista di una giacca a pelo d’acqua al largo di Lampedusa. Da allora, 3mila salvataggi “privati” l’anno scorso, oltre 1.400 già quest’anno. L’ultimo approdo della missione ieri a Messina. Con la benedizione della Madonna della lettera.

regina

 

Leggiamo il racconto di Regina

Reggio Calabria, qualche anno addietro.
“È lì che conobbi Chris. Lui aveva deciso di ritrovare le sue radici, dopo essere stato costretto ad abbandonare New Orleans a causa dell’uragano Katrina. Venne a vivere a Reggio, vicino a casa mia, e non lontano dalla provincia di Catanzaro che il suo bisnonno aveva lasciato per l’America nel secolo scorso. Il problema dell’emigrazione, per noi meridionali, è sentito perché fa parte della nostra storia “.

Cosa vi ha spinto a occuparvi di quest’altro, più tragico, fenomeno migratorio?
“Nell’estate del 2013 eravamo in vacanza nel Mediterraneo. Lasciammo Lampedusa con una barca a motore presa in affitto, proprio alla vigilia della storica visita di papa Francesco. Sulla rotta verso Tunisi, la rotta delle stragi, vidi a pelo d’acqua una giacca beige, probabilmente appartenuta a qualche poveretto morto in mare. Quell’immagine cambiò tutto. Decidemmo di fare qualcosa, di dare un contributo per affrontare questa tragedia. Avevamo dei soldi da parte, invece di acquistare una casa decidemmo di comprare una nave. Una nave che finora ha salvato 4.400 persone. Una spesa ben ripagata”.

Quanto vi è costata sinora questa missione?
“Otto milioni di dollari l’anno scorso. Nel 2014 abbiamo finanziato l’operazione con le nostre risorse, non ci sembrava giusto chiedere un aiuto solo sulla base di un’idea. A ottobre, chiusa la prima campagna con un bilancio di 3 mila persone soccorse, abbiamo aperto una sottoscrizione. Che finora ha fruttato circa 100 mila euro, oltre ai 180 mila euro donati da un imprenditore tedesco. Ahimè, siamo lontani dal target prefissato per questa seconda parte dell’attività appena cominciata, che dovrebbe concludersi a ottobre (tre milioni circa, ndr). Temiamo di non farcela”.

C’è chi, sul web, commenta la vostra iniziativa chiedendovi polemicamente di ospitarli a casa, i naufraghi raccolti in mare.
“Cosa significa casa mia? Casa mia, come la casa di questa gente che fugge per necessità, è il mondo. Non c’è un’umanità di serie A e di serie B. Io non sapevo cosa fosse l’orrore prima di quest’esperienza. Ho visto persone stipate come sardine nella stanza dei motori, senza aria, in mezzo ai loro stessi bisogni. Le foto non volevamo neppure pubblicarle, se l’abbiamo fatto è anche per svegliare le coscienze”.

Qual è il vostro rapporto con le forze ufficiali in azione nel Mediterraneo?
“Non c’è alcuna carta scritta. Noi ci siamo proposti e, in raccordo con le autorità, interveniamo su richiesta per fornire una sorta di pronto soccorso: grazie agli operatori di Medici senza frontiere facciamo uno screening sanitario dei migranti salvati, diamo loro da mangiare, li vestiamo. Poi, teoricamente, dovremmo trasbordarli su altre navi. Ma in soli quindici giorni, quest’anno, ben tre volte li abbiamo portati direttamente noi nei porti siciliani”.

Sembra che grazie alle immagini fatte dai droni che voi usate per scopi socio-umanitari siano stati catturati alcuni scafisti.
“Questo non mi risulta, anzi mi sembra difficile. Abbiamo fornito agli investigatori foto fatte da lontano. Comunque: se è andata così, meglio”.

