Giannetto Masala e il valore che diamo alla Cultura

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Sorso è un paese che ha paura delle propria memoria, tende spesso a dimenticare gli uomini, i fatti, le storie. Forse è la nostra società ossessiva e opprimente che ci spinge a correre sempre avanti. Forse non abbiamo tempo per fermarci a riflettere, a ricordare. Come bambini, ci svegliamo ogni mattino come se fosse il primo giorno. Il passato si spegne durante la notte e noi ci presentiamo al mondo come vittime sacrificali di un Moloch consumistico che frantuma e divora sogni e persone. Così la nostra memoria diventa un prodotto di consumo, un articolo usa e getta. Abbiamo una sola arma di difesa, la poesia con i suoi fragili e indifesi soldati: i poeti, piccoli grandi uomini che riescono a parlare di noi attraverso il tempo, fuori dagli schemi stabiliti, oltre le cattive abitudini.Se abbiamo voglia di ascoltarli.” (Leo Spanu)

 

Ma perchè i tuoi conterranei non ti onorano come si converrebbe?

di Piero Murineddu

Quanto su riportato sono le considerazioni in premessa ad un ricordo del Masala che il nostro concittadino Leo Spanu ha pubblicato sul “Corriere Turritano” nel gennaio 2012, ripreso poi nel suo blog nell’agosto 2015.

Sorso avrebbe paura della propria memoria. In un primo momento non ho capito tale affermazione, e per questo avevo contattato Leo per avere chiarimenti in merito.

A dir la verità la sua spiegazione non mi aveva convinto molto, o forse é il parlarsi per telefono a non permettere piena comprensione.

Rileggendo comunque con più attenzione, il passaggio che mi ha illuminato un tantino di più è il seguente: “La Memoria è come un prodotto di consumo,un articolo usa e getta“.

La cosa mi ha portato a riflettere.

Ma perchè i tuoi conterranei non ti onorano come si converrebbe?“, ebbe a chiedere al Masala la giornalista Raffa Garzia, come sopra riportato. Che io sappia, non ci è dato di conoscere la  risposta dell’avvocato e poeta sussincu vissuto tra l’800 e il ‘900. I tempi erano diversi, ma chissà che, allora come forse anche oggi,  Masala serbasse del risentimento per questa mancanza di riconoscimenti da parte dei suoi concittadini.

Certo, c’è sempre quella evangelica verità che nessuno è profeta in patria, ma il fatto è che altrove, le località che hanno dato i natali a letterati e personaggi di rilievo nei diversi campi della Conoscenza, dell’Arte o semplicemente del “comportamento” umano, in vari modi quei luoghi vengono identificati con tali persone o coi fatti a loro legati.

Mi chiedo:

– Consapevole “amnesia” verso chi in varie forme nel passato ha dato lustro al posto dove anche noi siamo nati?

– “Paura della propria memoria”, e le cose di cui si ha paura si tende a nasconderle, mi dice Leo. Ma perchè questa paura di quelli la cui arte o capacità li ha fatti emergere ad un livello non comune?

In questa società dell’Apparire, in effetti può risultare più comprensibile provare invidia per chi ha possedimenti  più di noi, ha “roba”, cose che gli permettono una vita maggiormente agiata. Insomma, in quest’era dell’Accumulo può attirare attenzione più chi HA di quello che più È.

Sempre la solita storia, insomma, e su questa questione del non dare importanza a chi ha prodotto “Cultura” più che accumulare “roba”, continuo a pormi altre domande:

– Individualismo esasperato che porta ad occuparsi esclusivamente del proprio orticello, del piccolo operato della vita che si conduce, mettendosi di conseguenza al centro dei propri interessi?

– L’ignoranza diffusa –  dovuta non solo al basso livello scolastico – che non permette di conoscere queste eccellenze umane, prevalentemente del tempo passato?

– L’ infondata convinzione che è solo quello che arriva da fuori meritevole di particolare attenzione e senz’altro di particolare valore?

– Mancanza di associazionismo culturale, finalizzato alla conoscenza approfondita di questi personaggi e di ciò che son stati?

