Il maestro d’ Italia

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di Martina Tommasi (storicang.it)

Ci sono persone che dedicano tutta la propria esistenza al bene del prossimo, anche a rischio della propria stessa vita. Alberto Manzi, più noto come “maestro Manzi”, appartiene a questa categoria.

L’anno precedente alla sua nascita, il ministro della scuola Giovanni Gentile aveva attuato la riforma che aveva portato, fra le altre cose, al potenziamento della formazione e della selezione delle nuove classi dirigenti. Il ragazzo, figlio di un tramviere e di una casalinga, aveva due grandi vocazioni: il mare e l’insegnamento. E fu così che riuscì a diplomarsi sia all’istituto nautico sia alle magistrali (che all’epoca, per i maschi erano gratuite). Raggiunta la maggiore età, suo malgrado dovette combattere nella Seconda guerra mondiale. Faceva parte del corpo dei sommergibilisti della marina militare. L’esperienza bellica vissuta con angoscia e la perdita di diversi commilitoni gli aprì gli occhi: il mare non sarebbe stata la sua strada.

Anche all’università Manzi conseguì una doppia specializzazione: da un lato la laurea in biologia, poi quella in filosofia e pedagogia. Ciascuna a suo modo, queste discipline ebbero un ruolo fondamentale nella sua vita. Se è vero che studiò e si formò sotto il fascismo, è anche vero che Alberto Manzi fu un uomo del dopoguerra, della ricostruzione.

Refrattario alla coercizione e critico dell’autorità costituita, nel 1946 finì come prima esperienza ad insegnare nel carcere minorile Aristide Gabelli di Roma. La sua “classe” era formata da ben novantaquattro ragazzi fra i nove e i diciassette anni d’età. Che crimini potevano mai aver commesso quei bambini, quei ragazzini? Ma la guerra era finita da poco lasciando dietro di sé una moltitudine di orfani che spesso finivano nelle maglie della criminalità organizzata per sopravvivere o per sbarcare il lunario.

Da questa breve esperienza, durata circa un anno, nascerà La Tradotta, il primo giornale realizzato in carcere, e Storia di un gruppo di castori, uno dei primi esperimenti teatrali realizzati in un istituto di rieducazione. La trama parla per l’appunto di un gruppo di castori che lottano per la propria libertà. Un racconto nato lì per lì per catturare l’attenzione dei ragazzi e che essi stessi avevano contribuito a sviluppare. Qualche tempo dopo la moglie di Manzi, Ida, leggerà una rielaborazione del testo e lo convincerà a partecipare ad un concorso di letteratura per ragazzi. Fu così che Grogh, storia di un castoro si aggiudicò il Premio Collodi per le opere inedite nel 1948. Il successo sarà letteralmente internazionale, dal momento che verrà tradotto in ben ventotto lingue. Costituì anche il primo passo verso l’avvicinamento alla radio. Nel 1953 la Rai ne ricavò una riduzione radiofonica.

Nell’estate del 1955 Manzi ricevette un incarico in linea con la sua laurea in biologia: un progetto di ricerca in Amazzonia per conto dell’università di Ginevra. Lì doveva studiare un tipo particolare di formiche, ma quel viaggio cambierà la sua vita per sempre. Manzi entrò infatti in contatto con la popolazione locale, e questo incontro rinfocolò la sua profonda sensibilità nei confronti degli oppressi. Cominciò dunque a volte da solo, a volte con l’aiuto di alcuni studenti universitari e col supporto dei missionari salesiani ad alfabetizzare gli indios (o comuneros). Questi, vivevano un’esistenza misera, molti venivano sfruttati nelle piantagioni di caucciù, dove ogni tentativo di protesta veniva represso duramente dalla classe padronale.

Ritroveremo queste tematiche nei suoi racconti sudamericani: La luna nelle baracche (1974), El loco (1979) e E venne il sabato, pubblicato postumo nel 2014, l’opera più matura, che racconta della presa di coscienza corale dello sfruttamento della popolazione amerindia di un piccolo villaggio nella foresta.