Non è sconfortante il fatto che dei ricchi benefattori debbano supplire all’azione dell’Europa?
“C’è molta enfasi attorno a una circostanza che non dovrebbe stupire: noi, da cittadini, aiutiamo lo Stato, gli Stati. A me, personalmente, fa più rabbia che l’Italia venga lasciata sola dagli altri Paesi a gestire l’emergenza, ad accogliere questi che possiamo chiamare rifugiati, prima che immigrati. Detto ciò, noi non siamo miliardari, ma filantropi, ovvero persone che hanno dei beni e li mettono a disposizione di altri. Potevamo investire in altri settori, l’abbiamo fatto nella solidarietà”.

In due settimane avete già sottratto alle onde la metà delle persone salvate l’anno scorso. Ci può essere sollievo, non gioia davanti alla dimensione del problema.
“La questione centrale sono le politiche sull’immigrazione: noi l’anno scorso abbiamo collaborato con Mare Nostrum. Operazione che si è chiusa ma non è stata rimpiazzata. E certo non si può sostituire con la nostra nave e con il nostro equipaggio di venti persone a bordo. Perché, sia chiaro, Triton è un’altra cosa, è un programma di controllo delle frontiere. E da solo non è sufficiente”.

Dietro ogni profugo c’è un mercante d’armi

di Jan Oberg

jan oberg

Gli stati membri dell’Unione Europea stanno cercando di apparire come se stessero facendo qualcosa di serio per occuparsi della povera gente colpita da catastrofe, in fuga dalle zone di guerra verso l’Europa nelle condizioni più rischiose e inumane. A parte la mancanza di umanesimo e compassione e la cinica intenzione di mantenere il fattore ”deterrenza”, altre caratteristiche circondano questi tragici eventi.

In vari resoconti mediatici e dichiarazioni politiche il termine ”profugo” viene sempre più sostituito da “migrante” – difficilmente una pura coincidenza dato che il numero di profughi, sfollati in ambito nazionale e richiedenti asilo ha superato i 50 milioni di confratelli umani a livello mondiale l’anno scorso.

 

Migranti e profughi

Un migrante, per l’ONU, è una persona impegnata nella ricerca di un’attività remunerativa in uno stato di cui non è cittadino/a (originario). Un profugo è una persona del tutto diversa che si trova fuori dal proprio paese [originario] per aver patito (o temuto) persecuzione indotta da razza, religione, nazionalità, od opinione politica; perché membro di una categoria sociale di persone perseguitata; o perché in fuga da una guerra. Un profugo ha il diritto di cercare asilo e non dovrà essere penalizzato per il proprio ingresso o soggiorno illegale.

 

In cerca di una vita migliore” ?

Vi si aggiunga il fraseggio ormai molto ripetuto ma fuorviante per cui questi profughi arrivano “in cerca di una vita migliore” in Europa – formulazione molto eurocentrica che fa il gioco di coloro che dicono che questa gente viene qui solo per rubarci il lavoro e approfittare dei nostri sistemi previdenziali – come se la loro vita fosse già buona ma la volessero migliore.

È semplicemente assurdo. Il punto è non verso che cosa fuggano ma da che cosa. I profughi stanno scappando da qualche versione d’inferno. Questi profughi su battelli se ne scappano verso un altro continente senza scarpe, denaro o averi perché la loro vita è insopportabile e non hanno proprio speranza. I profughi non sono cercatori di felicità.

Usare ”migranti” anziché ”profughi” distoglie la nostra attenzione da ciò cui essi sfuggono, dalla nostra stessa complicità in tutto ciò e riduce la nostra responsabilità nel proteggerli.

 

La guerra, l’elefante nella stanza che non dobbiamo vedere

Poiché per lo più questi profughi provengono da zone dove gli interventi militari occidentali e le esportazioni di armi hanno miseramente fallito il loro scopo dichiarato ufficialmente e causato solo più problemi.

No, c’è una spiegazione molto migliore: “Dietro ogni profugo c’è un mercante d’armi”. Qui cito liberamente il sostenitore di diritti umani e umanista svedese Peter Nobel, ex-capo della Croce Rossa svedese, allorché era presidente del Consiglio d’amministrazione di TFF (Transnational Foundation for Peace and Future Research). Non è da rendersi alla lettera – si fugge anche, per dire, da catastrofi naturali e malsviluppo causato dai modelli sfruttatori delle attività economiche occidentali.

