“Passo di Gavia”, un racconto inedito di Leo Spanu

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Con forza contro la retorica militarista (*)

 

di Piero Murineddu

Leo Spanu, vecchio alpino durante la “leva militare”, ci regala un suo racconto scritto ben 42 anni fa. Ci descrive un incredibile Campo di addestramento (autobiografico?) svoltosi nel febbraio del 1968,  talmente gelido che “il buco del culo si sigillava“.  Quello dei poveri militi, s’intende, mentre quello dei due ufficiali, specialmente del Valeri capitano,  rimaneva ben aperto e al calduccio negli occasionali rifugi notturni: loro due straiati su uno spazioso letto matrimoniale seppur sgangherato, la soldataglia stretta come sardine in buche scavate nella neve, riscaldati dal calore dei loro corpi luridi e dalle scoregge. Sul soldato sardo, facente funzioni da infermiere perchè da civile aveva studiato qualche anno in medicina (fornito di ghette valdostane e pugnale infilato nel cinturone) veniva addossata la responsabilità della salute dell’intera compagnia (“altrimenti l’avrebbe pagata cara!”), oltre che appesantito da ben 35 chilogrammi di inutili “ferri del mestiere” sulle sue gracili spalle. Anche se  i panorami sono mozzafiato, l’esperienza appare tutt’altro che una gita di piacere. Tra le altre privazioni, non potevano calarsi neanche i pantaloni per cacare, e quando pisciavano, dovevano affrettarsi a ritirare dentro  il pistoletto per “non rischiare di vederselo congelare tra le mani”. L’unica consolazione era il pensiero che là nel paesino le ragazze li aspettavano “con le mutande gia in mano“.

Nonostante il drammatico epilogo, è ancora più tragico che da quella volta in poi, il capitan Valeri (secondo cui per regolamento i soldati  dovevano dormire fuori all’addiaccio e gli ufficiali al riparo), quando doveva spostarsi con la sua Compagnia, voleva  sempre con se…….  l’infermiere sardignolo.

Un racconto che è un inno antimilitarista, e quello che descrive  riguardo ai graduati nei confronti dei soldati semplici, non è molto dissimile da quello che continua ad accadere nella cosiddetta società civile: il popolino a sgobbare, “lor signori” a godersi la scena dall’alto degli ancora troppi previlegi.

 

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Il racconto è sicuramente drammatico, ma grazie alla “divertente” narrazione dall’autore,  in certi passaggi sopratutto, ieri mattina presto quando lo stavo leggendo, tutto la vallata sotto casa mia è stata  svegliata dalle mie fragorose ed incontenibili risate. Buona lettura

 

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Passo di Gavia

di Leo Spanu

 

 

Parte prima: Le prime ore erano trascorse tra scherzi e cori improvvisati

– Maledizione, ma non si arriva mai?- La voce si accese come una fiammella sulla sterpaglia secca e subito partì un coro di brontolìi e bestemmie di risposta svegliando il piccolo gruppo irrigidito dalla stanchezza e dal freddo. Eravamo partiti verso mezzogiorno, dopo un pasto veloce che era sembrato più scipito e cattivo del solito. Un nevischio fastidioso ci aveva augurato buon viaggio. Alla periferia di Merano un gruppetto di ragazzini ci aveva bombardato di palle di neve e noi, indifesi dentro il nostro camion, avevamo risposto a pernacchi e contumelie. Mica potevamo spararli. Anche se erano i soliti crucchi che non perdevano l’occasione per dimostrare il loro disprezzo per noi alpini, erano sempre e solo dei bambini. Il viaggio era stato interminabile, ore e ore per continui saliscendi, tra valli e montagne ricoperte di neve quanta non ne avevo mai vista. Le prime ore erano trascorse tra scherzi e cori improvvisati. Io, tutto imbacuccato, mi stringevo allo zaino cercando di fermare qualche guizzo di calore che fuggiva tra i refoli di vento oltre il telone del camion. Prima di partire mi ero fatto un’iniezione di penicillina per bloccare la febbre ma continuavo a non sentirmi bene. Otto ore di viaggio e non si arrivava mai. Nessuno parlava più, solo ogni tanto, una voce esplodeva nel buio, maledicendo il freddo, la stanchezza e la naia. Il camion si arrampicava faticosamente sui tornanti del Tonale tra i mucchi di neve ammucchiati ai bordi della strada. Alle curve, sciabolate di luci dai fari delle macchine che incrociavamo, scoprivano squarci di abissi. Il vento ci schiaffeggiava con raffiche di neve.  – Al Tonale ci fermiamo a prendere un panino –    – Chi l’ha detto?-   – Cacchio! Si spera, no?-     Infatti l’automezzo si fermò davanti ad una luce perduta nella notte che si rivelò essere quella di una salumeria. Saltammo giù come un’orda di selvaggi davanti da un inaspettato bottino. Anch’io, dimenticando la febbre e la natica indolenzita dall’iniezione, con un balzo da campione, avevo seguito i miei compagni. – Due minuti soltanto.- ringhiò qualcuno. Ci precipitammo dentro il negozio facendo sobbalzare la commessa già pronta a chiudere ma, ritrovato l’istinto commerciale, la ragazza cominciò ad affettare salame a tutto spiano confezionando una trentina di panini e ricavandoci pure un guadagno extra. Conscio dei miei scarsi mezzi brontolai. – Merda! Duecento lire per un panino microscopico. Questa tipa ci ha preso per la gola-  – Fregatene, sempre meglio che essere presi per il culo –  replicò qualcuno. Cercai lo spiritoso. Il solito Giannini, un tipo mingherlino e secco come un’aringa, noto tra i compagni come ” Baffi” per via di un bellissimo paio di baffi formato da sei-peli-sei per lato. – Spiegami la differenza, Aristotele- Giannini non rispose, era troppo intento a divorare un panino che una persona di normale appetito avrebbe giudicato appena più grande di una pastiglia. E poi dubito che avesse mai sentito nominare Aristotele. – Sul camion, cazzo. Svelti che si parte – Tutti i sergenti del mondo sono noti per la loro gentilezza. – Ma vaffan…- Gli rispose una voce anonima.

