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“Passo di Gavia”, un racconto inedito di Leo Spanu

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Con forza contro la retorica militarista (*)

 

di Piero Murineddu

Leo Spanu, vecchio alpino durante la “leva militare”, ci regala un suo racconto scritto ben 42 anni fa. Ci descrive un incredibile Campo di addestramento (autobiografico?) svoltosi nel febbraio del 1968,  talmente gelido che “il buco del culo si sigillava“.  Quello dei poveri militi, s’intende, mentre quello dei due ufficiali, specialmente del Valeri capitano,  rimaneva ben aperto e al calduccio negli occasionali rifugi notturni: loro due straiati su uno spazioso letto matrimoniale seppur sgangherato, la soldataglia stretta come sardine in buche scavate nella neve, riscaldati dal calore dei loro corpi luridi e dalle scoregge. Sul soldato sardo, facente funzioni da infermiere perchè da civile aveva studiato qualche anno in medicina (fornito di ghette valdostane e pugnale infilato nel cinturone) veniva addossata la responsabilità della salute dell’intera compagnia (“altrimenti l’avrebbe pagata cara!”), oltre che appesantito da ben 35 chilogrammi di inutili “ferri del mestiere” sulle sue gracili spalle. Anche se  i panorami sono mozzafiato, l’esperienza appare tutt’altro che una gita di piacere. Tra le altre privazioni, non potevano calarsi neanche i pantaloni per cacare, e quando pisciavano, dovevano affrettarsi a ritirare dentro  il pistoletto per “non rischiare di vederselo congelare tra le mani”. L’unica consolazione era il pensiero che là nel paesino le ragazze li aspettavano “con le mutande gia in mano“.

Nonostante il drammatico epilogo, è ancora più tragico che da quella volta in poi, il capitan Valeri (secondo cui per regolamento i soldati  dovevano dormire fuori all’addiaccio e gli ufficiali al riparo), quando doveva spostarsi con la sua Compagnia, voleva  sempre con se…….  l’infermiere sardignolo.

Un racconto che è un inno antimilitarista, e quello che descrive  riguardo ai graduati nei confronti dei soldati semplici, non è molto dissimile da quello che continua ad accadere nella cosiddetta società civile: il popolino a sgobbare, “lor signori” a godersi la scena dall’alto degli ancora troppi previlegi.

 

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Il racconto è sicuramente drammatico, ma grazie alla “divertente” narrazione dall’autore,  in certi passaggi sopratutto, ieri mattina presto quando lo stavo leggendo, tutto la vallata sotto casa mia è stata  svegliata dalle mie fragorose ed incontenibili risate. Buona lettura

 

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Passo di Gavia

di Leo Spanu

 

 

Parte prima: Le prime ore erano trascorse tra scherzi e cori improvvisati

– Maledizione, ma non si arriva mai?- La voce si accese come una fiammella sulla sterpaglia secca e subito partì un coro di brontolìi e bestemmie di risposta svegliando il piccolo gruppo irrigidito dalla stanchezza e dal freddo. Eravamo partiti verso mezzogiorno, dopo un pasto veloce che era sembrato più scipito e cattivo del solito. Un nevischio fastidioso ci aveva augurato buon viaggio. Alla periferia di Merano un gruppetto di ragazzini ci aveva bombardato di palle di neve e noi, indifesi dentro il nostro camion, avevamo risposto a pernacchi e contumelie. Mica potevamo spararli. Anche se erano i soliti crucchi che non perdevano l’occasione per dimostrare il loro disprezzo per noi alpini, erano sempre e solo dei bambini. Il viaggio era stato interminabile, ore e ore per continui saliscendi, tra valli e montagne ricoperte di neve quanta non ne avevo mai vista. Le prime ore erano trascorse tra scherzi e cori improvvisati. Io, tutto imbacuccato, mi stringevo allo zaino cercando di fermare qualche guizzo di calore che fuggiva tra i refoli di vento oltre il telone del camion. Prima di partire mi ero fatto un’iniezione di penicillina per bloccare la febbre ma continuavo a non sentirmi bene. Otto ore di viaggio e non si arrivava mai. Nessuno parlava più, solo ogni tanto, una voce esplodeva nel buio, maledicendo il freddo, la stanchezza e la naia. Il camion si arrampicava faticosamente sui tornanti del Tonale tra i mucchi di neve ammucchiati ai bordi della strada. Alle curve, sciabolate di luci dai fari delle macchine che incrociavamo, scoprivano squarci di abissi. Il vento ci schiaffeggiava con raffiche di neve.  – Al Tonale ci fermiamo a prendere un panino –    – Chi l’ha detto?-   – Cacchio! Si spera, no?-     Infatti l’automezzo si fermò davanti ad una luce perduta nella notte che si rivelò essere quella di una salumeria. Saltammo giù come un’orda di selvaggi davanti da un inaspettato bottino. Anch’io, dimenticando la febbre e la natica indolenzita dall’iniezione, con un balzo da campione, avevo seguito i miei compagni. – Due minuti soltanto.- ringhiò qualcuno. Ci precipitammo dentro il negozio facendo sobbalzare la commessa già pronta a chiudere ma, ritrovato l’istinto commerciale, la ragazza cominciò ad affettare salame a tutto spiano confezionando una trentina di panini e ricavandoci pure un guadagno extra. Conscio dei miei scarsi mezzi brontolai. – Merda! Duecento lire per un panino microscopico. Questa tipa ci ha preso per la gola-  – Fregatene, sempre meglio che essere presi per il culo –  replicò qualcuno. Cercai lo spiritoso. Il solito Giannini, un tipo mingherlino e secco come un’aringa, noto tra i compagni come ” Baffi” per via di un bellissimo paio di baffi formato da sei-peli-sei per lato. – Spiegami la differenza, Aristotele- Giannini non rispose, era troppo intento a divorare un panino che una persona di normale appetito avrebbe giudicato appena più grande di una pastiglia. E poi dubito che avesse mai sentito nominare Aristotele. – Sul camion, cazzo. Svelti che si parte – Tutti i sergenti del mondo sono noti per la loro gentilezza. – Ma vaffan…- Gli rispose una voce anonima.

 

Parte seconda: E noi dove dormiamo

Ricominciò il calvario, stavolta però eravamo in discesa e quel residuato di guerra sembrò ritrovare il concetto di velocità. Attraversammo Pontedilegno e dopo un’eternità giungemmo a destinazione. – Signori si scende – Lo spettacolo che si offrì ai nostri occhi non era dei più felici. Ad un lato della strada una minuscola pensione semisepolta nella neve, di fronte un garage. Intorno solo la notte. – E il paese dov’è?- – Dietro la collina- – E noi dove dormiamo?- – Nella neve, stronzo. Cosa credevi di trovare: il Cavalieri Hilton?- – Silenzio lì e scaricate il materiale – Fummo fortunati, il proprietario della pensione ci offrì la sua ospitalità nel garage. Il locale era di grandi dimensioni per cui, oltre al materiale (radio, zaini, armi) riuscimmo a sistemare anche i nostri materassini gonfiabili e i sacchi a pelo. Il pavimento era in terra battuta, bastava uno starnuto per sollevare nubi di polvere ma era meglio ritrovarsi con la pancia piena di terra che dormire all’aperto. Riuscii a litigare col furiere che voleva mettermi di guardia. – In primis, io sono un infermiere e non devo fare questi servizi, in secundis ho una febbre da cavallo- – Cosa vorresti dire: devo montare io di guardia?- – Cazzi tuoi. Anche gli infermieri si ammalano ogni tanto.- Dopo un acceso scambio d’insulti, col beneplacito del sergente, mandai a quel paese quel graduato da scrivania e, dopo essermi tolto solo gli scarponi e la giacca a vento, m’infilai dentro il sacco a pelo. Malgrado tutto dormii come un ghiro. Fui svegliato solo dal casino che fanno abitualmente tutti i sergenti alla sveglia e mi ritrovai con la bocca piene di piume. – Anche il sacco a pelo rotto mi dovevano dare.- mi lamentai. Il cielo era sereno e c’era anche un timido tentativo del sole che cercava di uscire dalle nuvole. La mattina fu consumata nella ricerca di ricoveri per la compagnia che doveva raggiungerci in giornata e doveva trovare tutto pronto e a posto. A noi della compagnia servizi sempre il lavoro e le rogne e pensare che, per tutti, noi eravamo gli imboscati. Dietro la pensione c’era uno stretto sentiero che portava ad un gruppetto di vecchie case. La ” commissione alloggi” era formata dal capitanValeri, comandante della compagnia, il tenente Senseri, vicecomandante, e un ufficiale medico che proveniva da un altro reparto. Io e altri tre commilitoni (uno era Giannini) eravamo la scorta tuttofare. Esaminammo attentamente le strutture pensando che cento persone dovevano trovare un posto per dormire al coperto.

 

Parte terza: Con loro divisi la buona e la cattiva ventura

Le costruzioni erano stalle abbandonate da tempo, tutte a due piani tranne una che però aveva il tetto semi sfondato. Al piano terra uno strato di paglia vecchia e di letame antico; il piano superiore, fatto con assi di legno, non offriva garanzie di sicurezza. Troppo pericolose anche per gli alpini. Alla fine dell’esame avanzarono tre stalle e una stanza, il tutto sufficiente per ricevere una sessantina di persone. – Solo posti in piedi. Questa è la volta che dormiamo nella neve. – disse sottovoce Giannini. – Se ci stanno gli esquimesi ci può stare anche uno stronzetto come tè – gli rispose Rovelli, l’amico-nemico inseparabile. – Io sono un uomo solare e non un bifolco della bassa padana come te- – Ma se sei della vai Brembana dove l’ultima volta che avete visto il sole avete chiamato la RAI per sapere cos’era.- I due continuavano a beccarsi come d’abitudine. Malgrado si scagliassero addosso imprecazioni e oscenità di ogni genere, erano grandi amici. Io conoscevo poco quel gruppetto di persone. Mi avevano aggregato alla 52° compagnia assaltatori come aiutante di sanità e anche quelli che erano con me, telegrafisti e addetti ai vari servizi, venivano aggregati in continuazione da un reparto all’altro. Una quindicina di persone era stata caricata, armi, bagagli e cucina da campo e spedita avanti a predisporre la sistemazione del reparto. Tutto il campo invernale lo trascorsi insieme a quei ragazzi e con loro divisi la buona e la cattiva ventura. Legai in particolare con quattro di loro. Giannini, il piccolo e linguacciuto telegrafista, pronto oltre che di lingua, anche di portafoglio, per mia buona sorte. Mi spiego: essendo piuttosto fornito di soldi, li spendeva volentieri coi compagni meno forniti. In particolare con me che ero partito per il campo con cinquecento lire in tasca e un pacchetto di nazionali. Rovelli invece era un tipo tranquillo sempre con la macchina fotografica in mano a riprendere tutto e tutti. Portelli, un gigante triste e taciturno. Quando apriva bocca, raramente, era per parlare della sua ragazza che doveva sposare alla fine della naia ed aspettava un bambino. Gli venivano i lucciconi quando raccontava della sua innamorata. Volevamo bene a quel colosso con la faccia da bambino anche se lo prendevamo un pò in giro. Credo per invidia. Infine Bianciardi, un comasco flemmatico come un inglese, sempre occupato a pulire e manutenzionare la sua radio. Era un perito elettronico ( ” Non mi sono mica diplomato alla Scuola Radio Elettra Torino, io” rispondeva sempre a chi irrideva la sia mania) e un appassionato di cori di montagna. Infatti cercava sempre di mettere insieme qualcosa di decente coi suoi commilitoni. Fatica sprecata. Tra noi c’erano più asini che cantanti.