Un’altra ragione è che qui si tratta di un caso classico in cui sarebbe appropriato un autentico intervento umanitario. Tuttavia, dal primo intervento “umanitario” in Jugoslavia, questo concetto è stato usato solo per legittimare operazioni militari. E i dirigenti UE riconoscono di non poter trattare il problema dei profughi sui barconi con gli F16.

Come per tanti altri problemi di questi anni, c’è un rifiuto psico-politico del fatto che il militarismo occidentale è la causa singola più importante dei problemi che abbiamo di fronte:

Odio e terrorismo contro l’Occidente (per esempio l’ISIS) è un problema causato in modo predominante dall’invasione, occupazione e (mal)amministrazione a guida USA dell’Iraq. I temi dell’ Iraq e del nucleare iraniano sono stati causati in primo luogo dall’esserci armi nucleari e pochi intenzionati a mantenerne il monopolio negando agli altri lo stesso privilegio.

La ragione singola più importante dietro la dissoluzione di vari stati – la Libia, per dirne uno – è il tentativo di risolvere problemi economici e democratici strutturali con mezzi militari. Inoltre, il lento ma sicuro indebolimento dell’Occidente, il relativo declino economico USA in particolare, è causato in gran parte dai costi delle sue guerre (fallite), delle sue basi militari estere e dalla complementare carenza di legittimità agli occhi di sempre più milioni di persone al mondo.

Non abbiamo ancora – ovunque – un decente dibattito pubblico sugli effetti negativi di virtualmente tutte le guerre.

 

Il denaro da solo non risolve i problemi

Ora, guardiamo quel che l’UE fa effettivamente: tiene un incontro – d’alto livello politico ma di basso livello intellettuale ed etico.

I suoi capi sostengono di assumere sia rapide iniziative sia responsabilità. In realtà, esibiscono una tipica disfunzione programmatica occidentale: per risolvere un problema, si stanziano altri soldi ma non si discute la diagnosi – le cause sottostanti al problema – o un cambiamento d’atteggiamento e di etica. Non esercitano autocritica, destrezza di governo ed esemplarità morale. Si sanano i sintomi senza possibilità di imparare qualche lezione ed evitare la successiva catastrofe causata dai soliti motivi di sempre.

 

Civiltà: e se invece …?

Immaginiamo che i dirigenti UE avessero invece dichiarato qualcosa del genere:

”Ci siamo resi conto che il numero di profughi è in aumento principalmente per il commercio d’armi e le guerre, e quindi investiremo nell’identificazione precoce dei conflitti e prevenzione della violenza, nella formazione di esperti in questi campi, nell’utilizzo di accorti mezzi civili fra cui il dialogo, la mediazione e i negoziati; e porremo sempre più embarghi agli armamenti invece di intensificare le forniture d’armi a queste e a future aree di conflitto.”

I capi della “comunità” internazionale” che tacciono in merito, fra l’altro, all’aggressione a guida arabo-saudita allo Yemen e non hanno mai formulato autocritiche di sorta a proposito di catastrofi “pacificatorie” denominate Iraq, Libia e Siria, opportunamente non congiungono mai i puntini: Le nostre guerre e l’affarismo armiero sono causa essenziale del rimbalzo di questi problemi a boomerang in forma di profughi, terrorismo e crisi economica.

L’umanità ha detto addio alla schiavitù, alla monarchia assoluta, al cannibalismo e, in via di principio, al lavoro infantile. Per risolvere, o almeno ridurre, il problema montante dei profughi, dovremmo cominciare a discutere come aumentare la civiltà umana criminalizzando il commercio di armi e abolendo la guerra – come dichiarato nel Preambolo alla Carta ONU.

Ma ci sono tabù su tali idee di buon senso in tutti i paesi che si considerano civili rispetto ai paesi moralmente fiacchi e incivili che essi distruggono, uno dopo l’altro.

