Diversamente, è pura ipocrisia (il “Padre nostro” di Michele Meschi))

Diversamente, è pura ipocrisia (ma ad essere ipocriti siamo abituati)

di Piero Murineddu

“Può rivolgersi a Dio chiamandolo Padre solo chi s’impegna ad orientare la propria vita al bene dei fratelli”.

E qui la condizione perché siamo noi a considerarlo Padre non c’entra nulla. È Lui che ci considera figli, a prescindere dagli innumerevoli “credi” che ci siamo inventati e che ci dividono, siano essi “religiosi” o laici.

Per un padre la cosa più importante che sta’ al di sopra di tutto l’altro è che i propri figli vivano in pace. La salute, la carriera lavorativa, il farsi strada nella vita, un matrimonio riuscito….. Tutte cose che passano in second’ordine, per quanto valore abbiano.

Ciò che rende felice un genitore è che i figli conservino un rapporto realmente fraterno in ogni circostanza e in qualsiasi strada abbiano intrapreso. È un fatto che sperimentiamo, sia che siamo genitori nella carne, sia che lo siamo nello spirito.

Eppoi ci sono quelle inquietanti parole di Gesù che non dovrebbero lasciarci indifferenti e farci rialzare dal banco “pregatoio” per catapultarci nelle strade dell’altrui sofferenza:

Non chi dice Signore Signore, ma chi fa la volontà....” ecc ecc

 

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di Michele Meschi

Come motiva magistralmente Alberto Maggi, il “Padre Nostro” è il testo più complesso del Nuovo Testamento, oltre che – elemento da non sottovalutare – l’unica preghiera che Gesù ha direttamente insegnato e autorizzato.

Oltre che in Matteo e in Luca, essa compare nella cosiddetta “Dottrina dei dodici apostoli” (Didaché), testo siriaco o egiziano a cavallo tra il primo e il secondo secolo, ovvero contemporaneo ai libri più tardivi del Secondo Testamento.

Ricorda Maggi [si cita direttamente] che il “Pater” non è una pia formula di devozione, “ma la formula di accettazione delle Beatitudini […]. Può rivolgersi a Dio, come Padre, solo chi si impegna a orientare la propria vita al bene dei fratelli. Per questo, fin dai primi tempi della Chiesa, il Pater era parte essenziale della liturgia battesimale: solo al momento del battesimo il catecumeno poteva recitare la preghiera del Signore, quale segno di conversione radicale della sua vita”.

“La preghiera inizia rivolgendosi al Padre che è “nei cieli”. Essere nei cieli o sulla terra è quel che distingue la condizione divina da quella umana. Quest’affermazione si comprende meglio, se inserita in un’epoca nella quale l’imperatore pretendeva di essere considerato di natura divina, e il rifiuto di adorarlo era causa di morte. I cristiani, affermando che nei cieli c’è solo il loro Dio, non riconoscono nessuna autorità, se non quella del loro Padre celeste. Sfidando i detentori del potere, i credenti rivendicano la loro libertà”.

“La prima petizione del Padre nostro riguarda la santificazione del suo nome, che non ha solo l’ovvio significato di rispettarlo, ma esprime l’impegno del credente a far conoscere questo Dio come Padre con il proprio comportamento (“Perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli”, Mt 5,16)”.

“La richiesta “venga il tuo regno” non ha il significato di chiedere quel che ancora deve arrivare, perché dal momento in cui una comunità ha accolto le Beatitudini di Gesù, il regno di Dio è già presente (“di essi è il regno dei cieli”, Mt 5,3)”. Si auspica piuttosto che questo regno, ovvero la società alternativa fondata sulle Beatitudini, possa estendersi sempre di più, offrendo così a ogni uomo una proposta di vita piena”.

“Quella che riguarda la volontà divina (“sia fatta la tua volontà”) è per molti la richiesta più difficile, perché si pensa che questa coincida con gli eventi tristi, luttuosi della vita. È infatti allora, quando non ci sono più speranze o alternative, che sospirando rassegnati si dice “sia fatta la tua volontà”.

“In realtà l’evangelista non adopera il verbo “fare”, che indica un’azione umana, bensì “compiere”, espressione dell’agire divino. Non si tratta di fare la volontà di Dio, ma si chiede che il suo disegno d’amore sull’umanità si compia, permettendo a ogni uomo di divenire suo figlio, e ci si impegna attivamente perché questo possa realizzarsi”.