 

Parte quarta: Siringai i sederi di mezza compagnia

La compagnia arrivò dopo le tredici, una fila interminabile di camion. I soldati, tutte reclute, erano stranamente silenziosi. Forse pensavano alla faticosa esperienza che li aspettava. Per sistemare tutta quella gente fummo costretti a cercare altre stalle, queste alquanto lontane dal campo base che fu stabilito presso la pensione. Nel piazzale davanti alla stessa furono tirati su due tendoni nei quali furono sistemati il magazzino viveri e la cucina mobile. Gli ufficiali si sistemarono nell’albergo e tutto fu in ordine. A Sant’Apollonia (così si chiamava la località) restammo cinque giorni e nel complesso non si stava male. Io avevo un lavoro d’inferno perchè i soldati si ammalavano in continuazione. Era solo una banale influenza. Ma quel febbraio del 1968 era da ricordare per il freddo eccezionale. Siringai i sederi di mezza compagnia rimettendo in sesto i commilitoni. Il capitano Valeri mi aveva promesso l’apocalisse se il giorno della partenza tutti i soldati non fossero stati in perfetta salute. Perchè non se la prendeva con l’ufficiale medico? Comunque solo due, che si ammalarono all’ultimo momento, furono esentati dalla missione e furono invidiati da tutti noi. Una notte ebbi la fortuna di dormire nella pensione. Un alpino si prese l’influenza in una forma particolarmente cruenta con una febbre altissima e il medico ordinò il suo ricovero in una stanza della pensione. Lo mettemmo a letto e la visione di quelle candide lenzuola con delle calde coperte mi provocò un gran magone. Com’era lontano casa mia e la mia stanza. Dovetti vegliare il malato per tutta la notte. C’erano due letti, uno era occupato dal soldato, l’altro doveva rimanere libero. Sistemai il mio materassino gonfiabile sul pavimento, vi appoggiai il mio sacco a pelo e intanto guardavo quel letto vuoto come un assetato guarda un bicchiere colmo d’acqua fresca. Maledissi me, il mondo e l’esercito ma dormii al caldo e comodo potendo stiracchiarmi a piacere senza scalciare nessuno. Una sera dopo la cena feci una scappatina in paese. Avevo chiesto agli amici di aspettarmi perchè impegnato nel giro di visite di controllo con l’ufficiale medico. Invece quelli se ne andarono di corsa. Mi sistemai le ghette valdostane, allacciai il cinturone, infilai il pugnale e mi incamminai verso il paese. Era una notte di luna piena, avanzavo faticosamente sprofondando nella neve fino al ginocchio e mi persi. Mi guardai intorno spaventato, non avevo nessun punto di riferimento. Mi avevano detto: vai sempre dritto. Facile a dirsi, ero solo in mezzo a tutto quel candore. Un deserto bianco mi circondava, non un suono, non un rumore. Una nuvola maligna copri la luna e in quel buio improvviso una morsa gelida strinse il mio cuore. Rimasi immobile per un tempo che mi sembrò eterno. Io e la paura. Poi la luna si fece largo tra le nubi e mi sorrise. Mi parve di sentire dei suoni venire da lontano e mi mossi in quella direzione. Dopo pochi passi vidi il paese. Trovai gli amici nell’unico bar aperto. In giro non c’era nessuno.

 

Parte quinta: La montagna è bella ma dura

La nostra baldoria si limitò al penoso tentativo di sbronzarci con qualche bicchierino di grappa. Scambiammo qualche parola coi pochi avventori e scoprimmo con piacere di trovarci tra la nostra gente. Dopo mesi tra popolazioni che ci detestavano, che non parlavano la nostra lingua, era una beatitudine sentire quel dialetto duro, a volte incomprensibile ma roba di casa nostra. Ascoltavamo i racconti e i consigli dei montanari, tutti ex alpini. Un vecchio con un enorme paio di baffi bianchi disse: – La montagna è bella ma dura. E in questa stagione è troppo pericolosa. Non dovreste salire sul Gavia – – Eilà nonno, mica ci andiamo di nostra volontà. E noi poi siamo alpini – – Benedetti figlioli. Così giovani, così bambini- sospirò la proprietaria del bar, un donnone dall’espressione dolce, mentre ci riempiva i bicchierini.
Tornammo alla base euforici. La cortesia dei valligiani ci aveva dato coraggio e se le ragazze non s’erano viste, data l’ora tardi, pazienza. In quanto agli avvertimenti e ai consigli poi. A vent’anni ti senti di prendere a calci in culo il mondo intero. E venne il giorno della partenza. – Allineati e coperti !- Io sacramentavo sottovoce senza ritegno. Il mio zaino non era equilibrato. Si trattava della barella in legno, smontata e legata ad un bastio a cui avevo fissato il sacco a pelo e lo zainetto coi medicinali. Trentacinque chili di peso mal distribuito che, ero sicuro, mi avrebbero fatto soffrire le pene dell’inferno. E pensare che esistevano le barelle da neve ( in dotazione alla pattuglia degli sciatori), leggere e facili da trasportare. Che senso aveva portarsi dietro quell’aggeggio antico e inutile? In fila, pronti alla partenza, ascoltavamo il discorso augurale di un maggiore. – Le solite puttanate – sussurrò al mio fianco Giannini che, come me, aveva otto mesi di naia e si considerava ormai un veterano per non sbattersi altamente di tutta quella retorica militaristica. Finito il comizio, il trombettiere diede la partenza e via in fila indiana. L’ultima cosa che vidi era il maggiore che davanti alla pensione ci riprendeva con una cinepresa poi, lui verso posti civili e riscaldati, noi su per il passo del Gavia. Avremmo dovuto trascorrere tre notti e tre giorni in quella passeggiata invernale. – Speriamo che qualcuno abbia avvisato il dio delle tempeste che noi siamo da queste parti- disse Giannini. – E che ce la mandi buona- concluse Rovelli, poi sparirono avanti. A me era toccato un posto in coda alla colonna. Il peso sulle spalle fu subito insopportabile ma la prima tappa fu breve.

 

Parte sesta: Le  razioni K  riservate solo agli ufficial

Ci fermammo presso un gruppo di stalle, in una località chiamata case Predazze, delle costruzioni disseminate in una vallata all’inizio della salita per il Gavia. Li passammo il resto del giorno e la notte. Il cibo ci fu portato dai muli e fu l’ultimo pasto caldo, almeno così era partito dal campo base. Il giorno dopo avremmo dovuto portarci dietro anche i viveri. Speravamo in una dotazione di razioni K ma queste furono riservate solo agli ufficiali. A noi tre panini, dei filoncini, un pezzo di formaggio, due mele, un limone e una scatola di pollo tonnato ogni cinque soldati. Furono distribuite anche due bustine di cognac, una tavoletta di cioccolato duro come il marmo e un gavettino di vino a testa. Il vino fu bevuto subito. Chi non lo fece si ritrovò nella borraccia dei pezzetti di ghiaccio viola che galleggiavano nell’acqua. Nel pomeriggio fummo impegnati a costruire delle specie di igloo di cui avremmo avuto bisogno in seguito. Gli esquimesi sono dei geni dell’architettura, noi non eravamo neppure lontani parenti. Ci limitammo a scavare delle grandi buche nella neve, lo spazio necessario per quattro, cinque persone, poi stendemmo sopra i nostri teli tenda personali, fissandoli con le piccozze e legandoli tra loro con pezzi di cordino da valanga, infine coprimmo tutto con un sottile strato di neve lasciando solo una minuscola apertura. Quelli sarebbero stati i nostri futuri rifugi. In effetti, se costruita a regola d’arte, la struttura protegge abbastanza. La temperatura si mantiene sullo zero. Fuori, speriamo bene. La giornata trascorse serenamente, raccogliemmo anche parecchia legna secca, una parte per bruciarla subito e scaldarci un pò, l’altra da legare allo zaino e portarcela dietro. L’unica difficoltà che trovammo fu l’impossibilità di andare di corpo. Qualche tentativo fallì ingloriosamente. Il freddo pungente convinse tutti a non abbassarsi i pantaloni. – Bene!- Osservò Giannini – D’ora in avanti si può solo pisciare, e in fretta se no ti si gela in mano.-

 