27 aprile 2015

MUNTINAGGI PERPETUI

muntinaggiu di l'abaddoggiu

 

di Piero Murineddu

Li sussinchi più anzianotti non avranno difficoltà a riconoscere il luogo illustrato nella foto, una delle tante discariche che circondavano la Sorso di una volta. Sono passati tanti anni, eppure qualcosa non è cambiato da allora.Vedete quel cancello a sinistra? Ebbene, ancora oggi, se andate a guardarci dentro, le cose sono più o meno rimaste immutate, nel senso che lu muntinaggiu che vedete, oltre il muro è rimasto tale. Un Monumento Chiuso,simbolo della frequente incapacità delle persone di mettersi d’accordo. In questo caso, le parti contreaenti mancati sono gli eredi dell’antica fabbrica di conserve e qualche rappresentante dell’Amministrazione civica che in questi lunghi anni ha tentato (inutilmente) di acquisirne la proprietà per realizzarci una qualsiasi cosa. Non se ne fatto niente, e come appunto spesso succede, a tutt’oggi la cosa continua a far bella mostra di sé a chiunque si affaccia al muraglione dietro la Biblioteca Comunale. La zona è sicuramente a rischio di queste terrificanti alluvioni che capitano, in questi anni ma anche in quei tempi là,e infatti la fabbrica era stata distrutta da uno di questi eventi,ma possibile che non si riesca a trovare una soluzione a questo sconcio? E’ Possibile. Comunque, gli unici che beneficiano di questa situazione vergognosamente di stallo, sono i numerosi mici e micioni che vi abitano, a volte in una innaturale  e pacifica convivenza con cuccioli e cuccioloni. Allegramente miao miao e bau bau , e noialtri umani tiriamo a campà.

Due cavalli, Dyane 6, R4…..e la giovinezza andata

di Piero Murineddu

“Mi mancano gli spifferi della Dyane e della R4 quando la notte si parcheggiava sulla collina di Calabona a guardare il mare“, dice l’autore del testo che segue. E’ sicuramente un modo romantico per non dire direttamente che più che altro quello che manca, man mano che si va avanti negli anni, è la giovinezza che si allontana sempre più, coi suoi entusiasmi, i sogni, gli amori freschi di giornata, le scoperte continue di sé e degli altri. Il non prendersi ancora troppo sul serio. Anche per me la R4 è stata la mia seconda casa, dopo quella paterna. Prima ancora la Dyane 6. Rossa l’una, arancione l’altra. Entrambe sono arrivate dopo diversi anni che scarrozzavo con un lambrettone acquistato di seconda mano che mi ha creato sempre un non sò che di frustrazione per l’impossibilità di costruirci sopra una sorta di gabbiotto, protettivo per il freddo e le piogge invernali. Ma va bè, non si può soddisfare ogni manìa che da giovani frulla nella “centralina” cerebrale. E’ vero, come dice Giampaolo: la R4 dava un senso in più di sicurezza e di robustezza. L’avevo anche personalizzata mettendoci le tendine, sia per non essere svegliato all’alba quando capitava di trascorrerci la notte, sia anche, all’occorrenza, poter avere dialoghi più intimi con la mia ragazza di allora, che altri non è che la mia moglie di oggi.

Due cavalli, Dyane 6, R4, Maggiolino…..Utilitarie schifate da molti per la loro poca “serietà”, mentre per altri  simboleggiarono quella libertà e molteplicità di possibilità , l’una vissutà più esternamente che interiormente, le altre con qualche rimpianto e diversi treni partiti lasciandoti desolatamente appiedato.

