Antifascismo2023

di Lorenzo Guadagnucci

( volerelaluna.it)

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Nei giorni scorsi – era il 25 aprile, Festa della Liberazione – a metà mattinata, nel pieno delle cerimonie, con canti, bandiere rosse e una certa commozione intorno, è arrivato sul cellulare il messaggio di amici in vacanza per qualche giorno in Croazia:

«Stamani al bar» – scrivevano – «mentre facevamo colazione, abbiamo assistito all’arresto di un gruppo di migranti, davanti a noi in un grande prato; qualcuno ha provato a fuggire, ma i poliziotti li hanno inseguiti e presi. Tutti ragazzi giovani, rassegnati e con gli occhi spenti. Non riusciamo a toglierceli dalla mente. Ci è venuto da piangere, è stato bruttissimo».

Davvero un bruttissimo modo, per questi amici, di celebrare il 78° anniversario della liberazione del nostro paese dal nazifascismo, ma un modo autentico e rivelatore.

Autentico perché il presente della nostra Europa, lungo tutti i suoi confini, è quello descritto in presa diretta dal bar di un ameno alberghetto croato: pattugliamenti di polizia in prossimità delle blindatissime frontiere, inseguimenti, arresti, violenze, respingimenti. È in atto uno scontro fra il “sogno europeo” di chi viene da fuori e gioca la scommessa della vita, rischiando tutto, per accedere al benessere, alle garanzie, alla promessa di civiltà delle democrazie del Vecchio Continente e la realtà di un’Europa che il suo “sogno” lo ha chiuso in un cassetto, sbarrando le frontiere, e lo riserva semmai, in dosi minori di un tempo e secondo una logica di neo apartheid, solo a chi abbia la fortuna di essere già al di qua di fili spinati, muri, fossati, fortificazioni, tecno-sorveglianza e a chi, fra gli “stranieri”, sia ammesso a varcare il confine e venga quindi “promosso” al rango di cittadino europeo, o meglio di quasi cittadino, perché lo stigma della diversità e dell’inferiore rango originario resta fatalmente impresso sui corpi e nelle identità dei “salvati”.

È poi rivelatore, quel modo di “celebrare” involontariamente il 25 aprile in Croazia, perché mette a nudo una contraddizione profonda e dolorosa sul senso attuale dell’antifascismo, così discusso nella lunghissima vigilia di quest’anno per via della presenza al governo della destra estrema.

È stato un 25 aprile molto speciale: preparato, raccontato, analizzato come non avveniva da tempo, e nel nostro campo, il campo antifascista lo abbiamo vissuto con orgoglio e un certo senso di gratificazione. In fondo, le sparate del presidente del Senato, gli imbarazzi della presidente del Consiglio, le rabbiose esternazioni di tanti esponenti politici e commentatori vicini alle destre di governo, ci hanno fortificati, ci hanno permesso di confermare a noi stessi la convinzione d’essere dalla parte giusta della storia e anche della memoria. E però quell’episodio in Croazia è molto più di un tarlo che scava piano piano un legno stagionato e robusto, è molto più di un dubbio sull’arretramento della “democrazia reale” rispetto a quella descritta nella nostra Costituzione “nata dall’antifascismo” e nei trattati istitutivi dell’Unione europea. Quell’episodio, per ciò che rivela, è il classico elefante nella stanza, così grande e così ingombrante che per non vederlo occorre almeno dargli le spalle, fingere che non esista. Perché se lo sguardo si fissa sopra di lui, l’elefante appare per quel che è: una presenza così imponente da oscurare la vista e mutare radicalmente la scena.

Insomma, mentre celebriamo l’antifascismo, la sua storia gloriosa nel Ventennio e poi nella Resistenza, e il suo enorme esito politico – la Costituzione, la nascita della democrazia, la Dichiarazione dei diritti umani, la prospettiva del federalismo europeo – attorno a noi, nei nostri paesi, per effetto di decisioni prese in modo democratico, si perseguita, si arresta, si respinge, si rifiuta, si tortura, si lascia morire chi vorrebbe partecipare alla nostra storia, chi vorrebbe condividere le conquiste delle democrazie antifasciste.

Li chiamiamo migranti, ma come scrive Maurizio Pagliassotti in un esemplare e urticante libro reportage – La guerra invisibile (Einaudi, 2023) – li trattiamo da nemici. Siamo in guerra con loro. Schieriamo ai confini eserciti, polizie, milizie speciali, come se dovessimo affrontare un’invasione militare. E così, da un certo punto in poi, dopo averne raccontato le storie tutte diverse ma in fondo tutte uguali, percorrendo all’incontrario le rotte migratorie, dal confine italo-francese fino alla Turchia, Pagliassotti anziché migranti li chiama nemici. Ed è così, per onestà, che tutti noi dovremmo rappresentarli a noi stessi, perché è in nostro nome, con la nostra complicità e corresponsabilità di cittadini che si combatte questa sporca e invisibile guerra di confine.

In questo quadro, siamo obbligati a chiederci con grande onestà che cos’è davvero l’antifascismo nel 2023. Che peso dare al contrasto fra il sentimento di gratificazione che proviamo nel confutare il revisionismo storico della destra estrema di governo e il senso di dolore, di sconcerto, di spiazzamento suscitato dalla vista della caccia alle persone e il “lasciar morire” nei boschi bosniaci e bielorussi, sui fili spinati di Melilla, nel mare Mediterraneo?

Da un lato celebriamo i valori della civiltà nata dall’antifascismo – la democrazia, lo stato di diritto, la dignità di tutte le vite, la priorità dei diritti umani – dall’altro pratichiamo la negazione di quegli stessi diritti per chi non appartenga alla ristretta cerchia delle persone dotate di un passaporto dell’Unione; da una parte la nostra Festa della Liberazione, dall’altra l’inferno per i “nemici”. Come dire: il meglio della nostra storia politica, ma anche il suo tradimento; un tradimento che trascuriamo, ignoriamo, minimizziamo, perdendo così di vista la dura e insopportabile realtà del tempo presente.

Quale sia il rischio allora è palese: fare dell’antifascismo una retorica consolatoria, un facile punto d’appoggio per una (debole) identità politica, e rinunciare alla forza trasformativa di una tradizione politica, sociale e culturale che non ha eguali nella storia del popolo italiano.

Ha detto di recente Pia Klemp, comandante della “Louise Michel”, una della navi di soccorso profughi nel Mediterraneo penalizzate e perseguitate ormai da anni e per mano di governi di ogni colore politico: «Non considero il salvataggio in mare come un’azione umanitaria, ma come parte di una lotta antifascista». Per esempio.

Antifascismo2023ultima modifica: 2023-04-28T05:10:12+02:00da piero-murineddu
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