Parte settima: Non avrei mai immaginato che la fila si fosse così allungata

Giunse la notte. Ammucchiati uno addosso all’altro, non c’era spazio per muovere un dito. Al movimento di uno brontolavano almeno altre quindici persone smosse dall’onda. Anche l’aria non era gradevole; tra la nostra sporcizia (non ci lavavamo da alcuni giorni) e il tanfo del letame secco, dormimmo in una camera a gas. In quelle maledette stalle c’era più merda che paglia. Al piano di sopra il capitano Valeri e il tenete Sanseri si scaldavano il caffè e la cioccolata delle razioni K. C’era un caminetto che i soldati avevano ripulito e riempito di legna e un letto matrimoniale semisfondato, di quelli di una volta, massiccio e col fondo di legno. I due ufficiali vi avevano sistemato i loro sacchi a pelo e potevano godere di uno spazio più ampio. Venne l’alba. Preparativi rapidi e di nuovo in marcia. Si cominciava a salire. Un pallido sole seguiva incuriosito quella colonna di piccoli uomini che si arrampicavano sulla neve. Si camminava in fila indiana, in pattuglie di una decina di persone distanziati di una ventina di metri. I contatti erano mantenuti dai radio telefoni. Ogni tanto ci si fermava cinque minuti per riprendere fiato poi di nuovo verso la cima. Camminammo per ore lunghissime, avanzando lentamente nella neve. Fui chiamato al lavoro. Io ero in fondo alla colonna, dietro di me solo il tenente Sanseri come ufficiale di coda. Qualcuno si era sentito male avanti, molto avanti. Tutti si fermarono ed io cominciai a risalire con quel peso maledetto che mi stava sfondando le reni. Dopo un venti minuti ero a metà colonna e non avevo raggiunto il mio paziente. Non avrei mai immaginato che la fila si fosse così allungata. Un passa parola ( e i telefoni?) mi informò che l’infortunato si era ripreso da solo e la colonna ripartì. Una faticaccia inutile la mia. Mi fermai su uno spuntone di roccia a riposare. I regolamenti militari prevedevano in questo tipo di addestramento, una pattuglia di alpini sciatori a fare da apripista. Già dalla mattina presto un ufficiale e un gruppo di cinque esploratori erano saliti per studiare il terreno. Questi oltre al capitano Valeri, calzavano gli sci e portavano sulle spalle solo le loro razioni di cibo, l’arma individuale e il sacco a pelo. Portavano inoltre i due pezzi della barella da neve. Tutti gli altri calzavano racchette da neve e portavano, oltre l’attrezzatura personale e il fucile ( un Fai col calcio metallico retraibile), anche la loro croce. Io avevo il barellone, gli altri, gli specialisti e i capi pattuglia radio enormi (ben sei) della seconda guerra mondiale, fucili mitragliatori e mitragliatrici Breda (definito armamento leggero). Tutta roba che finiva col pesare un’iradidio specie in condizioni ambientali di estremo disagio. In realtà il peso è un fattore relativo se ben distribuito ma ci si può rompere la schiena con pochi chili se il carico non è stabile. La mia barella pesava da sola venticinque chili, l’avevo pesata in infermeria a Merano. Con tutto il resto il mio carico arrivava a trentacinque chili che continuavano a sbattere sulla schiena mentre le bretelle del bastio scavavano le spalle.

 

Parte ottava: Avevo perso la cognizione del tempo

Non ricordo nemmeno come fu. Mi ritrovai con la faccia dentro la neve. Sentii qualcuno che mi dava degli schiaffetti sul volto per farmi rinvenire, qualcun altro mi appoggiò una bustina di cognac sulle labbra. Aprii gli occhi e vidi il tenente Sanseri. -Su, Pastiglia, che ce la fai.- II tenente Sanseri era uno degli ufficiali più amati dagli alpini. Giovane, sempre allegro e pronto allo scherzo, trattava i soldati con umanità e, quando era il caso, se ne fregava allegramente dei regolamenti. Non approfittava del suo grado e i piccoli problemi li risolveva col buon senso e non con stupide punizioni. Mi rimisi in piedi e, dietro suggerimento dell’ufficiale, il mio zaino fu portato a turno da tutti i componenti della pattuglia. Tutti furono d’accordo che quel “coso” uccideva letteralmente. Non lo dico per giustificare la mia debolezza, non mi vergogno di essere svenuto per lo sforzo ma quel peso diede filo da torcere anche a gente più robusta e più abituata alla fatica. In fondo io ero solo uno studente di città che si trovava per la prima volta in montagna. Alla fine del giorno giungemmo al rifugio vicino ad un laghetto. Avevamo marciato per otto, dieci ore, penso. Avevo perso la cognizione del tempo. Il cielo era diventato di un grigio sempre più cupo e un vento dispettoso ci aveva spruzzato di nevischio. Appena arrivammo alla costruzione seminascosta nella neve, il tempo peggiorò e si mise a nevicare intensamente. Il vento aumentò d’intensità e le sue gelide carezze divennero rasoiate. Ci sistemammo nella baracca peggio della sera precedente. Con assoluto disprezzo per ogni legge fisica, in uno spazio sufficiente a malapena per trenta persone, ci sistemammo in oltre cento soldati con relativo materiale. Uno stanzino fu requisito dagli ufficiali che pretesero di dormire più comodi. Anche la legna fu utilizzata dal capitano per scaldarsi e prepararsi il caffè. Io mangiai una mela e un pezzo di formaggio dopo aver buttato via un panino che, per colmo di sfortuna, era stato bagnato da una perdita delle bottiglietta di tintura di iodio, sua vicina nello zainetto. 11 vento soffiò violento tutta la notte, una vera tormenta. Sembrava che fuori si fossero scatenati tutti i diavoli in un sabba infernale. Un rumore impossibile ma la stanchezza era troppa. Anche dentro non era un paradiso: la puzza dei nostri corpi, gente che russava o parlava nel sonno o si lamentava. L’impossibilità di muoversi, eravamo come sardine pressate in una scatoletta. Mi addormentai lo stesso.

 

Parte nona: Il capitano ordinò di proseguire

La mattina il tempo era appena migliore, continuava a nevicare ma il vento si era affievolito. Via quindi e seconda tappa. Camminavamo indifferenti allo spettacolo di paesaggi da fiaba. Seguivamo i tornanti della strada completamente sommersa dalla neve. Ogni tanto un palo segnaletico, un cartello stradale spuntava da sotto i nostri piedi. Faceva uno strano effetto vedere dall’alto un segnale magari di curva pericolosa. Costeggiammo altri due laghetti ma questo lo seppi dopo perchè erano completamente gelati e si perdevano in quel panorama da cartolina natalizia. Finalmente arrivammo al passo Gavia. Il tempo era di nuovo peggiorato e annunciava tempesta. Ma tirammo un sospiro di sollievo come un atleta alla fine di una maratona. Due rifugi, uno di fronte all’altro. Due grandi alberghi che promettevano una notte calda e comoda. Erano chiusi ma non sarebbe certo bastata una porta a fermarci. Il capitano ordinò di proseguire. Ancora avanti. Vedemmo sparire le costruzioni alle nostre spalle con un senso di frustrazione.
Il vento aumentava d’intensità ed anche la visibilità era sempre più scarsa. Camminavamo quasi sospesi in un nulla candido. Il bianco era sopra, sotto, intorno a noi. Forse eravamo angeli perduti. Un altro rifugio. -Speriamo sia la volta buona – pregò una voce anonima. Eravamo stanchi, a pezzi. Fra poco sarebbe stata notte e il freddo era insopportabile. Il capitano Valeri diede l’alt alla colonna. Gettammo gli zaini a terra e il tenente Sanseri con alcuni alpini armati di piccozze e pale si apprestavano a sfondare una porta quando il capitano gelò tutti con un ordine secco. -I soldati devono dormire nella neve. Lo dice il regolamento – Il tenente cercò di mettere in discussione l’ordine ma il capitano fu tassativo: – Prendete la pale e cominciate a scavare- Mentre i due discutevano io fui chiamato al mio servizio. Accasciato sopra il suo zaino un alpino rantolava vinto dalla fatica. Gli prestai i primi soccorsi e lo sistemai al riparo (si fa per dire) dietro la vicina chiesetta. Quel ragazzo stava male davvero e io non sapevo cosa fare. Gli altri intanto costruivano gli igloo per la notte. I miei amici cercavano invece di sistemare l’impianto radio e di farlo funzionare. Dalla sera prima avevamo perso ogni contatto col campo base. – Sei radio e nessuna che serva ad un cazzo – Bianciardi aveva perso tutta la sua calma ed era furibondo.

 

Parte decima: Il tenente occupato a studiare le crepe dell’intonaco

Con la fortuna che assiste gli stronzi, il capitano aveva trovato una porta aperta nel rifugio. Uno stanzino, una legnaia di pochi metri quadrati, dove poteva stare comodamente per la notte. Il tenente Sanseri, preoccupato, faceva la spola tra i telegrafisti e il soldato che stava male, indeciso a tutto. Le sue imprecazioni si perdevano nel vento. Il ragazzo era sul punto di perdere conoscenza. Aveva bisogno di stare in un posto caldo e asciutto: la legnaia del capitano Valeri. – Cos’ha quell’alpino?- – Non lo so, signore- – Ha la febbre ?- -No- – Allora può dormire insieme agli altri.- – Non mi sembra il caso – intervenne il tenente. Il capitano si rivolse a me con l’espressione carogna che tutti temevamo: – Cosa credi che abbia?- – Non sono un medico, signore. Non posso assumermi la responsabilità di una diagnosi- L’avessi mai detto. Il capitano esplose: – Secondo me quel soldato non ha niente. Qui tu sei l’unica persona che abbia a che fare con la medicina quindi decidi. Ma se sbagli te la faccio pagare cara- II capitano Valeri manteneva sempre le sue promesse. Mi rivolsi verso il tenente in cerca d’aiuto. Ma lui sembrava intento a studiare le crepe dell’intonaco. – Allora ?- – Per me ha bisogno di stare al caldo- – Bene, portalo dentro –  Uscii accompagnato dal tenente. Appena fuori mi disse: – Ragazzo, hai le palle. Auguri – Sistemammo l’alpino nella legnaia mentre il capitano continuava a promettere tutte le punizioni del mondo a quel finto malato e a quell’imboscato d’infermiere. Noi imboscati dei servizi fummo gli ultimi a costruirci il rifugio. I miei amici avevano perso un sacco di tempo nell’inutile tentativo di far funzionare le radio. Un mucchio di rottami inservibile e noi a romperci il culo per portarceli dietro. Giannini non smetteva un attimo di lamentarsi. Era buio ormai e il vento era carico di freddo e di cattiveria. – Anche il tempo ce l’ha con noi. Minimo siamo a venti gradi sottozero. – Giannini era un flusso continuo. – E tu come fai a saperlo?- Gli chiese Rovelli. – Semplice, mi si è sigillato il buco del culo- rispose Giannini poi, rivolto a me: – Pastiglia, anche in Sardegna fa questo freddo?- Non gli risposi, non mi piaceva essere chiamato “Pastiglia” anche se era un vizio comune chiamare così tutti gli infermieri. Come Dio volle anche il nostro rifugio fu pronto. – Benvenuti al Grand Hotel e ricordate che qui non sono ammessi nè cani nè puttane.- Ci infilammo completamente vestiti nei sacchi a pelo. Io feci la stupidaggine di lasciare fuori gli scarponi perchè troppo bagnati così la mattina dopo dovetti ammorbidirli picchiandoli col calcio del fucile. Mangiammo la nostra lauta cena e ci mettemmo a raccontare barzellette per tenerci allegri. – Mi raccomando ragazzi non scoreggiate.- Ordinò Giannini. – Da quando le tue nobili narici temono i rumori del culo?- replicò Rovelli. – Non è questo. Siamo tre giorni che non caghiamo. Qui se qualcuno apre le valvole ci troviamo nella merda- Poi anche il buonumore se ne andò. Troppo freddo e fuori, l’urlo della tempesta non invitava all’ottimismo.