– Susseguirsi di una politica locale che si occupa, spesso con risultati discutibili, della piccola contingenza del presente, incapace di pensare in grande?

– Paura di confrontarsi con le alte figure del nostro passato  il cui operato ed insegnamento potrebbe costringerci a giudicare con severità un presente che ci vede poco invogliati ed impegnati a costruire una nuova socialità, una nuova politica, una nuova passione per le più svariate arti?

– Oppure, chi nel passato e pure nel presente,  ha raggiunto insoliti traguardi e mostrato di possedere particolari capacità, siano esse letterarie, poetiche, artistiche, musicali, sportive,sanitarie ed altro, ha messo lui le distanze dal popolino, creandosi un’ “intoccabilità” narcisistica e permettendo a pochi privilegiati l’onore di frequentarli, magari anche crogiuolandosi in un voluto auto isolamento narcisistico?

– Il dare in generale poca importanza alla Cultura, nel senso a ciò che siamo stati e che ora siamo, per la convinzione che bisogna guardare più alle cose concrete che a quelle “evanescenti”, quale potrebbe essere considerata appunto la Cultura?

 

In questa pagina riporto la prima parte del lavoro che una cittadina di Sorso, Caterina Fiori, nell’ambito dei suoi studi classici, ha realizzato per omaggiare la figura di Giannetto Masala che, come lei afferma all’inizio del suo volume,  rimane ai più ancora sconosciuta.

Chi fosse interessato all’acquisto, può trovare il volume nelle librerie o richiederlo direttamente alla casa editrice EDITORIALE DOCUMENTA, PIAZZA GRAZIA DELEDDA 7 – 07030 CARGEGHE – www.editorialedocumenta.it

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MARIA CATERINA FIORI

Laureata con il massimo dei voti e la lode in Lettere e Filosofia presso l’Università degli studi di Sassari. Vincitrice della Borsa di Studio per «Le migliori tesi di laurea riguardanti argomenti sulla città di Sorso e sul territorio della Romangia» bandito dall’Università di Sassari con la collaborazione del Comune di Sorso. Premiata nel 2008 alla seconda edizione del concorso “TesiSarda”, bandito dalla Biblioteca di Sardegna.

 

L’UOMO, IL POETA E L’AMBIENTE STORICO

 

Giannetto Masala (il nome completo che risulta dall’atto di nascita è Giovanni Pietro Giuseppe Maria) nasce a Sorso il 6 giugno 1884 da Giuseppe e da Maria Ignazia Marogna nella casa che ancora si trova in via Salvatore Farina al numero 40.

Figlio unico, cresce con amore smisurato da parte della madre, frequenta le scuole elementari a Sorso e continua gli studi presso il seminario arcivescovile e il Collegio Canopoleno di Sassari. Gli studi secondari li completa nelle città di Tempio, Nuoro, Alghero e Cagliari, seguendo sempre, nei vari trasferimenti di sede, la famiglia dello zio materno, il giudice Eugenio Marogna. A Sassari dal 1904 frequenta l’università seguendo regolarmente i quattro anni della facoltà di Giurisprudenza e conseguendovi la laurea il 4 luglio 1908.

Durante la vita goliardica, il suo naturale amore per la poesia lo porta a scrivere i primi versi in periodici di provincia, quali «Il Burchiello», noto settimanale fondato da Salvator Ruiu e Barore Scano, e «Il Massimelli» di Guido Aroca. Masala manifesta chiaramente la sua propensione per la poesia, i discorsi celebrativi e l’eloquenza politica più che per la vita forense. Ben poco conosciamo della sua attività d’avvocato, se non un accenno in un’arringa del noto legale del foro di Sassari Giuseppe Castiglia:

Giannetto Masala che con tanta scienza, aveva iniziato la carriera penale, per la quale egli aveva tutti i numeri, da quello della mente, a quello del sentimento e del cuore; […] Che però lasciava i suoi lavori operosi o nelle cause penali o nelle opere letterarie per correre a difesa di popoli che pareva meritassero di essere difesi.