“L’espressione “come in cielo così in terra” non si riferisce solo all’ultima richiesta, quella della volontà, ma ingloba tutte le altre. Cielo e terra indicano il creato: la preghiera di Gesù non è riservata a un solo popolo, ma universale, aperta a tutte le genti”.

Ancora Maggi: “Il versetto più difficile da tradurre è quello del pane, in quanto contiene un termine che non esiste nella lingua greca (“dacci oggi il pane nostro, quello epiousion”) e che è da sempre lo scoglio per ogni traduttore. Dal quarto secolo la traduzione latina, denominata Vulgata, tentò di superare la difficoltà presentata da questo termine sconosciuto, traducendolo in due diverse maniere: “supersubstantialem” in Matteo e “cotidianum” in Luca. Quest’ultimo termine, più facile a pronunciarsi e anche più comprensibile, venne trapiantato dal vangelo di Luca in quello di Matteo per formare la versione liturgica, originando però l’equivoco che la richiesta riguardasse il pane da mangiare ogni giorno, causando lo scandalo di chi, pur pregando, non riceve nulla. Il pane che nutre l’uomo non va richiesto a Dio e non è inviato dal cielo, ma è compito degli uomini produrlo e condividerlo generosamente con chi non ne ha. Questo pane che viene richiesto al Padre è invece la presenza di Gesù, il pane di vita (Gv 6,35), alimento essenziale per la comunità, sia nell’eucaristia sia nella sua Parola”.

“La sola volta in cui nel Pater una petizione viene motivata da una clausola, essa riguarda il condono dei debiti: “come noi li condoniamo ai nostri debitori”. I credenti che hanno accolto le Beatitudini non possono dividersi in creditori e debitori. Il condono concesso dal credente al fratello non è condizione di quello del Padre, ma la sua conseguenza, e permette la realizzazione della volontà di Dio sul suo popolo (“Non vi sia alcun bisognoso in mezzo a voi”, Dt 15,4)”.

“La resistenza a condonare i debiti ha portato poi a spiritualizzare questa richiesta, trasformando i debiti da economici a spirituali, fino a parlare di peccati. Mentre è possibile perdonare le colpe e restare in possesso dei propri averi, la richiesta del Pater esige la rinuncia a questi”.

“Nella Lettera di Giacomo si legge: “Nessuno, quando è tentato, dica: «Sono tentato da Dio»; perché Dio non può essere tentato al male ed egli non tenta nessuno al male” (Gc 1,13-14). Purtroppo aver reso la petizione del Pater con “non c’indurre in tentazione” ha da sempre sconcertato i credenti, restii a credere in un Padre che tenta i propri figli. La traduzione CEI del 2008 ha cercato di migliorare l’espressione rendendola con “non abbandonarci alla tentazione”. L’azione di Dio non è quella di indurre l’uomo nella tentazione bensì di liberarlo dalla stessa”.

“Non farci soccombere nella prova”: è questo il significato della richiesta della comunità, che chiede di non cadere in una situazione che non è capace di gestire. Non si tratta delle prove che la vita presenta, ma il singolare “prova” indica un’unica prova, particolarmente temuta, e dalla quale Gesù metterà in guardia i suoi: “Vigilate e pregate per non cadere nella prova” (Mt 26,41). È la prova della cattura di Gesù, alla quale tutti i discepoli soccombono, nonostante le reiterate dichiarazioni di essere pronti a morire con lui”.

La richiesta di non cedere durante la persecuzione “prepara l’ultima petizione, quella di essere liberati dal maligno (non dal “male”)”, in cui quest’ultimo termine acquisisce chiaramente il significato di ciò che rende più refrattari all’azione di Dio, prima fra tutte l’ambizione del potere e della supremazia sugli altri.

“La fedeltà al Padre suscita avversione e persecuzione, ma questa anziché indebolire la comunità la irrobustisce e la rende testimone visibile del suo amore incondizionato per l’umanità”.

Diversamente, è pura ipocrisia (il “Padre nostro” di Michele Meschi))ultima modifica: 2018-11-17T17:31:55+01:00da piero-murineddu
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