 

Parte undicesima: Ogni tanto si masticava un pezzo di pollo tonnato

Portelli cominciò a parlare della sua morosa con una tenerezza che zittì anche Giannini. Ognuno si chiuse nei propri ricordi. Io non avevo nessuna ragazza che mi aspettava a casa, niente da rimpiangere. Intanto qualcuno aveva riempito un gavettino di neve e lo stava facendo sciogliere alla fiamma di una candela (faceva parte della dotazione standard individuale) il nostro impianto mobile di illuminazione. Appena sciolta, avanza un dito (in orizzontale) d’acqua. Vi si spremeva mezzo limone (ecco a cosa serviva!) e a turno ciascuno di noi si bagnava le labbra. Ripetemmo quell’operazione varie volte; la sete, oltre al freddo, era il nostro peggior nemico. Da due giorni non bevevamo altro, le borracce s’erano vuotate subito e quando le labbra erano secche e la lingua s’incollava al palato, ci si riempiva la bocca di neve e salute. Chiacchierammo per un bel pò. Ogni tanto si masticava un pezzo di pollo tonnato (mai sentito nominare nella mia vita precedente) che prendevamo da un tubo lungo trenta centimetri, pieno di una polpa marrone senza odore e senza sapore. Con la fame che avevamo ci saremmo mangiati anche il tubo. Giannini faceva piani e progetti per quando saremmo arrivati a Santa Caterina Valfurva: – Ci sono le ragazze così e stanno aspettando con ansia il caporal maggiore Riccardo Giannini- – Come no. Sono tutte con le mutande in mano – rispondeva Rovelli. Infine il sonno ci colse sull’ultimo mozzicone di candela. La sveglia ci presentò una giornata linda e senza nuvole. La tempesta notturna aveva liberato il cielo. Fra poco sarebbe uscito il sole, un pericolo preoccupante perchè in quelle condizioni ambientali c’era il rischio di valanghe o di slavine. Ma era l’ultimo giorno di marcia. Eravamo già pronti alla partenza quando si scoprì che sette alpini mancavano all’appello. Erano ancora addormentati nel loro buco sotto la neve e neanche le trombe del Signore li avrebbero svegliati. Il capitano, ricordando le sue origini toscane, riuscì a trovare imprecazioni non ancora brevettate ma diede l’ordine di partire ugualmente. I ritardatari avrebbero raggiunto la colonna a costo di spaccarsi le gambe. Bisognava approfittare del tempo buono prima che il sole salisse alto nel cielo. Il tenente Sanseri rimase ad aspettare con un paio di soldati. La pattuglia degli assonnati raggiunse la coda del reparto dopo un’ora grazie al fatto che c’era stata una pausa imprevista. Il capitano Valeri era scivolato in un crepaccio e, con nostra grande delusione, non s’era fatto niente. C’era voluto parecchio tempo a recuperarlo e intanto il sole cominciava a scaldare. Eravamo in ritardo sulla tabella di marcia e un passaggio difficile aggravò la situazione. La neve era estremamente friabile e si dovette costruire una passerella per permettere il passaggio dei soldati. Il nostro sogno di essere a Santa Caterina Valfurva per mezzogiorno svanì. Si camminava di buon passo malgrado le racchette che sprofondavano nella neve molle, il sole ci dava energia dopo tanto freddo. Il pensiero di essere alla fine della nostra fatica e la strada ormai definitivamente in discesa ci spingeva avanti ulteriormente. Le pattuglie erano molto distanziate tra loro, anche centinaia di metri, c’era il rischio di slavine. La mia squadra aveva perso il contatto visivo con quella che la precedeva. Io mi trovavo nel penultimo gruppo, l’ordine di marcia si era un pò confuso con tutti quegli imprevisti e le pattuglie si erano ricomposte in base alla velocità di marcia dei singoli. La mia squadra era troppo lenta per la mia voglia di arrivare ma tanto io dovevo stare in coda. In fondo alla valle si vedevano le prime case e i segni della vita beata dei turisti.

 

Parte dodicesima: La slavina

Girammo un costone quando un rumore sordo ci colpì. Sul momento non capimmo cosa stava succedendo poi un sergente AUC si mise a urlare a squarciagola. Ci mettemmo a correre giungendo sul ciglio di una vallata dove sembrava si fosse abbattuto un terremoto. La neve era sconvolta e decine di alberi erano spezzati. Una slavina si era portata via una pattuglia di commilitoni. Abbandonammo gli zaini e con le piccozze ci buttammo a rottadicollo giù nella scarpata. Alcuni alpini stavano già scavando, le altre pattuglie stavano tornando indietro. In pochi minuti ci trovammo in una trentina di persone a bucare il fianco della montagna. Quattro li recuperammo subito, i loro corpi erano semi sommersi nella neve. Il quinto fu trovato più tardi, intontito ma ancora vivo. Sembrava tutto a posto quando si sparse la voce che ne mancava uno all’appello. La massa nevosa aveva inghiottito gli alpini così velocemente che non c’era stato il tempo di sciogliere il cordino da valanga. Nessuna traccia dello scomparso. Ci mettemmo a scavare furiosamente. Un sergente scavava a mani nude piangendo ed imprecando. Lavorammo come dannati ma del disperso non c’era alcuna traccia. Poi finalmente una voce gridò. Era passata poco più di mezz’ora ma a noi era sembrato un tempo infinito. Mi precipitai ai piedi di un albero spezzato e dalla neve vidi spuntare un piede. Scavammo delicatamente per liberare il corpo ma capii subito che non c’era più niente da fare. Il cuore aveva ceduto. Guardavo quegli occhi spalancati in un urlo silenzioso di terrore. Non avrei mai immaginato che la morte avesse il volto di un ragazzo di vent’anni come me. – Dai Pastiglia, fa qualcosa! – urlò disperato un amico. Cosa potevo fare? Troppo tardi. Ero una statua di ghiaccio senza più pensieri. Un ragazzo si gettò sul corpo esanime quasi volesse riscaldarlo. Mi staccai dal gruppo e cominciai a risalire la ripida scarpata per andare non so dove. Vidi che infilavano il cadavere nel mio sacco a pelo; vidi volare per aria le mie calze di lana che mia madre mi aveva mandato e che avevo messo ad asciugare nel sacco a pelo; vidi la mia inutile barella buttata da una parte; vidi lo zainetto aperto e i medicinali sparsi sulla neve. Non c’era nulla che poteva servire. Mi ritrovai seduto sopra una roccia a piangere. Come un bambino. Poi qualcuno mi scosse con delicatezza, mi mise una sigaretta tra le labbra e disse: – Vieni, c’è del lavoro per te – Raccolsi il mio zainetto e i medicinali.

 

 

Parte tredicesima:Ritorno alla vita

Il sergente ed alcuni alpini che avevano scavato a mani nude avevano un principio di congelamento. Il posto si popolò di gente; arrivarono squadre di soccorso, sciatori, il gatto delle nevi. Un elicottero partito da Bolzano sorvolava la zona. Giunse anche un medico, un sottotenente di cavalleria che conoscevo perchè era amico del mio sottotenente medico. Gli feci un breve resoconto dell’accaduto. Lui mi disse: – Tranquillo, hai fatto il massimo possibile- Poi decise di fare un’iniezione al cuore al povero ragazzo. Più che altro per uno scrupolo. Erano trascorse ormai due ore dalla morte. Seppi in seguito che il ragazzo era morto subito. Gli era letteralmente scoppiato il cuore. La fatica, la paura. Chissà. Fummo radunati, o meglio, ammucchiati in uno spiazzo. Una confusione totale, ufficiali di tutti i gradi erano spuntati dal nulla, ordini che andavano e venivano. Nessuno sapeva cosa fare mentre un centinaio di ragazzi di vent’anni muti, sporchi, affamati e instupiditi aspettavano qualcosa. Ci fu una vibrazione sotto i nostri piedi, la massa di neve si mosse leggermente ma rimase al suo posto. Caricammo i nostri zaini sui gatti delle nevi e, alla spicciolata, cominciammo a scendere a valle. L’elicottero continua a volare in tondo; forse volevano contarci dall’alto, certo che sembravamo tutto fuorché un reparto dell’esercito italiano. A pochi chilometri da Santa Caterina incrociammo un gruppo di ragazze che sciavano lungo la pista. – Bella! Me lo dai un passaggio?- Giannini ci stava provando – – Se riesci a saltare sopra i miei sci- rispose una ridendo. Le guardammo in silenzio fino a quando l’ultima sparì dietro la curva. – Non so cosa ne pensate voi ma quello era un Culo con la C maiuscola- sospirò Giannini. Si tornava a vivere.

 

 

 

Nota dell’autore

Il comando militare aveva dato l’ordine di sospendere tutte le esercitazioni invernali per le pessime condizioni ambientali. Noi non ricevemmo mai l’ordine. I giornali e la televisione diedero la notizia che un reparto di alpini era stato dato per disperso sulle montagne delle Alpi a causa di una tormenta. La notizia provocò collassi e malesseri vari in tutte le mamme (compresa la mia). II soldato morto, dopo una breve cerimonia nella chiesa di Santa Caterina, fu caricato su un camion e con la scorta di dieci commilitoni, riportato al suo paese. Il finto malato fu congedato dopo un mese. I medici gli avevano riscontrato un grave difetto cardiaco non rilevato durante la visita di leva. Probabilmente stare al caldo gli aveva salvato la vita. Il capitano Valeri, nei mesi successivi, ogni volta che doveva spostarsi con la sua compagnia, non richiedeva un infermiere qualunque. Voleva il “sardo”. La mia solita fortuna.