Nel 1904 pubblica su «L’Unione Sarda» diretta da Raffa Garzia le prime tre parti de Il Canto D’Angioy, «composto nell’eremo di Sorso» dedicato agli ultimi eroi della libertà sarda. Nel marzo dello stesso anno «L’Unione Sarda» pubblica una prima serie di Sonetti Materni la cui composizione risale all’ottobre del 1903; la seconda serie fu pubblicata ne «La Vita Letteraria» di Roma (6 ottobre 1907). Nell’edizione domenicale de «L’Unione Sarda» del 1904 sono pubblicate Le Terzine dei Bimbi. Il Masala trovò vasta risonanza nell’Isola nel gennaio 1906, con la pubblicazione della poesia La Lampana che suscitò tante discussioni, commenti e persino parodie. L’anno successivo il nostro autore fa pubblicare su «La Nuova Sardegna» la prima edizione de Il Canto D’Angioy, che riprende l’avvio del 1904; l’ultima edizione, in molte parti rivisitata, sarà pubblicata nel 1908 nel quotidiano sassarese di Gustavo Paoletti, «L’Epoca», per il centenario della morte di Giovanni Maria Angioy. Sempre nel 1907, su «La Nuova Sardegna» esce la canzone Ai fratelli del mare. Qualche scena drammatica d’argomento regionale, come Re con bisaccia e Stevene Sole, viene pubblicata nello stesso anno da «La Vita Letteraria», e nell’agosto il Masala dà a «L’Unione Sarda» Poemetto intimo.

Alla notizia dei fatti d’Innsbruck (14 novembre), Barore Scano pubblica nel supplemento del suo «Il Burchiello» una prosa che risente dello sdegno per la violenza austriaca e la fiera resistenza degli italiani; il testo in gran parte appartiene al Masala, ma con versi del Satta.

Per il centenario della morte dell’Angioy, l’Associazione Universitaria di Sassari pubblica un manifesto e una lapide marmorea interamente dettati dal nostro poeta. Il 6 aprile il testo del discorso pronunziato dal Masala al Politeama Verdì di Sassari è pubblicato da «L’Epoca».

Dopo la laurea si trasferisce, per un breve periodo, a Roma. Continua a seguire gli avvenimenti politici e culturali “di una terra d’Italia”, come suole chiamare la Sardegna, e collabora al «Carroccio». In questo stesso periodo, secondo il Saba, sarebbe stato proprio Giannetto Masala a curare l’edizione dei Canti Barbaricini di Sebastiano Satta, ma l’opera non reca nessun cenno di tale cura. È però vero che entrambi parteciparono alla stesura del poemetto pubblicato da «Il Burchiello», e che il Satta conobbe e lodò il giovane poeta di Sorso.

Giannetto, nell’inverno del 1912, in piena guerra balcanica, si sposta da Roma in Grecia per seguire Ricciotti Garibaldi. Dal teatro di guerra elogia il battaglione italiano, di cui fa parte, e manda corrispondenze alla «Tribuna», a «Il Resto del Carlino » e a «La Nuova Sardegna». In giubba rossa sulle colline dell’Epiro, precisamente a Drisco, scrive Aldo Spallicis in una rievocazione dell’amico, sappiamo che “Masalino” sa compiere il suo dovere.

Nel 1913, rientrato a Sassari, dopo la conclusione della campagna garibaldina, tiene al Circolo Filologico una conferenza sull’Ellade, patria della poesia e dell’arte. Da conferenziere a giornalista, in pieno periodo elettorale, è il più vivace e attivo redattore del settimanale politico «Testa Cattiva»; gli altri collaboratori sono Luigi Castiglia, Gavino Falchi, Tullio Manca, Mario Mossa e Michele Saba. Il giornale conteneva vignette con didascalie sagaci, frecciate, attacchi aperti e allusioni velate contro gli avversari politici. L’attività giornalistica non proseguirà dopo la chiusura del «Testa Cattiva».