Durante i suoi viaggi Manzi collaborò con alcune riviste come inviato, realizzando reportage sulla popolazione locale e sui suoi usi e costumi. Negli anni successivi al Concilio Vaticano II, infatti, l’attenzione alle missioni umanitarie nei Paesi del Terzo Mondo crebbe e il maestro romano colse la palla al balzo per far conoscere queste realtà.

Il pensiero di Manzi ruotava attorno all’idea di libertà, che si poteva raggiungere grazie allo studio e alla consapevolezza che ne derivava. Ma le autorità latinoamericane non sempre apprezzavano questa filosofia, anzi, via via diversi Paesi gli negarono il visto d’entrata. Finché non venne addirittura arrestato e torturato.

Non si sa molto altro su questo tragico episodio, che il maestro conservò con discrezione. Ma nonostante tutto, Manzi non si arrese e continuò i suoi viaggi di alfabetizzazione in clandestinità fino al 1984 durante le pause estive dalla scuola.

Il suo lavoro in America Latina seguì anche vie più istituzionali: nel 1987 il presidente argentino Raul Alfonsin lo invitò a tenere un corso di formazione di sessanta ore ai docenti universitari per l’elaborazione di un piano nazionale di scolarizzazione. Grazie a questo lavoro, il Paese riceverà nel 1989 il riconoscimento dell’ONU per il miglior programma d’alfabetizzazione del Sud America. Manzi non era nuovo a questo genere di onorificenze: infatti nel 1965 aveva già ricevuto un premio Unesco per la lotta all’analfabetismo. Ma questo è un altro capitolo della sua ricca vicenda, che ci riporta nuovamente in Italia.

Nel 1960 Manzi venne coinvolto in un progetto che lo rese celebre e che, visto dai giorni nostri, potremmo definire il primo “esperimento di didattica a distanza”. Il direttore didattico della scuola romana Fratelli Bandiera, in cui insegnava dal 1954, lo mandò alla Rai per un provino per prendere parte a Non è mai troppo tardi. Si trattava di una trasmissione televisiva nata da un’idea del direttore generale della Pubblica Istruzione, Nazareno Padellaro, il cui obiettivo era quello d’insegnare a leggere e a scrivere agli adulti non alfabetizzati.

Manzi superò il provino e divenne il “maestro d’Italia”. Il suo fu un successo planetario: riprodotto come un format in ben settantadue Paesi, in Italia andava in onda prima di cena. Il maestro disegnava a carboncino su grandi fogli bianchi delle scenette da cui partivano poi le sue lezioni. Inoltre utilizzava anche una lavagna luminosa, all’epoca un’attrezzatura avvenieristica di grande impatto. Il successo fu travolgente, e più di un milione di persone conseguì la licenza elementare seguendo le lezioni del maestro Manzi. L’Italia degli anni del dopoguerra portava ancora su di sé un pesante fardello di analfabetismo che nonostante la martellante propaganda nemmeno il fascismo era riuscito a debellare.

Manzi continuò a percepire lo stipendio d’insegnante statale, e un “rimborso-camicie” dalla Rai (le sue si sporcavano col carboncino). La trasmissione continuò fino al 1968, poi venne sospesa perché la scuola pubblica era ormai un’istituzione avviata.

Manzi morì nel 1997 a Pitigliano, in provincia di Grosseto, dove, rimasto vedovo, si era trasferito con la seconda moglie e la loro figlia, e dove aveva svolto anche l’incarico di sindaco. Dietro l’aspetto di quieto maestro piccolo borghese, ci lascia un’eredità morale da vero ribelle: «La rivoluzione è una perpetua sfida alle incrostazioni dell’abitudine, all’insolenza dell’autorità incontestata, alla compiacente idealizzazione di sé e dei miti imposti dai mezzi di informazione. Per questo la rivoluzione deve essere un evento normale, un continuo rinnovamento, un continuo riflettere e fare, discutere e fare. Gli altri, sono io».

Il ” Non é mai troppo tardi” del maestro Manzi e molto altro ancora

Il maestro d’ Italiaultima modifica: 2023-12-04T05:51:37+01:00da piero-murineddu
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