 

l'alpinoLeo

 

Dal racconto “romanzato” alla realtà

Sul sito dell’Associazione Alpini di Conegliano è presente la seguente notizia storica:

“10 febbraio 1968. In Valfurva, una slavina di notevoli proporzioni si è abbattuta il 10 febbraio su una pattuglia della 52° compagnia del battaglione Edolo del 5° Reggimento Alpini. Proveniente da santa Apollonia, poco distante da Pontedilegno, la pattuglia era in marcia di trasferimento a piedi da oltre dieci giorni e aveva raggiunto il passo Gavia a quota 2621.La sciagura è avvenuta durante la discesa verso Santa Caterina Valfurva, durante un passaggio obbligatoria. Nell’incidente sono stati coinvolti sei alpini: Walter Pederzoli di Darfo( Brescia) che è rimasto ucciso, Roberto Brisoni di Voghera che ha avuto una caviglia fratturata mentre altri alpini  sono stati estratti illesi”

GAVIA 3

(*)

Mi chiarisce l’autore che il racconto può avere molte chiavi interpretative. Leo non ha mai amato armi e divise ma gli alpini li ha sempre considerati soldati speciali. Non crede esista in nessun esercito del mondo un corpo militare simile. Per quanto riguarda il capitano Valeri (nome inventato), mi spiega anche  – avvalorando in questo modo l’ipotesi che il racconto sia realmente autobiografico – che non era un uomo cattivo ma solo un militare fanatico che applicava i regolamenti alla virgola. L’averlo  voluto in seguito in tutte le sue missioni era solo un modo per esprimere stima e fiducia nell’ operato dell’ infermiere isolano. Lo considerava un buon soldato e da allora in poi non mise mai in discussione le sue, per così dire, “diagnosi” mediche.

 

Per saperne di più sul PASSO DI GAVIA:

http://it.wikipedia.org/wiki/Passo_di_Gavia

Cultura a Sorso: dalle parole ai fatti

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di Piero Murineddu

L’attuale Amministrazione di Sorso, con la collaborazione dell’Università di Sassari e la Soprintendenza Archeologica (per iniziativa di questi ultimi due o dello stesso Comune?), ha deciso di riprendere i lavori di scavi nella villa romana di “Santa filitica”.  L’Assessore alla Cultura e al Turismo afferma solennemente che “è intento dell’Amministrazione valorizzare i siti d’interesse culturale, di cui il nostro territorio è ricco”. Impegnativo proclama già sentito in epoche diverse  e quasi venuto a noia (vedi sopra le parole di un ex sindaco di Sossu). Pur tuttavia, se si traducessero realmente in atti concreti, ci sarebbe da sacrificare tutte le proprie convinzioni politiche personali (a partire dalle mie: lo giuro!), e dare l’appoggio (condizionato, molto condizionato! E  sopratutto…controllato!!) all’odierna Amministrazione che in questi anni dovrà occuparsi delle sorti di noi sussinchi.

Necessariamente, questo “intento di valorizzazione” si deve allargare non solo ai siti archeologici, ma abbracciare il vasto ambito della Cultura. E qui la cosa rischia di complicarsi ulteriormente. Per esempio:

1. Si ritiene importante la conoscenza e la divulgazione della nostra Storia locale, attraverso Convegni e nelle scuole? Si ritiene importante la conoscenza dei nostri Personaggi illustri, letterati e artisti, magari organizzando un intelligente e stabile percorso museale nei luoghi dove hanno vissuto, come qualche tempo fa ebbe modo di proporre Leo Spanu (*) dalle pagine de “Il Corriere Turritano”?

2.Si ritiene importante la valorizzazione della locale Biblioteca Comunale,organizzando iniziative periodiche che invoglino alla lettura, anche in luoghi simbolo di Sorso?

Se si, lo si faccia, perDinci, perBacco e specialmente… perSossu!!

Naturalmente, se si ha a cuore la promozione della Cultura, si dovrebbe operare a vasto raggio, comprendendo tutti gli aspetti della convivenza, che diciamo “civile”, ma che per molti aspetti stiamo incivilizzando sempre più. Un’impresa molto ardua, questa. Responsabilità primaria è di chi è stato delegato a questo compito (Amministratori,insegnanti e agenzie educative in genere), ma ogni cittadino è chiamato a questa responsabilità, con la convinzione che il personale impegno (o disimpegno!), va a beneficio (o a scapito!) di tutti, specialmente dei nostri figli.

 

(*)  A proposito del Leo sorsincomanonancoracompletamente, spulciando negli antichi ragnatelosi e polverosi archivi nascosti sotto l’attuale Biblioteca Comunale e inacessibili ai più (come continua ad essere inacessibile l’attiguo anfiteatro de La Billellera, cazzumacazzumacazzumacaaaaazzuuuu!!!!!),vengo a sapere che tantissimi anni fa, pensandolo un barbaresco malintenzionato ( nonostante la sua esile e fragile figura, mischinetto!), un suo antenato fu fatto oggetto di scherno e di minacce da parte del “branco”,  rozzi discendenti di tal Gelithon, nipote dell’allora celebre re degli Ilioti. L’inoffensivo ragazzotto fu preso alla sprovvista, non sospettando minimamente che nel luogo dove viveva la gentil donzella che di nome facea Lorenzella (sindacalista ante litteram) della quale si era invaghito,  non sospettando – dicevo – che ci fossero individui capaci di simil arroganza e vigliacca violenza. L’amata corse in suo aiuto, e con un grosso bastone e con alte grida fece disperdere i malintenzionati, salvandolo così da chissà quali gravi conseguenze. Ci provassero ora a fare una cosa del genere! A parte che il Leo li fulminerebbe con un sol baffuto e terrificante sguardo, eppoi sarei il primo ad accorrere in suo soccorso, seppur coi miei fragili e insignificanti muscoletti.

 

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“FORZA e CORAGGIO”, dunque!

di Piero Murineddu

Cercando notizie di persone che non ci sono più e che hanno lasciato significativi e forse utili segni per i posteri, vengo a conoscenza anche di belle iniziative “editoriali” capitate nel paesotto sardo dove vivo, Sorso.

Ho già parlato in precedenza dell’esaltante esperienza di “Orizzonte,”. Grazie al quasi casuale e graditissimo incontro avuto con un vecchio amico, radiologo e  coetaneo, MARIO VACCA, m’imbatto in un’altro giornaletto, anche questo troppo passeggero: “Forza e Coraggio“, periodico sportivo  ma con qualche tentativo di occuparsi anche di altro. Poche pagine senza pretese e molto “fatto in casa”. Giusto pochi numeri, pubblicati nel lontano 1974 e realizzati col vecchio ciclostile molto “manuale” di una volta che si trovava in quello che è stato il  CSEP, Centro Sociale di Educazione Permanente, ospitato in un piano delle scuole elementari del paese. A proposito, si aspetta e si spera che qualcuno che ha fatto  questa per certi versi gloriosa esperienza, si decida a parlarne.

“Forza e Coraggio”, titolo anche questo come “Orizzonte”, che voleva essere evidentemente un programma e, almeno da un’occhiata veloce, non circoscritta al solo mondo del calcio. Non ho difficoltà ad ammettere che a me del calcio non è mai importato un fico secco, salvo quei lontanissimi anni giovanili in cui anch’io stavo dietro alla rotolante sfera, di gomma o di altro materiale. Le rarissime volte che mi capita di comprare “La Nuova Sardegna”, continua a rimanermi l’impressione di regalare almeno la metà del suo costo, dal momento che salto completamente le troppe pagine dedicate allo sport e al calcio in modo particolare. Ma comunque, ad ognuno i suoi gusti.

Oltre alle firme riconducibili a persone conosciute, altri articoli del giornaletto sono firmati con nomi fittizi.

Di alcune pagine ho fatto la scansione, mentre una, visto l’argomento, ho avuto la pazienza di ribattere il testo, utile al confronto di come si era allora e di come siamo oggi.

 

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umiliati e offesi

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LA POVERTÀ È UN’IDEOLOGIA?

di P.A.

La povertà non è miseria.Povertà è una ideologia, politica ed economica. Povertà è godere dei beni minimi, quali il cibo,il vestiario, la casa.. Povertà vuol dire, soprattutto, rendersi esattamente conto (anche in senso economico) di ciò che si compra, del rapporto tra qualità e prezzo. Povertà vuol dire rifiutarsi di comprare robaccia, roba che non dura niente e non deve durare in omaggio alla sciocca legge della moda e del ricambio dei consumi per mantenere o aumentare la produzione. Povertà significa in definitiva conoscere gli imbrogli e protestare, rifiutare, rendersi conto delle cose che ci sono utili e anche dilettevoli.. Moltissime persone non sanno più distinguere la lana dal nylon, il vitello dal manzo, un cretino da un intelligente, un simpatico da un antipatico… perchè la nostra sola cultura è l’uniformità piatta e rozza dei volti, delle voci e del linguaggio televisivo. Il nostro paese compra e basta. Si fida in modo idiota di Carosello e non dei propri occhi, della propria mente,del proprio palato,delle proprie mani e del proprio denaro. Il nostro paese è un solo mercato di nevrotici tutti uguali, poveri e ricchi, che comprano, comprano senza sapere nulla e poi buttano via e poi ricomprano. Il rostro paese è un enorme bottega di stracci non necessari (perchè sono stracci quelli che vanno di moda), costosi e obbligatori.Noi non consumiamo soltanto in modo ossessivo, noi ci comportiamo come degli affamati nevrotici che si gettano sui consumi in modo nauseante. Lo spettacolo dei bar di massa è insopportabile, La quantità dei prodotti da consumare è enorme, altro che aumento dei prezzi, altro che risparmio.La crisi? Ma quale crisi? Le botteghe degli stracci (scusate, abbigliamento) rigurgitano,se la benzina aumentasse a mille lire tutti la comprerebbero ugualmente. Si farebbero scioperi per pagare la benzina. Tutti i nostri ideali sono concentrati nell’acquisto insensato di oggetti e di cibo.

La povertà è il contrario di tutto questo: è conoscere le cose necessarie. Si rischia di cadere in eresia per la massa ovina dei consumatori dicendo che la povertà è anche salute fisica e libertà. Teniamola dunque come un bene personale, una proprietà privata, una ricchezza, un capitale: il solo capitale nazionale che ormai salverà il nostro paese.

“Cumenti mi piazzi mi n’andu!”