La produzione poetica continuerà entro le mura domestiche ma di quei lavori non si troverà più traccia perché distrutti dallo stesso Masala. Testimonianze orali raccontano che il poeta, in quel periodo, trascorreva il tempo a Badde, la campagna dei Marogna alla periferia di Sorso (sulla strada per Sennori) e che scriveva di pene d’amore. Niente poteva essere più consigliabile di un cambiamento d’aria, e l’occasione attesa arrivò con l’intervento dell’Italia nella Prima guerra mondiale.

Giannetto si arruolò come volontario. Avrebbe voluto essere aviatore ma partirà come fante. Nell’agosto del 1916 si trova in trincea, come sottotenente comandante della III sezione mitraglieri del 285° reparto della 48° divisione.

Nel 1917 è sul San Marco di Gorizia dove trova la morte il 3 giugno 1917. È sepolto nel cimitero di guerra dei Cappuccini a Gorizia.

SORSO ALLA FINE DELL’OTTOCENTO

L’opera poetica del Masala può essere meglio compresa guardando al contesto storico-culturale, quello dell’Italia, della Sardegna e soprattutto della Sorso di fine Ottocento, dal quale il poeta attingerà personaggi e ambienti che prenderanno vita all’interno di essa. Luoghi dell’infanzia divenuti protagonisti attivi della sua formazione umana e sociale e ai quali si deve quel Giannetto giurista, poeta e soldato, che abbandonò l’attività forense per dedicarsi, anima e corpo, al suo primo amore, la poesia. In seguito diverrà soldato, spinto dalla lotta per la libertà e dal senso di patriottismo, parte integrante della sua cultura di sardo prima e d’italiano poi, e per i quali morirà sussurrando: «Viva l’’Italia». Per questa ragione il paese natale e la Sardegna divengono il punto di partenza di un’analisi della vita politica e culturale della Sardegna post-unitaria, all’interno della quale operò il mondo intellettuale sardo e del quale il Masala fu uno dei protagonisti.

Sorso nella metà dell’Ottocento era «un ricco e laborioso paese situato in una vasta pianura con quattromila abitanti in prevalenza contadini», che traevano i maggiori profitti dalle piantagioni di tabacco, dalla coltivazione del grano, della vite e dell’ulivo.

Il paese ottenne la completa liberazione dal regime feudale nel 1839, attraversando, come il resto dell’Isola, una forte crisi economica dovuta alle imposte e alle tasse che gravavano sulla proprietà terriera in seguito all’affrancazione dei feudi o con le chiudende!°. Nonostante la lentezza della privatizzazione delle terre impedisse la nascita di piccoli proprietari, un censimento del 1848 stabilì che metà dell’intero territorio isolano apparteneva a privati”, ma le tassazioni spropositate rispetto al valore reale dei terreni, equiparati a quelli più produttivi d’altre regioni del continente, diedero spesso il via ad un sistema di pressione fiscale che si aggravò sempre più verso la fine dell’Ottocento. Questa profonda crisi colpì anche Sorso, nonostante diverse famiglie nobili e borghesi benestanti possedessero già molte proprietà, specialmente oliveti e vigneti, tanto da divenire in seguito la nuova classe dominante del paese.

Le riforme dei Savoia, attuate tra il 1820 e il 1847, non produssero gli effetti sperati. Le carestie e le sfavorevoli conseguenze delle riforme mostrarono la fragilità delle strutture produttive dell’Isola, basate unicamente sull’agricoltura e sulla pastorizia, e fecero nascere il desiderio di modernizzazione e di cambiamenti sostanziali soprattutto a livello economico,

L’adesione alla lega doganale fu vista dai sardi come l’unico rimedio per allontanare l’Isola dallo stato di degrado e miseria in cui era caduta da diversi anni. Questa avrebbe dovuto garantire sgravi fiscali e un migliore e più proficuo commercio di prodotti, come l’olio e il vino, dei quali si disponeva in larga misura. La richiesta dell’equiparazione agli stati di terraferma fu posta al Re dai Tre Stamenti del Parlamento sardo, anche sotto l’ondata d’entusiasmo nazionalista e patriottico che dalla Penisola si era diffuso in tutta l’Isola. Il 30 novembre 1847, Carlo Alberto, accettando la richiesta, sancì la cosiddetta “fusione perfetta”, decretando la perdita dell’autonomia del Regnum Sardiniae e la conseguente unificazione legislativa ed amministrativa con le regioni continentali dello Stato Sabaudo. Questo segnò una nuova epoca nella storia sarda.