 

Parte seconda: E noi dove dormiamo

Ricominciò il calvario, stavolta però eravamo in discesa e quel residuato di guerra sembrò ritrovare il concetto di velocità. Attraversammo Pontedilegno e dopo un’eternità giungemmo a destinazione. – Signori si scende – Lo spettacolo che si offrì ai nostri occhi non era dei più felici. Ad un lato della strada una minuscola pensione semisepolta nella neve, di fronte un garage. Intorno solo la notte. – E il paese dov’è?- – Dietro la collina- – E noi dove dormiamo?- – Nella neve, stronzo. Cosa credevi di trovare: il Cavalieri Hilton?- – Silenzio lì e scaricate il materiale – Fummo fortunati, il proprietario della pensione ci offrì la sua ospitalità nel garage. Il locale era di grandi dimensioni per cui, oltre al materiale (radio, zaini, armi) riuscimmo a sistemare anche i nostri materassini gonfiabili e i sacchi a pelo. Il pavimento era in terra battuta, bastava uno starnuto per sollevare nubi di polvere ma era meglio ritrovarsi con la pancia piena di terra che dormire all’aperto. Riuscii a litigare col furiere che voleva mettermi di guardia. – In primis, io sono un infermiere e non devo fare questi servizi, in secundis ho una febbre da cavallo- – Cosa vorresti dire: devo montare io di guardia?- – Cazzi tuoi. Anche gli infermieri si ammalano ogni tanto.- Dopo un acceso scambio d’insulti, col beneplacito del sergente, mandai a quel paese quel graduato da scrivania e, dopo essermi tolto solo gli scarponi e la giacca a vento, m’infilai dentro il sacco a pelo. Malgrado tutto dormii come un ghiro. Fui svegliato solo dal casino che fanno abitualmente tutti i sergenti alla sveglia e mi ritrovai con la bocca piene di piume. – Anche il sacco a pelo rotto mi dovevano dare.- mi lamentai. Il cielo era sereno e c’era anche un timido tentativo del sole che cercava di uscire dalle nuvole. La mattina fu consumata nella ricerca di ricoveri per la compagnia che doveva raggiungerci in giornata e doveva trovare tutto pronto e a posto. A noi della compagnia servizi sempre il lavoro e le rogne e pensare che, per tutti, noi eravamo gli imboscati. Dietro la pensione c’era uno stretto sentiero che portava ad un gruppetto di vecchie case. La ” commissione alloggi” era formata dal capitanValeri, comandante della compagnia, il tenente Senseri, vicecomandante, e un ufficiale medico che proveniva da un altro reparto. Io e altri tre commilitoni (uno era Giannini) eravamo la scorta tuttofare. Esaminammo attentamente le strutture pensando che cento persone dovevano trovare un posto per dormire al coperto.

 

Parte terza: Con loro divisi la buona e la cattiva ventura

Le costruzioni erano stalle abbandonate da tempo, tutte a due piani tranne una che però aveva il tetto semi sfondato. Al piano terra uno strato di paglia vecchia e di letame antico; il piano superiore, fatto con assi di legno, non offriva garanzie di sicurezza. Troppo pericolose anche per gli alpini. Alla fine dell’esame avanzarono tre stalle e una stanza, il tutto sufficiente per ricevere una sessantina di persone. – Solo posti in piedi. Questa è la volta che dormiamo nella neve. – disse sottovoce Giannini. – Se ci stanno gli esquimesi ci può stare anche uno stronzetto come tè – gli rispose Rovelli, l’amico-nemico inseparabile. – Io sono un uomo solare e non un bifolco della bassa padana come te- – Ma se sei della vai Brembana dove l’ultima volta che avete visto il sole avete chiamato la RAI per sapere cos’era.- I due continuavano a beccarsi come d’abitudine. Malgrado si scagliassero addosso imprecazioni e oscenità di ogni genere, erano grandi amici. Io conoscevo poco quel gruppetto di persone. Mi avevano aggregato alla 52° compagnia assaltatori come aiutante di sanità e anche quelli che erano con me, telegrafisti e addetti ai vari servizi, venivano aggregati in continuazione da un reparto all’altro. Una quindicina di persone era stata caricata, armi, bagagli e cucina da campo e spedita avanti a predisporre la sistemazione del reparto. Tutto il campo invernale lo trascorsi insieme a quei ragazzi e con loro divisi la buona e la cattiva ventura. Legai in particolare con quattro di loro. Giannini, il piccolo e linguacciuto telegrafista, pronto oltre che di lingua, anche di portafoglio, per mia buona sorte. Mi spiego: essendo piuttosto fornito di soldi, li spendeva volentieri coi compagni meno forniti. In particolare con me che ero partito per il campo con cinquecento lire in tasca e un pacchetto di nazionali. Rovelli invece era un tipo tranquillo sempre con la macchina fotografica in mano a riprendere tutto e tutti. Portelli, un gigante triste e taciturno. Quando apriva bocca, raramente, era per parlare della sua ragazza che doveva sposare alla fine della naia ed aspettava un bambino. Gli venivano i lucciconi quando raccontava della sua innamorata. Volevamo bene a quel colosso con la faccia da bambino anche se lo prendevamo un pò in giro. Credo per invidia. Infine Bianciardi, un comasco flemmatico come un inglese, sempre occupato a pulire e manutenzionare la sua radio. Era un perito elettronico ( ” Non mi sono mica diplomato alla Scuola Radio Elettra Torino, io” rispondeva sempre a chi irrideva la sia mania) e un appassionato di cori di montagna. Infatti cercava sempre di mettere insieme qualcosa di decente coi suoi commilitoni. Fatica sprecata. Tra noi c’erano più asini che cantanti.