Provate un po’ a leggere che dopo ne parliamo

 

ALTRI TEMPI 001

 

 

 

Letto? Bene. Non so voi, ma io, leggendo questo raccontino stamattina in treno al rientro dal lavoro, ho rischiato di scoppiare in una fragorosa e irrefrenabile risata. Ho dovuto faticarefaticaremafaticaaaaaaare per contenermi. Anzi, in un momento, ero tentato di dar libero sfogo alla mia anarchica stravaganza : alzarmi in piedi, richiamare l’attenzione di tutti e leggerlo a voce alta. Si, veramente. Sono sicurissimo che avrei fatto la mia opera buona quotidiana, aiutando tutti gli studenti presenti a dimenticare lo stress accumulato in tutta la mattinata, costretti a stare in un’aula scolastica e sopportare l’insegnante 57enne racchiona e capelli tinti che non ha smesso un attimo di spaccare i giovani cabasisi e di far andare di traverso l’emissione di sangue  delle povere giovinette mestruate perse. Nello scompartimento c’erano anche dei lavoratori, ma quelli erano già di buon’umore per le sei ore trascorse davanti al pc concentrati sul solitario con le carte e facendo ogni mezz’ora capannello davanti al distributore di caffè sparlando degli altri colleghi assenti e specialmente del capoufficio. PurtroppoOmenomale sono riuscito a controllarmi, e l’unica persona che insieme a me ha goduto di ciò che leggevo è stata la ragazza che mi sedeva davanti, divertita nell’osservare un vecchietto come me, solitamente distrutto dalla fatica e dal cattivo esempio dei politici da strapazzo, che se la rideva da solo.

(Piero Murineddu)

PERCHE’ AMO GLI ZINGARI (di Rita Clemente)

 

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Amo gli zingari
perché sono allegri
mi mettono di buonumore
perché sanno ballare
perché suonano musiche divine
sanno vestire di raso
e gioielli luccicanti
con poco prezzo
Perché di uno straccio
sanno fare un drappo prezioso.

Amo gli zingari
perché non conoscono confini
Ogni terra è la loro terra
Perché sanno le parole essenziali
di tutte le lingue
perché non hanno paura del futuro
e, malgrado gli esili
cui sono costretti,
sanno sempre come rialzarsi
e intraprendere un nuovo viaggio.
Perché pregano il Dio di tutte le fedi.

Amo gli zingari
perché sono esseri umani
come me, come voi,
e amano e soffrono
e odiano e cantano
litigano e fanno la pace
esattamente come me e come voi
Perché sono buoni e cattivi
giusti ed ingiusti
gentili e scontrosi
esattamente come me e come voi.

E infine amo gli zingari
perché una volta, per strada,
una zingara mi ha impedito di cadere
tenendomi salda per un braccio,
perché un’altra mi ha regalato
un bouquet di fiori di stoffa
e un’altra ancora
un cuscino ricamato
e ancora un’altra
mi ha regalato un braccialetto.

Amo gli zingari
perché è l’unico popolo
che non ha mai fatto una guerra.

 

Le quattro candele

 

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Le quattro candele, bruciando, si consumavano lentamente.
Il luogo era talmente silenzioso,
che si poteva ascoltare la loro conversazione.

La prima diceva:
“IO SONO LA PACE,
ma gli uomini non mi vogliono:
penso proprio che non mi resti altro da fare
che spegnermi!”
Così fu e, a poco a poco,la candela si lasciò spegnere completamente.

La seconda disse:
“IO SONO LA FEDE
purtroppo non servo a nulla.
Gli uomini non ne vogliono sapere di me,
non ha senso che io resti accesa”.
Appena ebbe terminato di parlare, una leggera brezza soffiò su di lei e la spense.

Triste triste, la terza candela a sua volta disse:
“IO SONO L’AMORE
non ho la forza per continuare a rimanere accesa.
Gli uomini non mi considerano
E non comprendono la mia importanza.
Troppe volte preferiscono odiare!”
E senza attendere oltre, la candela si lasciò spegnere.

…Un bimbo in quel momento entrò nella stanza
e vide le tre candele spente.
“Ma cosa fate! Voi dovete rimanere accese,
io ho paura del buio!”
E così dicendo scoppiò in lacrime.

Allora la quarta candela, impietositasi disse:
“Non temere, non piangere:
finchè io sarò accesa, potremo sempre
riaccendere le altre tre candele:
IO SONO LA SPERANZA”

Con gli occhi lucidi e gonfi di lacrime,
il bimbo prese la candela della speranza e riaccese tutte le altre.

 

CHE NON SI SPENGA MAI LA SPERANZA
DENTRO IL NOSTRO CUORE…

…e che ciascuno di noi possa essere
lo strumento, come quel bimbo,
capace in ogni momento di riaccendere
con la sua Speranza,
la FEDE, la PACE e l’AMORE.

Eutanasia e Vita secondo Leo Spanu e Vito Mancuso

di Piero Murineddu

Il caro vecchio Leo, quello che si considera sempre dalla “parte sbagliata”, considerandola  una vera e propria  scelta di vita perchè  quelli dalla “parte sbagliata” sono i più deboli, che hanno sempre torto, i vinti. Seppur coi limiti delle sue forze, coi suoi scritti cerca di dare voce a chi non sa o non può parlare.  Non s’illude di poter cambiare il mondo, ma semplicemente raccontare la vita, la sua e quella degli altri,essere la buona o la cattiva coscienza di chi vuole ascoltare.

Questa volta  mi trascina in un argomento – come dice lui – “spinoso”, premettendo che probabilmente  sarà in disaccordo col mio pensiero. Cosa tutta da vedere, questa. Ma di che si parla ‘sta volta? Probabilmente avete seguito la vicenda di quella giovane 29enne americana affetta da un tumore al cervello che ha deciso di porre fine alla sua vita, Brittany Naynard. Prima di assumere un cocktail di farmaci letali, attraverso Facebook aveva motivato con queste parole la sua decisione:

Addio a tutti i miei cari amici e alla mia famiglia, che amo. Oggi è il giorno che ho scelto per morire con dignità, davanti alla mia malattia terminale, questo terribile cancro che ha portato via così tanto da me, ma che avrebbe preso ancora di più. Il mondo è un bel posto, il viaggio è stato il mio maestro più grande, i miei amici più stretti e miei parenti sono le persone più generose e altruiste. Ho anche un cerchio di supporto intorno al mio letto, mentre scrivo… Addio mondo. Spargete buona energia. Siate generosi, pagate in anticipo per restituire ad altri il bene che ricevete “.

Eutanasia e fine vita dunque, tema che ci tocca tutti. Puntualizzo che una cosa sono le posizioni ideologiche e di principio, un’altra è l’esperienza diretta o di una persona a noi vicina. Della sofferenza, specialmente quella fisica, e di quell’altro misterioso stato detto “vegetativo”. Che penso io? Mi creo un intenso silenzio interiore, sforzandomi di osservare e ascoltare con estremo rispetto.

Dice Leo che “la vita è amore, è arte, è bellezza, è sete di conoscenza, è allegria”. Caro Leo, su questo mi viene difficile concordare. Ciascuno conosce anche tristezza, ignoranza, disamore, insoddisfazioni, incomprensioni, ingiustizie, guerre, fallimenti…… Anche queste cose fanno parte della vita, e quando ci si da da fare per superarle, sono motivo di crescita, di gratificazione, di gioia, di ….rinnovo della Creazione. Sperimentare insomma quella “resurrezione”, quel “passaggio” che non riguarda solo il Destino Futuro di ogni essere vivente, cosa  indicataci specialmente da Gesù Cristo. Quando ci si imbatte in queste situazioni, seppur poco gradite, sono ugualmente condizioni di vita, e di vita molto reale. Vita non è solamente quando tutto procede secondo i nostri desideri e aspettative.

Alle considerazioni di Leo Spanu che leggerete, faccio seguire la posizione del teologo Vito Mancuso, considerato da

http://www.agoravox.it/Eutanasia-risposta-a-Vito-Mancuso.html

uno gnostico e come tutti gli gnostici il suo obiettivo è attirare le persone a sé e non a Cristo, creare confusione nei credenti per staccarli dalla Chiesa cattolica. Per questo, nonostante continui a dirsi cattolico, nella sua carriera non ha mai scritto nulla a favore della Chiesa”.

Drastico  giudizio su cui fatico parecchio a riconoscermi, in quanto credo che essere seguaci del Messaggio Evangelico non vuol dire assolutamente pensarla allo stesso modo su tutto ciò che riguarda le vicende della vita (e della morte!)

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Eutanasia di un amore

di Leo Spanu

Nel 1977 lo scrittore Giorgio Saviane vinse il premio Bancarella col romanzo “Eutanasia di un amore”. L’anno dopo Enrico Maria Salerno ne ricavò un film di grande successo con lo stesso titolo, protagonisti Tony Musante e Ornella Muti. Un film mieloso e melenso da un romanzo mediocre. Da cancellare tutto e subito dalla memoria se non fosse per quel titolo che attirò la mia attenzione. Due termini apparentemente inconciliabili e antitetici: eutanasia e amore. La negazione della vita il primo e l’esaltazione della stessa il secondo. Apparentemente. Infatti i dubbi che ho sempre avuto sul senso di questo binomio oggi si sono sciolti definitivamente. E’ bastato poco: Brittany Naynard, la giovane americana dal dolce sorriso, malata in fase terminale, ha deciso di chiudere la sua esistenza anticipatamente. Molta stampa ha parlato di “suicidio” assistito. Niente di più sbagliato. La scelta di Brittany  ci parla e ci racconta di un grande amore per la vita. Il suicidio è quasi sempre, credo, un momento di fuga. Non esprimo mai giudizi di merito in questi casi perché non sono in grado di capirne le motivazioni ma, ogni volta che leggo di un suicidio, anche di persone totalmente sconosciute, provo un profondo senso di tristezza insieme ad affetto e solidarietà come per un amico che se ne va. Per chi non può più sopportare il  dolore, per chi precipita nell’inferno della sofferenza non valgono le leggi degli uomini o di Dio per i credenti.

Non possiamo decidere quando nascere ma possiamo decidere quando andarcene. E’ un diritto inalienabile di ciascun individuo, l’espressione più alta e terribile della libertà. Chi siamo noi per imporre ad un nostro simile sofferenze inaudite in nome di norme e dogmi assoluti? Chi ci ha dato il potere di giudicare e condizionare la vita degli altri? A volte mi capita di vedere in TV dei servizi sui malati di SLA. Non ascolto mai  le parole dette, mi concentro su quei poveri corpi incapaci spesso anche di parlare, solo leggeri movimenti degli occhi, e mi chiedo:  condividono tutte le cose dette in loro nome o invece urlano dentro il loro mondo di silenzio. Lo spettacolo, perché questo spesso diventa, della sofferenza esibita senza pietà, mi spaventa. Il dolore ha bisogno di rispetto, di comprensione, di riservatezza.