La Sardegna si trovò ad affrontare, dieci anni prima, tutti i problemi e le contraddizioni che il resto d’Italia affrontò nei primi anni dell’Unità: una pressione fiscale che acuiva il già grave stato d’arretratezza economica, il soffocamento delle espressioni di malcontento, la perdita di valore delle tradizioni culturali e linguistiche.

Negli anni precedenti e successivi alla fusione, furono pubblicate diverse opere che «contribuirono a determinare
Un momento significativo di quest’atteggiamento politico fu la scelta di risolvere la questione dei terreni “ademprivili”, ingenti estensioni di terra incolta in prevalenza collinosa e montagnosa, su cui le popolazioni dei villaggi godevano comunitariamente di numerosi diritti, come ad esempio far pascolare gli animali o raccogliere legna. Il governo, spinto dalle crescenti necessità finanziarie dello Stato, scelse di lottizzare buona parte di queste terre e di venderle a privati. Una parte fu data in concessione ad imprese non isolane che ne sfruttarono le risorse boschive trasformandole in carbone, altre furono vendute direttamente dallo Stato o attraverso i Comuni. Ancora una volta, come per l’affrancazione dei feudi, ad essere penalizzate furono le classi sociali più povere che, non avendo i mezzi finanziari per acquistare le terre, videro diminuire ulteriormente le già ridotte risorse. Questo meccanismo, guidato dall’ormai “conosciuta” logica di modernizzazione e di razionale sfruttamento delle terre, non fece altro che avviare un grave processo di degradazione del patrimonio boschivo e accentuare gli squilibri già esistenti fra contadini e pastori e tra le diverse fasce di proprietà terriera, incoraggiando le tensioni e lo stato di conflitto interno.

In questo clima si sviluppò la clamorosa sollevazione dei pastori e contadini di Nuoro che scesero in piazza per protestare contro la decisione di vendere un ampio territorio, su cui esercitavano da sempre i loro diritti di pascolo e di semina. Alla protesta, in un primo momento, parteciparono solo «coloro che più direttamente erano colpiti dalla vendita dei terreni poi l’intera popolazione»

Al grido a su connottu, che divenne il moto del movimento insurrezionale, il Municipio fu assaltato, i documenti e i registri relativi alla lottizzazione rastrellati e bruciati in piazza. Questo termine traduceva l’esigenza delle popolazioni di tornare al “conosciuto”, alla tradizione, che corrispondeva maggiormente ai loro interessi ma soprattutto costituiva per i più poveri la garanzia e la sicurezza per soddisfare i bisogni quotidiani?8, Il processo di modernizzazione forzata delle strutture agrarie aveva introdotto nuovi ordinamenti, sconvolgendo le basi della società rurale tradizionale, scaricando il peso e i costi di tutta l’operazione sulle masse popolari più indigenti e meno preparate ad affrontarli che cercarono, con la protesta e la lotta, di esprimere la loro avversione per ogni elemento di novità. La resistenza contro i soprusi, anche se spesso inutile, «non solo faceva maturare nei protagonisti la coscienza di una società che mutava, ma metteva in guardia l’opinione pubblica e la classe dirigente dal pericolo di non tener conto in modo adeguato di questi mutamenti»

A livelli sempre più alti si creò una diffusa consapevolezza della situazione sarda, denunciata da diversi parlamentari, che spinse il governo italiano a compiere delle inchieste affidando l’incarico a specifiche commissioni. Contemporaneamente, giornalisti, intellettuali e uomini politici svolsero indagini e studi sulla società sarda e sui diversi settori dell’economia, spesso in aperto contrasto con le inchieste ufficiali, ma né gli uni né gli altri riuscirono a risollevare le sorti dell’Isola.