 

Parte quarta: Siringai i sederi di mezza compagnia

La compagnia arrivò dopo le tredici, una fila interminabile di camion. I soldati, tutte reclute, erano stranamente silenziosi. Forse pensavano alla faticosa esperienza che li aspettava. Per sistemare tutta quella gente fummo costretti a cercare altre stalle, queste alquanto lontane dal campo base che fu stabilito presso la pensione. Nel piazzale davanti alla stessa furono tirati su due tendoni nei quali furono sistemati il magazzino viveri e la cucina mobile. Gli ufficiali si sistemarono nell’albergo e tutto fu in ordine. A Sant’Apollonia (così si chiamava la località) restammo cinque giorni e nel complesso non si stava male. Io avevo un lavoro d’inferno perchè i soldati si ammalavano in continuazione. Era solo una banale influenza. Ma quel febbraio del 1968 era da ricordare per il freddo eccezionale. Siringai i sederi di mezza compagnia rimettendo in sesto i commilitoni. Il capitano Valeri mi aveva promesso l’apocalisse se il giorno della partenza tutti i soldati non fossero stati in perfetta salute. Perchè non se la prendeva con l’ufficiale medico? Comunque solo due, che si ammalarono all’ultimo momento, furono esentati dalla missione e furono invidiati da tutti noi. Una notte ebbi la fortuna di dormire nella pensione. Un alpino si prese l’influenza in una forma particolarmente cruenta con una febbre altissima e il medico ordinò il suo ricovero in una stanza della pensione. Lo mettemmo a letto e la visione di quelle candide lenzuola con delle calde coperte mi provocò un gran magone. Com’era lontano casa mia e la mia stanza. Dovetti vegliare il malato per tutta la notte. C’erano due letti, uno era occupato dal soldato, l’altro doveva rimanere libero. Sistemai il mio materassino gonfiabile sul pavimento, vi appoggiai il mio sacco a pelo e intanto guardavo quel letto vuoto come un assetato guarda un bicchiere colmo d’acqua fresca. Maledissi me, il mondo e l’esercito ma dormii al caldo e comodo potendo stiracchiarmi a piacere senza scalciare nessuno. Una sera dopo la cena feci una scappatina in paese. Avevo chiesto agli amici di aspettarmi perchè impegnato nel giro di visite di controllo con l’ufficiale medico. Invece quelli se ne andarono di corsa. Mi sistemai le ghette valdostane, allacciai il cinturone, infilai il pugnale e mi incamminai verso il paese. Era una notte di luna piena, avanzavo faticosamente sprofondando nella neve fino al ginocchio e mi persi. Mi guardai intorno spaventato, non avevo nessun punto di riferimento. Mi avevano detto: vai sempre dritto. Facile a dirsi, ero solo in mezzo a tutto quel candore. Un deserto bianco mi circondava, non un suono, non un rumore. Una nuvola maligna copri la luna e in quel buio improvviso una morsa gelida strinse il mio cuore. Rimasi immobile per un tempo che mi sembrò eterno. Io e la paura. Poi la luna si fece largo tra le nubi e mi sorrise. Mi parve di sentire dei suoni venire da lontano e mi mossi in quella direzione. Dopo pochi passi vidi il paese. Trovai gli amici nell’unico bar aperto. In giro non c’era nessuno.

 

Parte quinta: La montagna è bella ma dura

La nostra baldoria si limitò al penoso tentativo di sbronzarci con qualche bicchierino di grappa. Scambiammo qualche parola coi pochi avventori e scoprimmo con piacere di trovarci tra la nostra gente. Dopo mesi tra popolazioni che ci detestavano, che non parlavano la nostra lingua, era una beatitudine sentire quel dialetto duro, a volte incomprensibile ma roba di casa nostra. Ascoltavamo i racconti e i consigli dei montanari, tutti ex alpini. Un vecchio con un enorme paio di baffi bianchi disse: – La montagna è bella ma dura. E in questa stagione è troppo pericolosa. Non dovreste salire sul Gavia – – Eilà nonno, mica ci andiamo di nostra volontà. E noi poi siamo alpini – – Benedetti figlioli. Così giovani, così bambini- sospirò la proprietaria del bar, un donnone dall’espressione dolce, mentre ci riempiva i bicchierini.
Tornammo alla base euforici. La cortesia dei valligiani ci aveva dato coraggio e se le ragazze non s’erano viste, data l’ora tardi, pazienza. In quanto agli avvertimenti e ai consigli poi. A vent’anni ti senti di prendere a calci in culo il mondo intero. E venne il giorno della partenza. – Allineati e coperti !- Io sacramentavo sottovoce senza ritegno. Il mio zaino non era equilibrato. Si trattava della barella in legno, smontata e legata ad un bastio a cui avevo fissato il sacco a pelo e lo zainetto coi medicinali. Trentacinque chili di peso mal distribuito che, ero sicuro, mi avrebbero fatto soffrire le pene dell’inferno. E pensare che esistevano le barelle da neve ( in dotazione alla pattuglia degli sciatori), leggere e facili da trasportare. Che senso aveva portarsi dietro quell’aggeggio antico e inutile? In fila, pronti alla partenza, ascoltavamo il discorso augurale di un maggiore. – Le solite puttanate – sussurrò al mio fianco Giannini che, come me, aveva otto mesi di naia e si considerava ormai un veterano per non sbattersi altamente di tutta quella retorica militaristica. Finito il comizio, il trombettiere diede la partenza e via in fila indiana. L’ultima cosa che vidi era il maggiore che davanti alla pensione ci riprendeva con una cinepresa poi, lui verso posti civili e riscaldati, noi su per il passo del Gavia. Avremmo dovuto trascorrere tre notti e tre giorni in quella passeggiata invernale. – Speriamo che qualcuno abbia avvisato il dio delle tempeste che noi siamo da queste parti- disse Giannini. – E che ce la mandi buona- concluse Rovelli, poi sparirono avanti. A me era toccato un posto in coda alla colonna. Il peso sulle spalle fu subito insopportabile ma la prima tappa fu breve.