 

FAVOLOSE

Quella nostra piccola grande “R4″

 

di Giampaolo Cassitta

Sono stato prima tondo e poi quadrato e ho miscelato i miei umori (e gli amori) all’interno di quese due auto: la Dyane due cavalli prima e la R4 successivamente. In realtà chi era tondo non poteva essere quadrato. La Dyane era simbolo di avventura folle, di curve nelle quali il parafango toccava quasi l’asfalto, era il simbolo di “Questo piccolo grande amore” era, molta gioia e poca rivoluzione. Avevo una Dyane “cremina” nei miei primi diciotto anni e fu la prima auto che mi accompagnò al lavoro (Alghero Sassari con un volante da “camion” e con la paura di fermarci alla salita della “Landrigga”) fu lei che assistette al primo bacio, fu lei che, in qualche maniera, mi consegnò alla vita, al comprendere il rumore dei motori, il cambio delle marce, al prendere le curve dolcemente e con qualche apprensione. Non aveva autoradio la Dyane. Bastava cantare a squarciagola le canzoni imparate a memoria: ed erano Battisti e Baglioni. Soprattutto. Erano i miei vent’anni che spruzzavano nel palcoscenico dell’esistenza. Se ne andò una mattina d’aprile davanti alla Torre di Sulis. Rimasi con il volante in mano e la consapevolezza che qualcosa si era concluso. Passai dunque alla R4. Rossa. Il cambio a cloche era l’esatto contrario della Dyane e questo provocò, almeno all’inizio, qualche problema. Ma capii da subito che la R4 era essenzialmente diversa dalla Dyane: più forte, più compatta, meno disponibile agli sfronzoli. Nelle curve il parafango non baciava l’asfalto e l’orizzonte era piatto, verso l’alto, mentre quello della Dyane era decisamente ondulato e verso il basso. La mia R4 divenne il luogo dei dibattiti, delle prese di posizione. Fu la mia prima autoradio estraibile e le audio-cassette. La radio ci serviva per ascoltare Teleradio Alghero e comprendere quanto fosse potente nel territorio. Dopo Monte Agnese il segnale spariva e con lui la nostra speranza di essere famosi in tutti il mondo. Insomma nella R4 rossa passarono nuovi amori e nuove canzoni. Girarono Guccini e De Gregori, Led Zepelin, Pink Floyd. Dietro, sul sedile, copie di Lotta Continua, Doppiovù, Eureka, Linus, ma anche Alan Ford e Topolino. In quel mondo quadrato e in movimento il nostro viaggio dipendeva non dalla voglia ma dalla necessità: se avevi tremila lire potevi permettere la strada e per farla ognuno metteva le sue cinquecentolire. Ci lasciammo per una R5 amaranto. Le auto cominciavano a modificarsi, ad essere più sicure e le radio più potenti. Noi diventavamo più adulti e si provava a conciliare le rotondità della vecchia Dyane con le quadrature della R4. Siamo cresciuti così, nell’immaginare cosa ci fosse in quella sua maglietta fina e provare ad immaginarci dentro una cantina buia a respirare piano, dopo aver parcheggiato la Dyane e la R4. Insomma, quel rumore, quelle marce, quegli odori e quel parabrezza verticale e piccolo hanno segnato le nostre piccole esistenze. Guardando le nuove automobili super accessoriata abbiamo scoperto la nostra dolcissima essenzialità:  oggi quelle  auto ci conoscono da lontano e si aprono le portiere al nostro passare. Sarà più comodo ma anche un po’ più freddo. In fondo, mi mancano gli spifferi della Dyane e della R4 quando la notte si parcheggiava sulla collina di Calabona a guardare il mare. A mischiare acqua e sospiri, respirando piano. Molto piano.

Banche e commercio delle armi

Vi siete mai domandati dove finiscono i soldi che depositate in banca?

 

aerei

di Laura Bruzzaniti 

Useresti i tuoi risparmi per sostenere l’industria delle armi? Sceglieresti di essere cliente di una banca che fa profitti dalla vendita di missili verso paesi in conflitto? Molti risponderebbero di no. Eppure, senza saperlo, molti affidano i propri soldi a “banche armate”, banche che traggono profitto dalle esportazioni di armi. Il  ruolo delle banche nella produzione e commercio di armi è fondamentale: chi produce, vende, acquista armi ha bisogno dell’appoggio delle banche per avere credito e servizi bancari per le operazioni commerciali. E le banche, naturalmente, ci guadagnano. L’Italia è tra i primi otto paesi al mondo per la vendita di armi: vendiamo caccia, missili, bombe, munizioni, veicoli militari. Nel 2013 il totale delle transazioni per esportazioni di armi gestite dalle banche italiane ammontava a quasi tre miliardi di euro.