Ad aggravare la già precaria situazione si aggiunse la rottura dei rapporti commerciali con la Francia, che, stanca della politica di “protezionismo” industriale attuata dall Italia, ne attuò una simile nei confronti dei prodotti agricoli. Il mercato francese subì un’improvvisa restrizione, mettendo in gravi difficoltà i produttori sardi che esportavano i loro prodotti: con profitto. Fra questi anche i sorsesi, che tra il 1875 e il 1890 intensificarono i rapporti commerciali con la Francia e con altri porti dell’Italia settentrionale. L’esportazione riguardava soprattutto l’olio e il vino che il paese riusciva a produrre in gran quantità, grazie alle numerose colture e ai diversi frantoi a trazione animale: ben sedici, che erano in funzione gia dal 1876.

L’apparente espansione economica coinvolse anche il settore cerealicolo, che proprio nel piccolo paese di Romangia vide l’apertura di una fabbrica di paste alimentari, nella quale si utilizzavano apparecchiature a motore per la macinazione dei cereali. Con la crisi causata dalla “guerra delle tariffe” alcuni settori in espansione entrarono in crisi, come quello della viticoltura, già colpito da epidemie di fillossera, e dell’olivicoltura che, se sostenuti, avrebbero potuto espandersi, promuovendo quel processo di conversione e modernizzazione agognato da tempo. I prezzi dell’olio e del vino salirono, mettendo in crisi i produttori sardi che si trovarono impreparati ad affrontare problemi di concorrenza di mercato.

La crisi colpì anche il settore della pastorizia, che «nel decennio a cavallo del 1870 imbarcò una media di 15-20 mila capi di bovini l’anno» e, grazie alle esportazioni, aveva aumentato il patrimonio bovino e soprattutto ovino. Il processo evolutivo del settore fu stroncato dal blocco delle esportazioni verso la Francia:? e dalla caduta del prezzo del latte, invertendo la tendenza positiva che sì era creata fino a quel momento. Ad aggravare la crisì e la ripresa delle attività agro-pastorali contribuì il fallimento di alcuni istituti di credito locali*3, dove diversi clienti «persero totalmente i pochi risparmi faticosamente accumulati»,

L’unico settore dell’economia dell’Isola che, pur tra svariate crisi, riuscì a resistere, per molti decenni, fu quello minerario. La produzione, concentrata nel bacino dell’Iglesiente, ebbe un improvviso sviluppo negli anni tra il 1865 e il 1879 in seguito all’aumento dei prezzi dei minerali nei mercati internazionali e per la ricchezza dei giacimenti, sfruttabili con costi limitati. Gli effetti provocati sul territorio furono notevoli, soprattutto nei modi di vita delle popolazioni e nella struttura degli insediamenti cittadini; infatti, i paesi nei quali l’attività mineraria aveva avuto lo sviluppo maggiore «come Carloforte, Iglesias, Guspini, Gonnesa, Buggerru modificarono la loro funzione e le caratteristiche socio-urbanistiche, crescendo economicamente e culturalmente»

La situazione complessiva della Sardegna di fine secolo fu connotata da una serie di elementi contraddittori: da un lato l’arretratezza economica e dall’altro un lento ma graduale processo evolutivo, almeno per alcuni settori, che modificava una tendenza, ormai da lungo tempo, negativa. Di fatto, l’organizzazione produttiva agro-pastorale non era in grado di far fronte alle continue crisi, ma, nonostante ciò, si evidenziò che l’allevamento e le colture agricole mostrarono una propensione alla trasformazione e all’ammodernamento.

Lo sviluppo del settore minerario, con tutti i limiti che lo definivano, segnò una crescita culturale e politica, con la nascita di un nuovo ceto sociale: quello operaio. Purtroppo i settori erano ancora quelli tradizionali, ed alcuni ebbero perdite sensibili; le miniere, anche dopo aver superato la crisi, dovettero diminuire i salari e ridurre la mano d’opera impiegata, aumentando così il numero dei senza lavoro pure nelle campagne, dove gran parte dei coltivatori furono relegati al livello più basso della scala sociale.