 

Parte sesta: Le  razioni K  riservate solo agli ufficial

Ci fermammo presso un gruppo di stalle, in una località chiamata case Predazze, delle costruzioni disseminate in una vallata all’inizio della salita per il Gavia. Li passammo il resto del giorno e la notte. Il cibo ci fu portato dai muli e fu l’ultimo pasto caldo, almeno così era partito dal campo base. Il giorno dopo avremmo dovuto portarci dietro anche i viveri. Speravamo in una dotazione di razioni K ma queste furono riservate solo agli ufficiali. A noi tre panini, dei filoncini, un pezzo di formaggio, due mele, un limone e una scatola di pollo tonnato ogni cinque soldati. Furono distribuite anche due bustine di cognac, una tavoletta di cioccolato duro come il marmo e un gavettino di vino a testa. Il vino fu bevuto subito. Chi non lo fece si ritrovò nella borraccia dei pezzetti di ghiaccio viola che galleggiavano nell’acqua. Nel pomeriggio fummo impegnati a costruire delle specie di igloo di cui avremmo avuto bisogno in seguito. Gli esquimesi sono dei geni dell’architettura, noi non eravamo neppure lontani parenti. Ci limitammo a scavare delle grandi buche nella neve, lo spazio necessario per quattro, cinque persone, poi stendemmo sopra i nostri teli tenda personali, fissandoli con le piccozze e legandoli tra loro con pezzi di cordino da valanga, infine coprimmo tutto con un sottile strato di neve lasciando solo una minuscola apertura. Quelli sarebbero stati i nostri futuri rifugi. In effetti, se costruita a regola d’arte, la struttura protegge abbastanza. La temperatura si mantiene sullo zero. Fuori, speriamo bene. La giornata trascorse serenamente, raccogliemmo anche parecchia legna secca, una parte per bruciarla subito e scaldarci un pò, l’altra da legare allo zaino e portarcela dietro. L’unica difficoltà che trovammo fu l’impossibilità di andare di corpo. Qualche tentativo fallì ingloriosamente. Il freddo pungente convinse tutti a non abbassarsi i pantaloni. – Bene!- Osservò Giannini – D’ora in avanti si può solo pisciare, e in fretta se no ti si gela in mano.-

 

Parte settima: Non avrei mai immaginato che la fila si fosse così allungata

Giunse la notte. Ammucchiati uno addosso all’altro, non c’era spazio per muovere un dito. Al movimento di uno brontolavano almeno altre quindici persone smosse dall’onda. Anche l’aria non era gradevole; tra la nostra sporcizia (non ci lavavamo da alcuni giorni) e il tanfo del letame secco, dormimmo in una camera a gas. In quelle maledette stalle c’era più merda che paglia. Al piano di sopra il capitano Valeri e il tenete Sanseri si scaldavano il caffè e la cioccolata delle razioni K. C’era un caminetto che i soldati avevano ripulito e riempito di legna e un letto matrimoniale semisfondato, di quelli di una volta, massiccio e col fondo di legno. I due ufficiali vi avevano sistemato i loro sacchi a pelo e potevano godere di uno spazio più ampio. Venne l’alba. Preparativi rapidi e di nuovo in marcia. Si cominciava a salire. Un pallido sole seguiva incuriosito quella colonna di piccoli uomini che si arrampicavano sulla neve. Si camminava in fila indiana, in pattuglie di una decina di persone distanziati di una ventina di metri. I contatti erano mantenuti dai radio telefoni. Ogni tanto ci si fermava cinque minuti per riprendere fiato poi di nuovo verso la cima. Camminammo per ore lunghissime, avanzando lentamente nella neve. Fui chiamato al lavoro. Io ero in fondo alla colonna, dietro di me solo il tenente Sanseri come ufficiale di coda. Qualcuno si era sentito male avanti, molto avanti. Tutti si fermarono ed io cominciai a risalire con quel peso maledetto che mi stava sfondando le reni. Dopo un venti minuti ero a metà colonna e non avevo raggiunto il mio paziente. Non avrei mai immaginato che la fila si fosse così allungata. Un passa parola ( e i telefoni?) mi informò che l’infortunato si era ripreso da solo e la colonna ripartì. Una faticaccia inutile la mia. Mi fermai su uno spuntone di roccia a riposare. I regolamenti militari prevedevano in questo tipo di addestramento, una pattuglia di alpini sciatori a fare da apripista. Già dalla mattina presto un ufficiale e un gruppo di cinque esploratori erano saliti per studiare il terreno. Questi oltre al capitano Valeri, calzavano gli sci e portavano sulle spalle solo le loro razioni di cibo, l’arma individuale e il sacco a pelo. Portavano inoltre i due pezzi della barella da neve. Tutti gli altri calzavano racchette da neve e portavano, oltre l’attrezzatura personale e il fucile ( un Fai col calcio metallico retraibile), anche la loro croce. Io avevo il barellone, gli altri, gli specialisti e i capi pattuglia radio enormi (ben sei) della seconda guerra mondiale, fucili mitragliatori e mitragliatrici Breda (definito armamento leggero). Tutta roba che finiva col pesare un’iradidio specie in condizioni ambientali di estremo disagio. In realtà il peso è un fattore relativo se ben distribuito ma ci si può rompere la schiena con pochi chili se il carico non è stabile. La mia barella pesava da sola venticinque chili, l’avevo pesata in infermeria a Merano. Con tutto il resto il mio carico arrivava a trentacinque chili che continuavano a sbattere sulla schiena mentre le bretelle del bastio scavavano le spalle.