Invece mi pare che ci sia una specie di compiacimento nel mostrare persone in difficoltà e situazioni terribili. Anni fa, ho dedicato molto tempo alla lettura di libri che trattavano della seconda guerra mondiale, delle sue degenerazioni, di quella mostruosità che è stato il nazismo. Decine e decine di libri di vari autori per capire le ragioni che hanno portato un popolo civile come quello tedesco a creare Auschwitz. Non ho capito. Ho provato anche a guardare le immagini di quella tragedia ma ho smesso subito. Mi sono sentito male. Ancora oggi evito certe immagini perché l’angoscia mi toglie il sonno e l’appetito. Ma sarebbe il minimo: infatti provo un senso di vergogna perché quelle azioni sono state volute da uomini come me. Appartengo quindi ad una razza che pratica scientemente il male e spesso se ne vanta. E’ possibile dimettersi dalla razza umana? A volte mi vengono queste tentazioni magari quando i militanti dell’Isis decapitano gli ostaggi in diretta.

Brittany invece ci lancia un messaggio d’amore. Per il marito, per i familiari, per gli amici, per le cose che avrebbe voluto fare, per i sogni che non potrà realizzare. Amore per la vita perché questo è la vita: è amore, è arte, è bellezza, è sete di conoscenza, è allegria. Allora perché cancellare tutto questo per guadagnare un mese o sei di terribile agonia. In nome di quale principio devi maledire tutto quello che fino al giorno prima eri tu? Perché il dolore ti cambia, ti trasforma. Il dolore è una bestia cieca e feroce che spazza ogni residuo di umanità.

A me piace immaginare Brittany col suo dolce sorriso di oggi, non con i lineamenti del viso stravolti dalla sofferenza fra qualche mese. Mi piace ricordare le persone care con il volto dei giorni felici non con una maschera di dolore. Perché la morte è nell’ordine naturale delle cose, non dovrebbe far paura. Allora che sia una dolce morte, tenendo per mano la persona che ami e con gli occhi rivolti ad un cielo azzurro e senza nuvole.

Da teologo dico sì alla libertà di scelta sul fine vita

di Vito Mancuso

Alleviare la sofferenza sempre, in ogni caso laddove sia possibile. Rispettare  libera autodeterminazione della coscienza sempre, con senso di solidarietà e di vicinanza umana. È questo il duplice punto di vista a partire dal quale a mio avviso occorre disporre la mente di fronte al grave e urgente problema dell’eutanasia o suicidio assistito.

Alleviare la sofferenza è la forma più misericordiosa di rispetto per la vita. Io non ho dubbi (e penso che in nessuna persona responsabile ve ne siano) sul fatto che la vita vada rispettata sempre e che la vita sia qualcosa di sacro. È la stessa conoscenza scientifica ad attestarci mediante i suoi dati che la vita è un fenomeno stupefacente, emerso lungo i miliardi di anni percorsi da questo Universo a partire dai gas primordiali scaturiti dalla Grande Esplosione iniziale, e tutto ciò non può non generare in chi ne prende coscienza un sentimento di sacralità. Basta applicare la mente al lunghissimo viaggio della vita apparsa sul nostro pianeta per sentire che ogni forma di vita merita di essere considerata sacra, anche la vita delle piante e degli animali, anche la vita dei mari e delle montagne, tutto ciò che vive è sacro e va trattato con rispetto dal concepimento fino alla fine.

La vita umana non fa eccezione: anch’essa è sacra e va trattata con rispetto dal concepimento fino alla fine.Ancora più stupefacente però è il fatto che il fenomeno vita emerso dalla materia (se per caso o per spinta intrinseca della materia nessuno lo sa, anche gli scienziati si dividono al riguardo) si evolva secondo diverse forme vitali, già individuate dal pensiero filosofico greco mediante i seguenti termini: vita-bios, cioè vita biologica; vita-zoé, cioè vita zoologica o animale; vita-psyché, cioè vita psichica; vita-logos, cioè logica, calcolo, ragione; vita-nous, cioè vita spirituale o della libertà.
Quando diciamo “vita” esprimiamo con una parola sola tutto questo complesso processo evolutivo, filogenetico e ontogenetico al contempo, in cui ciascuno di noi consiste. E quando diciamo “rispetto per la vita” dobbiamo estendere tale rispetto in modo da abbracciare tutte le forme vitali, dalla vita biologica alla vita della mente.

Normalmente si dà armonia tra le diverse forme vitali. Normalmente rispettare la vita di un essere umano significa rispettarne la vita biologica che si esprime nel corpo e rispettarne la vita spirituale che si esprime nella libertà.
Si danno però situazioni nelle quali l’armonia tra le diverse forme vitali viene interrotta e il processo virtuoso in cui fino a poco prima consisteva la vita si trasforma in un lacerante conflitto, fisico, psichico e spirituale. Sto parlando ovviamente della malattia e della disarmonia che essa introduce tra le varie fasi del processo vitale, tra la vita fisica (bios + zoé), la vita psichica (psyché) e la vita spirituale (logos + nous). La malattia cronica e inguaribile segna il conflitto irreversibile tra le diverse forme vitali nel cui intreccio ciascuno di noi consiste: a partire da essa la vita fisica, la vita psichica e la vita spirituale non sono più in armonia. Che cosa significa in questo caso rispettare la vita?

Io penso che il rispetto della vita di un essere umano debba consistere alla fine nel rispetto della sua vita spirituale, della sua coscienza o libertà. Di fronte ai casi estremi di malattia, quando la disarmonia tra le forme vitali diviene lacerante, vi sono esseri umani che intendono mantenere l’armonia tra corpo, psiche e spirito e quindi scelgono di piegare la psiche e lo spirito alle condizioni del corpo, accettandone la sofferenza. Per loro, tale sofferenza è una forma di partecipazione responsabile alle sofferenze del mondo e di tutto ciò che vive, emblematicamente compendiato per i cristiani nella passione di Cristo.

Questi esseri umani intendono mantenere fino in fondo l’armonia tra corpo, psiche e spirito, sentono di avere le risorse interiori per farlo, e io ritengo che vadano rispettati nel loro prezioso proposito.
Personalmente mi piacerebbe, quando toccherà a me, esserne parte, anche se non so se ne avrò la forza e il coraggio, penso che molto dipenderà dalla malattia con la quale avrò a che fare.

Ci sono però altri esseri umani che non riescono, o non vogliono, mantenere l’armonia tra la loro vita biologica, la loro vita psichica e la loro vita spirituale. Per loro la vita-bios diviene un tale carico di ansia, paure e sofferenze da risultare devastante per la salute psichica e spirituale. Che cosa significa in questo caso rispettare la loro vita? In che senso qui si deve applicare l’etica del rispetto della sacralità della vita? E che cosa è più sacro: la vita biologica oppure la vita spirituale?

A mio avviso rispettare la vita di un essere umano significa in ultima analisi rispettare la sua libera coscienza che si esprime nella libera autodeterminazione. E se un essere umano ha liberamente scelto di mettere fine alla sua vita-bios perché per lui o per lei l’esistenza è diventata una prigione e una tortura, chi veramente vuole il “suo” bene, chi veramente si dispone con vicinanza solidale alla sua situazione, lo deve rispettare.

Questo sentimento di rispetto, se è veramente tale, deve tradursi in concreta azione politica, nell’impegno a far sì che lo Stato dia a ciascuno la possibilità di “vivere” la propria morte nel modo più conforme a come ha vissuto la propria vita, in modo tale che si possa scrivere l’ultima pagina del libro della propria vita con responsabilità e dignità. Il diritto alla vita è inalienabile, ma non si può tramutare in un dovere. Nessun essere umano può essere costretto a continuare a vivere.

Un’ultima parola a livello teologico. Ha dichiarato Jorge Mario Bergoglio dialogando con il rabbino di Buenos Aires: “Occorre assicurare la qualità della vita”. Io penso che non vi sia al riguardo assicurazione migliore della consapevolezza che le nostre volontà siano rispettate da tutti, Stato e Chiesa compresi.

(da la Repubblica del 5 maggio 2013)

L’immane e inutile tragedia della Grande Guerra vissuta dai sorsinchi

Articolo presente del primo numero ( giugno 1997) del periodico sorsese  “ORIZZONTE” , bellissima esperienza durata purtroppo appena quattro numeri.  Gianmario Urgeghe, il suo autore, trascorreva ore e ore nella Biblioteca Comunale di Sassari per cercare nell’archivio cartaceo del quotidiano La Nuova Sardegna notizie riguardanti il suo paese, Sorso appunto. Oggi quest’archivio è stato informatizzato, ma per poterlo consultare, è necessario recarsi di persona nella Biblioteca sassarese, in Piazza Tola.

 

Per rendere leggibili i caratteri, è necessaro cliccarci sopra

 

 

GRANDE GUERRA 1GRANDE GUERRA 2

 

A Sorso “è (sempre) favorevole la circostanza per salutare con viva cordialità”

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 di Piero Murineddu
Sicuramente la formula di saluto indicata nel titolo, è familiare a chi negli ultimi anni ha posato il prezioso deretano – delegato dalla pubblica et illuminata volontà popolare – tra gli scranni della Sala Consiliare di Sossu, mentre alla stragrande maggioranza dei cittadini credo  appaia nuova e, forse, un tantino artefatta. Se sbirciate  la prima pagina del sito istituzionale del Comune, in questi giorni la potete leggere a conclusione dell’avviso di  convocazione per una riunione di Consiglio. Se fatte attenzione, in alto a destra potete leggere anche l’incredibile pseudo sondaggio riguardo a presunte notizie inesatte che danneggerebbero Sossu e su cui ho  espresso tempo fa il mio parere
 http://pieromurineddu.myblog.it/2014/07/19/sorso-uso-spregiudicato-del-sito-comunale/
Dato che ci siete, date un’occhiatina anche all’iniziativa DECORO URBANO – WE DU,
http://www.comune.sorso.ss.it/index.php?option=com_content&view=article&id=1380:politiche-ambientali-e-decoro-urbano&catid=37:amministrazione
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Presentato come una forma di PARTECIPAZIONE  ATTIVA alla vita collettiva, a me sembra più che altro un furbesco invito alla DELAZIONE ATTIVA. Ritengo che siano ben altri i modi per rendere partecipi i cittadini alle scelte amministrative e stimolarli a scrollarsi di dosso l’apatia e la rassegnazione,  ma evidentemente da parecchio tempo a questa parte i “manovratori” della nostra poco gaia cittadina detestano ed evitano accuratamente di essere …….disturbati.
Tornando al saluto del titolo, molto forzatamente di circostanza e che in altre occasioni ho avuto modo di leggere – qualcuno mi dice lasciato in eredità da un ex dirigente dello stesso comune – l’eterno burberone Leo Spanu mi ha mandato alcune sue considerazioni a riguardo. Le pongo alla vostra attenzione e al vostro giudizio.
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CIAO TI DIRO’

di Leo Spanu

Agli inizi degli anni 60 Adriano Celentano cantava “Ciao ti dirò” una simpatica canzone che esprimeva il modo più semplice di salutare. Allora eravamo giovani e poco scolarizzati. Gente  che parlava come mangiava. Oggi, molti lustri e molte lauree (anche regalate) dopo, leggo sul sito del Comune di Sorso l’avviso di una convocazione per il consiglio comunale del 3/11/14. Più che l’ordine del giorno mi ha colpito il saluto di chiusura:  “E’ favorevole la circostanza per salutare con viva cordialità.”