La povertà raggiunse livelli preoccupanti e in alcune zone, come quelle interne, il “malessere” si manifestò con vere e proprie esplosioni di criminalità. Nell’ultimo decennio del secolo, rapine, omicidi, estorsioni e furti aumentarono notevolmente, e il banditismo, prima isolato a singole persone o a piccoli gruppi, divenne ben organizzato. Le gesta dei banditi, che la facevano da padroni a Nuoro e nelle zone limitrofe, erano spettacolari, come anche le “bardane”, suscitando notevole interesse nell’opinione pubblica anche a livello nazionale.

Di fronte a questo complesso problema d’ordine pubblico, le motivazioni sociali ed economiche per il risanamento dell’Isola passarono in secondo piano, tanto che l’inchiesta governativa condotta dal Pais Serra si occupò anche della sicurezza pubblica, offrendo lo spunto per elaborare una teoria che «aveva la pretesa di dare una spiegazione dell’arretratezza del Mezzogiorno e della Sardegna»?8,

La teoria fu elaborata dal Niceforo, esponente della scuola d’antropologia e di sociologia criminale del Lombroso, che riconduceva l’attività criminale dei banditi oltre che a condizioni storiche e sociali, ad una predisposizione naturale a delinquere, rilevabile in caratteristiche psichiche ed organiche congenite. I sardi ed in particolare gli abitanti della “zona interna” dell’Isola furono definiti come “razza a delinquere” e l’hinterland del Nuorese come “zona a delinquere”. Secondo questa teoria, a nulla avrebbe giovato un intervento per risollevare l’economia, poiché le popolazioni erano destinate ad un declino inarrestabile a causa dell’incapacità congenita.

Grazie alle teorie della scuola d’antropologia criminale si giustificò la politica del governo, «sia per quanto riferiva agli interventi economici che alla repressione»s. L’azione del governo, di fronte alla drammaticità del fenomeno, fu coerente con la sua tradizionale politica d’intervento che reprimeva militarmente qualsiasi forma di dissenso o di devianza. La “grande” operazione di polizia «venne perciò pensata ed attuata come una vera e propria “guerra” che sfociò nella così detta “Notte di San Bartolomeo”. La forza dello Stato aveva vinto, ma si trattava di una vittoria effimera perché l’affermazione della legge fu ottenuta con una lotta indiscriminata e non con la solidarietà della popolazione, che continuò, anche in seguito, ad osannare i latitanti come zigantes nei canti popolari.

Curioso notare come in quegli anni terribili, funestati dalla crisi dell’agricoltura e della pastorizia e dal fenomeno del banditismo, si possa ravvisare un maggiore dinamismo culturale con una chiara tendenza ad uscire dall’isolamento. Nacquero decine tra giornali e riviste di varia ispirazione, tra cui a Cagliari «L’Unione Sarda», nel 1889, e due anni dopo a Sassari «La Nuova Sardegna», nei quali il Masala, agli inizi del Novecento, pubblicò le sue liriche. Lo sviluppo della scolarizzazione aveva contribuito a potenziare il numero dei possibili lettori, anche se il tasso di analfabetismo in Sardegna era tra i maggiori d’Italia. I giornali mutarono i loro caratteri ed iniziarono ad orientare l’attenzione sui fatti di cronaca locale, nazionale ed internazionale e su temi d’informazione, non solamente politici ma anche scientifici, artistici e letterari.

Aumentò anche la circolazione libraria, con i fruitori che sì orientavano sempre più verso la narrativa, il racconto popolare, il romanzo storico o d’appendice. Sono gli anni in cui scrittori come Enrico Costa, Ottone Baccaredda e soprattutto il sorsese Salvatore Farina pubblicarono con successo i loro romanzi. Una certa proliferazione di studi anche in campi più specialistici (storico, economico, linguistico, etnologico) si notò nelle numerose riviste di varia cultura, destinate ad un pubblico medio sempre in crescita. Certamente non si può parlare di comunicazione di massa, ma «la Sardegna non è più una terra lontana ed ignorata e i nuovi sistemi di comunicazione si preparano a farne un elemento attivo della vita italiana»33, inserendola in un vastissimo mondo d’idee e di fatti esterno, ben lontano dai ristretti orizzonti locali.