 

Parte ottava: Avevo perso la cognizione del tempo

Non ricordo nemmeno come fu. Mi ritrovai con la faccia dentro la neve. Sentii qualcuno che mi dava degli schiaffetti sul volto per farmi rinvenire, qualcun altro mi appoggiò una bustina di cognac sulle labbra. Aprii gli occhi e vidi il tenente Sanseri. -Su, Pastiglia, che ce la fai.- II tenente Sanseri era uno degli ufficiali più amati dagli alpini. Giovane, sempre allegro e pronto allo scherzo, trattava i soldati con umanità e, quando era il caso, se ne fregava allegramente dei regolamenti. Non approfittava del suo grado e i piccoli problemi li risolveva col buon senso e non con stupide punizioni. Mi rimisi in piedi e, dietro suggerimento dell’ufficiale, il mio zaino fu portato a turno da tutti i componenti della pattuglia. Tutti furono d’accordo che quel “coso” uccideva letteralmente. Non lo dico per giustificare la mia debolezza, non mi vergogno di essere svenuto per lo sforzo ma quel peso diede filo da torcere anche a gente più robusta e più abituata alla fatica. In fondo io ero solo uno studente di città che si trovava per la prima volta in montagna. Alla fine del giorno giungemmo al rifugio vicino ad un laghetto. Avevamo marciato per otto, dieci ore, penso. Avevo perso la cognizione del tempo. Il cielo era diventato di un grigio sempre più cupo e un vento dispettoso ci aveva spruzzato di nevischio. Appena arrivammo alla costruzione seminascosta nella neve, il tempo peggiorò e si mise a nevicare intensamente. Il vento aumentò d’intensità e le sue gelide carezze divennero rasoiate. Ci sistemammo nella baracca peggio della sera precedente. Con assoluto disprezzo per ogni legge fisica, in uno spazio sufficiente a malapena per trenta persone, ci sistemammo in oltre cento soldati con relativo materiale. Uno stanzino fu requisito dagli ufficiali che pretesero di dormire più comodi. Anche la legna fu utilizzata dal capitano per scaldarsi e prepararsi il caffè. Io mangiai una mela e un pezzo di formaggio dopo aver buttato via un panino che, per colmo di sfortuna, era stato bagnato da una perdita delle bottiglietta di tintura di iodio, sua vicina nello zainetto. 11 vento soffiò violento tutta la notte, una vera tormenta. Sembrava che fuori si fossero scatenati tutti i diavoli in un sabba infernale. Un rumore impossibile ma la stanchezza era troppa. Anche dentro non era un paradiso: la puzza dei nostri corpi, gente che russava o parlava nel sonno o si lamentava. L’impossibilità di muoversi, eravamo come sardine pressate in una scatoletta. Mi addormentai lo stesso.

 

Parte nona: Il capitano ordinò di proseguire

La mattina il tempo era appena migliore, continuava a nevicare ma il vento si era affievolito. Via quindi e seconda tappa. Camminavamo indifferenti allo spettacolo di paesaggi da fiaba. Seguivamo i tornanti della strada completamente sommersa dalla neve. Ogni tanto un palo segnaletico, un cartello stradale spuntava da sotto i nostri piedi. Faceva uno strano effetto vedere dall’alto un segnale magari di curva pericolosa. Costeggiammo altri due laghetti ma questo lo seppi dopo perchè erano completamente gelati e si perdevano in quel panorama da cartolina natalizia. Finalmente arrivammo al passo Gavia. Il tempo era di nuovo peggiorato e annunciava tempesta. Ma tirammo un sospiro di sollievo come un atleta alla fine di una maratona. Due rifugi, uno di fronte all’altro. Due grandi alberghi che promettevano una notte calda e comoda. Erano chiusi ma non sarebbe certo bastata una porta a fermarci. Il capitano ordinò di proseguire. Ancora avanti. Vedemmo sparire le costruzioni alle nostre spalle con un senso di frustrazione.
Il vento aumentava d’intensità ed anche la visibilità era sempre più scarsa. Camminavamo quasi sospesi in un nulla candido. Il bianco era sopra, sotto, intorno a noi. Forse eravamo angeli perduti. Un altro rifugio. -Speriamo sia la volta buona – pregò una voce anonima. Eravamo stanchi, a pezzi. Fra poco sarebbe stata notte e il freddo era insopportabile. Il capitano Valeri diede l’alt alla colonna. Gettammo gli zaini a terra e il tenente Sanseri con alcuni alpini armati di piccozze e pale si apprestavano a sfondare una porta quando il capitano gelò tutti con un ordine secco. -I soldati devono dormire nella neve. Lo dice il regolamento – Il tenente cercò di mettere in discussione l’ordine ma il capitano fu tassativo: – Prendete la pale e cominciate a scavare- Mentre i due discutevano io fui chiamato al mio servizio. Accasciato sopra il suo zaino un alpino rantolava vinto dalla fatica. Gli prestai i primi soccorsi e lo sistemai al riparo (si fa per dire) dietro la vicina chiesetta. Quel ragazzo stava male davvero e io non sapevo cosa fare. Gli altri intanto costruivano gli igloo per la notte. I miei amici cercavano invece di sistemare l’impianto radio e di farlo funzionare. Dalla sera prima avevamo perso ogni contatto col campo base. – Sei radio e nessuna che serva ad un cazzo – Bianciardi aveva perso tutta la sua calma ed era furibondo.