15 ANNI DI BATTAGLIE
Sono molte le banche che prestano i loro servizi all’industria delle armi e così ci si ritrova, senza neanche saperlo, a finanziare con i propri risparmi chi vende o acquista armi. È da questa considerazione – la responsabilità individuale dei correntisti – che nasce la campagna “Banche armate”, lanciata nel 2000 dalle riviste missionarie Mosaico di Pace, Missione Oggi, Nigrizia, per chiedere a cittadini, parrocchie e associazioni di esigere trasparenza dalle proprie banche, di esercitare pressioni e soprattutto di scegliere banche “pacifiche”, non coinvolte con il commercio delle armi.  A quindici anni di distanza, ora i promotori della campagna hanno fatto il punto sui risultati raggiunti e promosso l’appello per una “quaresima disarmata”.

IL CLIENTE DEVE SAPERE DI PIU’
Il commercio di armi è legale e sono legali i servizi bancari collegati. L’esportazione di armi  è regolata dalla legge 185/90 che stabilisce alcuni principi fondamentali: divieto di vendere armi a paesi in guerra o che violano i diritti umani e poi  trasparenza e controllo delle operazioni. Nel rispetto di questi principi, dunque, non c’è niente di illegale in una banca che fa operazioni legate alla vendita di armi.
Per i promotori della campagna “Banche armate”, però, i clienti di un banca devono chiedere di più all’istituto al quale affidano i propri risparmi: non solo il rispetto della legge, ma anche un’assunzione di responsabilità verso la collettività, regole di condotta che non mettano al centro esclusivamente il profitto. II rispetto, in altre parole, di quella responsabilità sociale di impresa che ormai tutte le banche affermano, almeno in teoria, di osservare…

Esportare armi: un commercio legale, ma non troppo
Non sempre le esportazioni di armi avvengono nel rispetto della legge. Le armi  italiane vengono vendute sopratutto all’Arabia Saudita, Algeria, Emirati Arabi Uniti, Oman, Egitto, Turchia, Israele. Dall’elenco dei Pasi è evidente che le armi  vanno anche dove non dovrebbero, per legge, andare: zone di conflitto, regimi che violano i diritti umani. Inoltre, denunciano i promotori di “Banche armate”, sta diminuendo la trasparenza e il controllo sul commercio delle armi. Dal 2012, in attuazione di una norma europea, l’autorizzazione del Ministero dell’Economia per i trasferimenti bancari collegati alla vendita di armi è stata abolita e sostituita da una semplice comunicazione via web. Ancora, la Relazione annuale del Presidente del Consiglio al Parlamento sulle operazioni di export di armi da qualche anno contiene meno informazioni, meno dettagli. Insomma, le autorizzazioni spariscono e le informazioni diminuiscono. E senza informazioni anche l’opinione pubblica può controllare di meno.

“Disarmiamo i nostri conti” 
Con una piccola indagine si può però sapere quali sono le banche che fanno profitti dalla vendita di armi.  Tabelle ed elenchi possono essere consultati su www.banchearmate.it. Chi poi volesse “disarmare” il proprio conto in banca, aderendo all’appello di “Banche armate”, può scrivere al direttore della propria banca, chiedendo informazioni sul coinvolgimento nelle esportazioni di armi (riportiamo qui sotto un modello di lettera da scrivere al Direttore della banca). E se l’istituto  non risponde o conferma di essere conivolto? Allora basta chiudere il conto e spostarlo su una banca non armata.