Il primo pensiero (stupido) che mi è venuto in mente è stato: e se le circostanze fossero sfavorevoli? Se l’oroscopo di oggi mi dice che Giove è ingrugnito, Urano ha gli anelli che gli girano vorticosamente, lo Scorpione ha punto i Gemelli ed è stato schiacciato dal Sagittario incazzato nero dopo la scoperta che la compagna non è Vergine. Che faccio? Il primo che incontro  non lo saluto neppure, gli salto direttamente addosso a piedi pari e lo riduco come una piadina.

In realtà sono una persona pacifica e (quasi) sempre educata. Per cui: Buon giorno, Buona sera, Come sta, Ossequi alla signora e via dicendo. Ignorante, retrogrado e superato dai tempi. Chiedo scusa e mi impegno a rivedere il mio modesto bagaglio di saluti. Cominciamo.

– Viste le previsioni meteo Le auguro una giornata senza precipitazioni.

– E’ bello rivederci solo in occasione di funerali.

– Ad un disoccupato: Mille di questi giorni.

– Ad un emigrato clandestino: Finchè la barca va lasciala andare.

– A Salvatore Farina che (scrittore  famoso) rientrava dopo molti anni a Sorso:  Unì eri chi ti vegghiani che la chisgina.

– Il suocero ad un emigrato che, rientrato dalla Germania dopo un anno di assenza, aveva trovato la moglie incinta: Cosa devo    dire io che quest’anno il prezzemolo mi è andato tutto a male.

 

Si potrebbe continuare all’infinito come la catena di sant’Antonio ma basta così. E non saluto neppure perché un intrinseco groviglio di impedimenti trascendentali esclude l’espressione di frasi augurali di inconsistenti e superficiali valutazioni dell’altrui condizione umorale e ormonale nel contesto ansiogeno di un’esistenza singhiozzante.

Forse era meglio un semplice ciao..

FACEBOOK, un mare magnum ricco si di pesci,ma anche di plastica, mucillagini, idrocarburi e tutto quanto la stupidità umana ha seminato di spazzatura

Io ho cercato di far avvicinare il dottor Leo – prossimo 70enne(*) –  a “facebuk”, ma la sua tenace resistenza mi ha portato a desistere. Credetemi, in un primo momento ho insistito nell’evidenziargli la grande (e immediata) opportunità comunicativa che offre questo strumento, che trattandosi appunto di uno strumento, ognuno ha la possibilità di usarlo come meglio crede. Niente da fare. In effetti, vista la stupidità che stà prendendo il sopravvento in questa piazza virtuale, e sentiti i tanti che per questo motivo hanno staccato la spina, entusiasmo nel continuare opera di persuasione non è che me ne sia rimasto tanto. Per dirla tutta, il più delle volte evito accuratamente di entrare nella home page dei più o meno amici fittizi, e quando mi và, vado a guardare la pagina di qualche amico che mi ha dato prova di usare con intelligenza questo mezzo. Certo è, che quando la curiosità mi ha fatto “scendere in piazza”, in mezzo a qualche  attrattivella ho trovato sopratutto tante cretinatelle. E poi vi sono questi  “dialoghi” fatti di supersoniche battutine e slogans che vorrebbero essere intelligenti e fulminanti, il tutto condito da milioni e antipaticissimi puntini di sospensione e orrori di ortografia (oltre che di pensiero!).

Comunque sia la vostra posizione a riguardo, leggetevi ciò che ne pensa il Leo, il sorsinco  giaenonancora.

 

(*) Faccio riferimento all’età di Leo non per fargli torto e far sapere in giro che non è più un giovanotto aitante e che ha più anni alle spalle che davanti, ma semplicemente per ricordare, a me  prima di tutti, che noi persone anzianotte facciamo fatica ad avvicinarci a questi moderni mezzi di comunicazione, e quando quattiquatti osiamo, lo facciamo molto guardinghi e diffidenti….. grazieaddio

(Piero Murineddu)

 

 

     AMICIZIA AI TEMPI DI FACEBOOK UOMO DONNA - Copia                       

                                                       

                                                                                                      Facce da…facebook

 

di Leo Spanu

 Il 2004 è stato un anno importante, forse tra i più importanti degli ultimi decenni perché ha rivoluzionato il nostro modo di esistere grazie a Facebook. Una trovata geniale ( e redditizia per il suo inventore) che ha trasformato in realtà un’intelligente intuizione di Andy Warhol: un giorno tutti potranno avere il loro quarto d’ora di fama. Sto semplificando un concetto un po’ più complesso ma la sostanza non cambia. La più famosa applicazione della legge di Warhol  è stata l’uccisione plateale di John Lennon ( ex Beatles) ma è evidente che il metodo non può avere un’applicazione universale: gli imbecilli in cerca di gloria sono decisamente troppi rispetto alle persone famose da sparare. Facebook, oltre a poter essere utilizzato da tutti (ma proprio tutti!) è meno cruento, lo spargimento di sangue è solo virtuale. Almeno si spera. Io sono tra quelli che (colpa o merito della mia veneranda età ) fino all’ultimo ha resistito alle sirene di questo network infine armato di pinne, fucile ed occhiali mi sono tuffato in un mare magnum ricco si di pesci grandi e piccoli ma anche di plastica, mucillagini, idrocarburi e tutto quanto la stupidità umana ha seminato di spazzatura. Ho raccolto una collana di impressioni che preferisco tenere per me e messo su una collezione di mostruosità degne di un museo degli orrori. Ve ne presento alcune in regolamentare ordine alfabetico.

ALIMENTAZIONE. Viviamo in un mondo di cuochi che in realtà si considerano artisti sublimi della padella e della pentola. Dipingono, scolpiscono, creano capolavori colorati e profumati poi tutti a mangiare da McDonalds.

AMICIZIA. Tutti che chiedono amicizia. Scambi continui di complimenti e di gentilezze poi ti incontrano per strada e manco ti salutano. Forse perché nemmeno ti conoscono?

BAMBINI. Fotografati a testa in giù o vestiti da cretini sono le vittime innocenti di genitori all’americana che dicono ogni cinque minuti “Ti voglio bene” ma non sanno niente dei loro figli che a dodici anni si ubriacano e s’impasticcano. Quando non fanno di peggio.

FOTOGRAFIE 1. E’ uno dei pochi settori dove si possono trovare cose interessanti. Peccato che devi assorbirti anche quanto descritto in FOTOGRAFIE 2.

FOTOGRAFIE 2. La parola autoscatto è stata tradotta in “selfie” e qui la fantasia degli internauti spazia per l’universo mondo. Si va dalla faccia felice e sorridente tipo buffone di corte alla faccia sensuale e arrapante quanto un cavolo bollito. Volti e corpi inquadrati in cornici improbabili, tra una spiaggia tropicale di Disneyland e lo sfondo della torre Eiffel, nell’intimo della casa con puffi e pupazzi di peluche al gruppo di amici condannati all’allegria nella pizzeria alla moda.

Le fotografie finiscono per diventare una pericolosa testimonianza autolesionista, un inno al come non dovremmo mai farci vedere.

GOSSIP. Una volta riguardava solo il mondo dei VIP. Oggi, grazie a facebook, siamo tutti VIP nel nostro piccolo, per cui via libera a pettegolezzi, chiacchiericci, bugie e tutto quanto la nostra malignità riesce ad inventare. Si salvi chi può!

PAROLE. Si va dal miele di “quanto sei buona” detto all’amica cesso di novanta chili al “vaffa” in tutte le sue varianti indirizzato ad “anonimo” che rientra in queste rare categorie: amico/a, marito, moglie, parente più o meno stretto diretto e acquisito, vicino/a di casa, collega di lavoro, esponente politico (nazionale e locale). I bersagli sono infiniti, nel bene e nel male, le parole sono poche e sempre le stesse anche perché, con la diffusione dei mezzi d’istruzione, aumenta l’ignoranza di massa.   

POETI. Lo stile di questi masturbatori di parole è tipo telegramma per raccontare  grandi amori finiti e desolazioni di cuori infranti. Da comprarsi quintali di carta igienica per asciugare le lacrime.

POLITICA. Qui si concentra, purtroppo spesso a ragione, il massimo “dell’incazzismo” della gente.

Così la critica seria si perde tra banalità, luoghi comuni, demagogia, populismo, ignoranza, malafede e presunzione. La verità è che i nostri politici rappresentano in pubblico quello che noi siamo nel privato.

RAZZISMO. E’ la parte più preoccupante e pericolosa di facebook. La miseria e la fame del terzo mondo suscitavano la nostra pietà quando erano lontane. Oggi che migliaia di profughi ci invadono cercando una speranza di vita, la maschera di perbenismo dell’occidente civile e democratico si sta sgretolando e l’egoismo della nostra cattiva coscienza parla e sparla con parole feroci. La storia non ci ha insegnato niente.

SALUTE. Il grosso è dedicato alle diete dimagranti. La nostra società, sempre in crisi ma sempre benestante, tende sempre più ad allargarsi e ad accumulare, oltre alle ricchezze rubate ai paesi poveri, strati di ciccie insolubili  e  irreversibili.

Un settore a parte riguarda l’intimo femminile che ormai tanto intimo non è più con assorbenti che prendono il volo, creme per il prurito di “quelle parti lì”, seni da depilare e peli da rassodare.

UMORISMO (volontario e involontario). Per chiudere in bellezza e con un sorriso ecco qualche citazione da facebook. Vere!!!  Fea che ru mandattu di cattura in di vennari e santu; Chi ti vegghiani peggiu di ru chi sei; Ma basta con ste’ foto con il bacio chiuso a culo di gallina;   A “Uomini e donne” : quest’anno fanno cagare i tronisti (cosa non si fa per il successo!); Da una ricetta di cucina: io farei un pds         ( partito democratico sardo? ) tagliato a strisce e poi rivestirei lo stampo.