 

Parte decima: Il tenente occupato a studiare le crepe dell’intonaco

Con la fortuna che assiste gli stronzi, il capitano aveva trovato una porta aperta nel rifugio. Uno stanzino, una legnaia di pochi metri quadrati, dove poteva stare comodamente per la notte. Il tenente Sanseri, preoccupato, faceva la spola tra i telegrafisti e il soldato che stava male, indeciso a tutto. Le sue imprecazioni si perdevano nel vento. Il ragazzo era sul punto di perdere conoscenza. Aveva bisogno di stare in un posto caldo e asciutto: la legnaia del capitano Valeri. – Cos’ha quell’alpino?- – Non lo so, signore- – Ha la febbre ?- -No- – Allora può dormire insieme agli altri.- – Non mi sembra il caso – intervenne il tenente. Il capitano si rivolse a me con l’espressione carogna che tutti temevamo: – Cosa credi che abbia?- – Non sono un medico, signore. Non posso assumermi la responsabilità di una diagnosi- L’avessi mai detto. Il capitano esplose: – Secondo me quel soldato non ha niente. Qui tu sei l’unica persona che abbia a che fare con la medicina quindi decidi. Ma se sbagli te la faccio pagare cara- II capitano Valeri manteneva sempre le sue promesse. Mi rivolsi verso il tenente in cerca d’aiuto. Ma lui sembrava intento a studiare le crepe dell’intonaco. – Allora ?- – Per me ha bisogno di stare al caldo- – Bene, portalo dentro –  Uscii accompagnato dal tenente. Appena fuori mi disse: – Ragazzo, hai le palle. Auguri – Sistemammo l’alpino nella legnaia mentre il capitano continuava a promettere tutte le punizioni del mondo a quel finto malato e a quell’imboscato d’infermiere. Noi imboscati dei servizi fummo gli ultimi a costruirci il rifugio. I miei amici avevano perso un sacco di tempo nell’inutile tentativo di far funzionare le radio. Un mucchio di rottami inservibile e noi a romperci il culo per portarceli dietro. Giannini non smetteva un attimo di lamentarsi. Era buio ormai e il vento era carico di freddo e di cattiveria. – Anche il tempo ce l’ha con noi. Minimo siamo a venti gradi sottozero. – Giannini era un flusso continuo. – E tu come fai a saperlo?- Gli chiese Rovelli. – Semplice, mi si è sigillato il buco del culo- rispose Giannini poi, rivolto a me: – Pastiglia, anche in Sardegna fa questo freddo?- Non gli risposi, non mi piaceva essere chiamato “Pastiglia” anche se era un vizio comune chiamare così tutti gli infermieri. Come Dio volle anche il nostro rifugio fu pronto. – Benvenuti al Grand Hotel e ricordate che qui non sono ammessi nè cani nè puttane.- Ci infilammo completamente vestiti nei sacchi a pelo. Io feci la stupidaggine di lasciare fuori gli scarponi perchè troppo bagnati così la mattina dopo dovetti ammorbidirli picchiandoli col calcio del fucile. Mangiammo la nostra lauta cena e ci mettemmo a raccontare barzellette per tenerci allegri. – Mi raccomando ragazzi non scoreggiate.- Ordinò Giannini. – Da quando le tue nobili narici temono i rumori del culo?- replicò Rovelli. – Non è questo. Siamo tre giorni che non caghiamo. Qui se qualcuno apre le valvole ci troviamo nella merda- Poi anche il buonumore se ne andò. Troppo freddo e fuori, l’urlo della tempesta non invitava all’ottimismo.