 


Per scoprire se la vostra banca è coinvolta, scrivete al Direttore…

Egregio Direttore, nella Relazione sull’export italiano di armi del 2013, presentata dal presidente del Consiglio in Parlamento è evidenziato il coinvolgimento di istituti bancari del nostro paese. Come cliente della sede/filiale di………………… titolare del C/C n°………………….. mi sento interpellato, in quanto anche i miei risparmi potrebbero contribuire a sostenere l’export italiano di armamenti. Aderendo alla campagna di Mosaico di Pace, Missione Oggi, Nigrizia, con la presente La invito a confermare o smentire il coinvolgimento della banca da Lei rappresentata. Mi riservo il diritto di rendere pubblica la Sua risposta, dalla quale dipenderà la mia decisione di continuare o interrompere il rapporto con l’Istituto da Lei rappresentato. In attesa di un Suo riscontro, colgo l’occasione per porgerLe i miei più distinti saluti.

 

“Dì ai miei figli che sono guarito”

 

Normalmente, su Facebook  evito di curiosare nella pagina comune a tutti gli “amici”, preferendo invece andare di proposito nella pagina personale di taluni che di solito ritengono di far partecipi gli altri di cose – diciamo – di una certa sostanza. Lo so, è questione di gusti. Giulio è uno di questi, e di solito, il mio andare a “fargli visita” non rimane deluso. Come in questo caso, per l’appunto. Vi invito a leggere con attenzione e il massimo rispetto il suo ricordo di quello che erano i vecchi manicomi. Specialmente per quelle lacrime dall’amico andato a trovare. Grazie Giulio. (Pi.Mu.)

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FERITE APERTE

 

di Giulio M.Manghina

Oggi hanno aperto al pubblico Rizzeddu, l’ex manicomio – c’era la fila, come quando hanno aperto le carceri di San Sebastiano. Strutture repressive, non monumenti – l’una di devianze mentali, l’altra di devianze sociali.
Dovevano essere una soluzione, invece erano un problema.
Ma non è questo. Non so cosa abbia visto la folla di quel che resta di Rizzeddu, del suo giardino, delle sue stanze, delle sue voci, delle sue grida, dei suoi silenzi. Andavo a trovare un Amico a Rizzeddu – non avevo neanche vent’anni e la prima volta mi ci volle del coraggio per farlo, ma fui ripagato dal suo forte abbraccio e dalle sue lacrime quando mi vide. Della struttura manicomiale ricordo solo l’odore spietato degli interni e le persone inermi che sostavano nel giardino, ma forse ho rimosso molto del resto. Un giorno vidi un volto che mi sembrava conosciuto – un uomo col viso affilato e smagrito, il naso aquilino e gli occhi infossati, con indosso quel che restava di un vecchio impermeabile e con un bordino blu in testa – anche lui si accorse di me, mi venne incontro e mi disse: “Ti ricordi di me? Sono AP, abitavo vicino a casa tua…. dì ai miei figli che sono guarito” mi disse “dì loro che mi vengano a prendere e mi riportino a casa, qui è un inferno”.  AP era lì perché aveva tentato di uccidere la moglie, e c’era quasi riuscito – ai figli non ho mai detto niente.  No, non ci sono andato oggi a Rizzeddu e ho fatto forza su me stesso per scrivere.

Dopo alcuni commenti, in cui giustamente si è rilevato il rischio della spettacolarizzazione  e della curiosità morbosa che  può aver spinto  qualcuno a far la fila per potersi immergere nella tetra atmosfera della sofferenza mentale, Giulio ha chiarito:

L’ho fatto per  condividere con voi un’esperienza personale che avevo rimosso e che è venuta a galla dopo aver visto una foto della folla in fila per la visita. Solo questo. La folla è, per definizione, una massa eterogenea composta di diverse sensibilità e la si può osservare da diversi punti di vista non necessariamente incompatibili. Personalmente ho apprezzato il fatto che nel caso del manicomio, a differenza del carcere di S.Sebastiano, sia stato vietato l’uso di fotocamere – qualche buona ragione gli organizzatori l’avranno avuta. Ancora grazie per la vostra pazienza e partecipazione.