 

Parte undicesima: Ogni tanto si masticava un pezzo di pollo tonnato

Portelli cominciò a parlare della sua morosa con una tenerezza che zittì anche Giannini. Ognuno si chiuse nei propri ricordi. Io non avevo nessuna ragazza che mi aspettava a casa, niente da rimpiangere. Intanto qualcuno aveva riempito un gavettino di neve e lo stava facendo sciogliere alla fiamma di una candela (faceva parte della dotazione standard individuale) il nostro impianto mobile di illuminazione. Appena sciolta, avanza un dito (in orizzontale) d’acqua. Vi si spremeva mezzo limone (ecco a cosa serviva!) e a turno ciascuno di noi si bagnava le labbra. Ripetemmo quell’operazione varie volte; la sete, oltre al freddo, era il nostro peggior nemico. Da due giorni non bevevamo altro, le borracce s’erano vuotate subito e quando le labbra erano secche e la lingua s’incollava al palato, ci si riempiva la bocca di neve e salute. Chiacchierammo per un bel pò. Ogni tanto si masticava un pezzo di pollo tonnato (mai sentito nominare nella mia vita precedente) che prendevamo da un tubo lungo trenta centimetri, pieno di una polpa marrone senza odore e senza sapore. Con la fame che avevamo ci saremmo mangiati anche il tubo. Giannini faceva piani e progetti per quando saremmo arrivati a Santa Caterina Valfurva: – Ci sono le ragazze così e stanno aspettando con ansia il caporal maggiore Riccardo Giannini- – Come no. Sono tutte con le mutande in mano – rispondeva Rovelli. Infine il sonno ci colse sull’ultimo mozzicone di candela. La sveglia ci presentò una giornata linda e senza nuvole. La tempesta notturna aveva liberato il cielo. Fra poco sarebbe uscito il sole, un pericolo preoccupante perchè in quelle condizioni ambientali c’era il rischio di valanghe o di slavine. Ma era l’ultimo giorno di marcia. Eravamo già pronti alla partenza quando si scoprì che sette alpini mancavano all’appello. Erano ancora addormentati nel loro buco sotto la neve e neanche le trombe del Signore li avrebbero svegliati. Il capitano, ricordando le sue origini toscane, riuscì a trovare imprecazioni non ancora brevettate ma diede l’ordine di partire ugualmente. I ritardatari avrebbero raggiunto la colonna a costo di spaccarsi le gambe. Bisognava approfittare del tempo buono prima che il sole salisse alto nel cielo. Il tenente Sanseri rimase ad aspettare con un paio di soldati. La pattuglia degli assonnati raggiunse la coda del reparto dopo un’ora grazie al fatto che c’era stata una pausa imprevista. Il capitano Valeri era scivolato in un crepaccio e, con nostra grande delusione, non s’era fatto niente. C’era voluto parecchio tempo a recuperarlo e intanto il sole cominciava a scaldare. Eravamo in ritardo sulla tabella di marcia e un passaggio difficile aggravò la situazione. La neve era estremamente friabile e si dovette costruire una passerella per permettere il passaggio dei soldati. Il nostro sogno di essere a Santa Caterina Valfurva per mezzogiorno svanì. Si camminava di buon passo malgrado le racchette che sprofondavano nella neve molle, il sole ci dava energia dopo tanto freddo. Il pensiero di essere alla fine della nostra fatica e la strada ormai definitivamente in discesa ci spingeva avanti ulteriormente. Le pattuglie erano molto distanziate tra loro, anche centinaia di metri, c’era il rischio di slavine. La mia squadra aveva perso il contatto visivo con quella che la precedeva. Io mi trovavo nel penultimo gruppo, l’ordine di marcia si era un pò confuso con tutti quegli imprevisti e le pattuglie si erano ricomposte in base alla velocità di marcia dei singoli. La mia squadra era troppo lenta per la mia voglia di arrivare ma tanto io dovevo stare in coda. In fondo alla valle si vedevano le prime case e i segni della vita beata dei turisti.

 

Parte dodicesima: La slavina

Girammo un costone quando un rumore sordo ci colpì. Sul momento non capimmo cosa stava succedendo poi un sergente AUC si mise a urlare a squarciagola. Ci mettemmo a correre giungendo sul ciglio di una vallata dove sembrava si fosse abbattuto un terremoto. La neve era sconvolta e decine di alberi erano spezzati. Una slavina si era portata via una pattuglia di commilitoni. Abbandonammo gli zaini e con le piccozze ci buttammo a rottadicollo giù nella scarpata. Alcuni alpini stavano già scavando, le altre pattuglie stavano tornando indietro. In pochi minuti ci trovammo in una trentina di persone a bucare il fianco della montagna. Quattro li recuperammo subito, i loro corpi erano semi sommersi nella neve. Il quinto fu trovato più tardi, intontito ma ancora vivo. Sembrava tutto a posto quando si sparse la voce che ne mancava uno all’appello. La massa nevosa aveva inghiottito gli alpini così velocemente che non c’era stato il tempo di sciogliere il cordino da valanga. Nessuna traccia dello scomparso. Ci mettemmo a scavare furiosamente. Un sergente scavava a mani nude piangendo ed imprecando. Lavorammo come dannati ma del disperso non c’era alcuna traccia. Poi finalmente una voce gridò. Era passata poco più di mezz’ora ma a noi era sembrato un tempo infinito. Mi precipitai ai piedi di un albero spezzato e dalla neve vidi spuntare un piede. Scavammo delicatamente per liberare il corpo ma capii subito che non c’era più niente da fare. Il cuore aveva ceduto. Guardavo quegli occhi spalancati in un urlo silenzioso di terrore. Non avrei mai immaginato che la morte avesse il volto di un ragazzo di vent’anni come me. – Dai Pastiglia, fa qualcosa! – urlò disperato un amico. Cosa potevo fare? Troppo tardi. Ero una statua di ghiaccio senza più pensieri. Un ragazzo si gettò sul corpo esanime quasi volesse riscaldarlo. Mi staccai dal gruppo e cominciai a risalire la ripida scarpata per andare non so dove. Vidi che infilavano il cadavere nel mio sacco a pelo; vidi volare per aria le mie calze di lana che mia madre mi aveva mandato e che avevo messo ad asciugare nel sacco a pelo; vidi la mia inutile barella buttata da una parte; vidi lo zainetto aperto e i medicinali sparsi sulla neve. Non c’era nulla che poteva servire. Mi ritrovai seduto sopra una roccia a piangere. Come un bambino. Poi qualcuno mi scosse con delicatezza, mi mise una sigaretta tra le labbra e disse: – Vieni, c’è del lavoro per te – Raccolsi il mio zainetto e i medicinali.

 

 

Parte tredicesima:Ritorno alla vita

Il sergente ed alcuni alpini che avevano scavato a mani nude avevano un principio di congelamento. Il posto si popolò di gente; arrivarono squadre di soccorso, sciatori, il gatto delle nevi. Un elicottero partito da Bolzano sorvolava la zona. Giunse anche un medico, un sottotenente di cavalleria che conoscevo perchè era amico del mio sottotenente medico. Gli feci un breve resoconto dell’accaduto. Lui mi disse: – Tranquillo, hai fatto il massimo possibile- Poi decise di fare un’iniezione al cuore al povero ragazzo. Più che altro per uno scrupolo. Erano trascorse ormai due ore dalla morte. Seppi in seguito che il ragazzo era morto subito. Gli era letteralmente scoppiato il cuore. La fatica, la paura. Chissà. Fummo radunati, o meglio, ammucchiati in uno spiazzo. Una confusione totale, ufficiali di tutti i gradi erano spuntati dal nulla, ordini che andavano e venivano. Nessuno sapeva cosa fare mentre un centinaio di ragazzi di vent’anni muti, sporchi, affamati e instupiditi aspettavano qualcosa. Ci fu una vibrazione sotto i nostri piedi, la massa di neve si mosse leggermente ma rimase al suo posto. Caricammo i nostri zaini sui gatti delle nevi e, alla spicciolata, cominciammo a scendere a valle. L’elicottero continua a volare in tondo; forse volevano contarci dall’alto, certo che sembravamo tutto fuorché un reparto dell’esercito italiano. A pochi chilometri da Santa Caterina incrociammo un gruppo di ragazze che sciavano lungo la pista. – Bella! Me lo dai un passaggio?- Giannini ci stava provando – – Se riesci a saltare sopra i miei sci- rispose una ridendo. Le guardammo in silenzio fino a quando l’ultima sparì dietro la curva. – Non so cosa ne pensate voi ma quello era un Culo con la C maiuscola- sospirò Giannini. Si tornava a vivere.

 

 

 

Nota dell’autore

Il comando militare aveva dato l’ordine di sospendere tutte le esercitazioni invernali per le pessime condizioni ambientali. Noi non ricevemmo mai l’ordine. I giornali e la televisione diedero la notizia che un reparto di alpini era stato dato per disperso sulle montagne delle Alpi a causa di una tormenta. La notizia provocò collassi e malesseri vari in tutte le mamme (compresa la mia). II soldato morto, dopo una breve cerimonia nella chiesa di Santa Caterina, fu caricato su un camion e con la scorta di dieci commilitoni, riportato al suo paese. Il finto malato fu congedato dopo un mese. I medici gli avevano riscontrato un grave difetto cardiaco non rilevato durante la visita di leva. Probabilmente stare al caldo gli aveva salvato la vita. Il capitano Valeri, nei mesi successivi, ogni volta che doveva spostarsi con la sua compagnia, non richiedeva un infermiere qualunque. Voleva il “sardo”. La mia solita fortuna.

 

l'alpinoLeo

 

Dal racconto “romanzato” alla realtà

Sul sito dell’Associazione Alpini di Conegliano è presente la seguente notizia storica:

“10 febbraio 1968. In Valfurva, una slavina di notevoli proporzioni si è abbattuta il 10 febbraio su una pattuglia della 52° compagnia del battaglione Edolo del 5° Reggimento Alpini. Proveniente da santa Apollonia, poco distante da Pontedilegno, la pattuglia era in marcia di trasferimento a piedi da oltre dieci giorni e aveva raggiunto il passo Gavia a quota 2621.La sciagura è avvenuta durante la discesa verso Santa Caterina Valfurva, durante un passaggio obbligatoria. Nell’incidente sono stati coinvolti sei alpini: Walter Pederzoli di Darfo( Brescia) che è rimasto ucciso, Roberto Brisoni di Voghera che ha avuto una caviglia fratturata mentre altri alpini  sono stati estratti illesi”

GAVIA 3

(*)

Mi chiarisce l’autore che il racconto può avere molte chiavi interpretative. Leo non ha mai amato armi e divise ma gli alpini li ha sempre considerati soldati speciali. Non crede esista in nessun esercito del mondo un corpo militare simile. Per quanto riguarda il capitano Valeri (nome inventato), mi spiega anche  – avvalorando in questo modo l’ipotesi che il racconto sia realmente autobiografico – che non era un uomo cattivo ma solo un militare fanatico che applicava i regolamenti alla virgola. L’averlo  voluto in seguito in tutte le sue missioni era solo un modo per esprimere stima e fiducia nell’ operato dell’ infermiere isolano. Lo considerava un buon soldato e da allora in poi non mise mai in discussione le sue, per così dire, “diagnosi” mediche.

 

Per saperne di più sul PASSO DI GAVIA:

http://it.wikipedia.org/wiki/Passo_di_Gavia

“Passo di Gavia”, un racconto inedito di Leo Spanuultima modifica: 2014-11-20T12:57:44+01:00da piero-murineddu
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