AI fervore culturale, che coinvolse gli strati medi della borghesia urbana e rurale, si contrappose lo scarso interesse delle masse più popolari, che, prive di rapporti continui con le città e limitati dall’analfabetismo, si chiusero nell’isolamento della loro cultura. Il mondo della scuola e la lingua italiana spesso rappresentavano soltanto l’emblema di un potere esterno e tiranno, oltre ad essere un “lusso per signori” che non si dovevano certo preoccupare di procacciarsi il cibo. In realtà questo mondo aveva una “sua” scuola (materna, familiare, sociale), una cultura e soprattutto una lingua. Infatti, il codice comunicativo utilizzato dalla maggior parte della popolazione era il sardo; soltanto le classi dirigenti erano italofone. L’italiano rimase la lingua del maestro elementare, del medico condotto, del prefetto, dell’esattore e del parroco e la diversità, già emersa in passato per alcuni versi, assunse i caratteri di scontro «non solo tra due culture ma tra modelli culturali e di sviluppo diversi».

Dai cambiamenti socio-culturali, posti in essere dalle nuove esigenze della società e della vita politica, si svilupparono nuovi orientamenti, che portarono alla nascita del socialismo. La nuova propaganda, arrivata dalla Penisola, portava quell’idea di liberazione e di riscatto che trovò «una facile ambientazione nella condizione umiliante dei lavoratori, e adesione, non solo tra operai e braccianti, ma anche fra studenti e intellettuali».

Sotto una spinta prettamente repubblicana, si comprese di dover impegnare le masse lavoratrici e soprattutto gli strati più poveri della popolazione nella lotta contro un sistema clientelare che da lungo tempo dominava il paese. Fu questo lo spirito da cui nacque a Sorso, su iniziativa dell’avvocato Antonio Catta, la lega agraria “Popolo Sovrano”, che continuava la tradizione della vecchia Società operaia di mutuo soccorso. Lo scopo dell’avvocato fu far recepire alle classi più umili quello spirito di ribellione verso i soprusi della classe politica, stabilendo «un legame permanente con le masse contadine e operaie, alle quali si rivolgeva quasi sempre in dialetto, per rendere più accessibile la propaganda socialista»

La Sorso di fine secolo partecipò attivamente alle lotte politico-amministrative, tanto da divenire il primo paese in Sardegna ad eleggere un sindaco socialista, e a quella crescita culturale che fiorì in tutta l’Isola. L’ambiente sorsese, forse grazie anche all’estrosità che contraddistingue i suoi abitanti, fu vivace e aperto ad interessi molteplici. Vide la nascita di un ceto intellettuale di formazione umanistico giuridica (Catta, Farina, Baracca, Masala), che rappresentò, in campi differenti (politico e letterario), i diversi ceti del nuovo Stato nazionale.

Lo scrittore più noto della fine del secolo fu certamente Salvatore Farina (1846-1918). Nato a Sorso ma cresciuto in diverse città, a causa dei continui trasferimenti del padre, procuratore del Re, frequentò il liceo e nel 1868 si laureò in Leggi all’Università di Pavia. In seguito si trasferì a Milano, dove intraprese un’intensissima attività letteraria di novelliere e romanziere, e le sue opere furono tradotte in diverse lingue, soprattutto in tedesco. Non dimenticò certamente il suo paese natale, luogo di ricordi d’infanzia, della famiglia e di quel mondo sardo che spesso assumerà forma e colore nelle sue opere. Nei romanzi, Farina, rivolgendosi a gran parte della sociètà italiana, si fa interprete, come il De Amicis, di quel ceto sociale che vive in ristrettezze economiche, e propone modelli di laboriosità, onestà, sacrificio e dedizione alla famiglia, spesso inseriti in una specifica tematica autobiografica. I suoi romanzi furono un successo non solo in Italia ma anche all’estero, tanto che fu definito il Dickens italiano. È, certamente, lo scrittore più importante della fine dell’Ottocento e quello che rappresenta meglio il momento di completa integrazione degli intellettuali sardi nella società nazionale.

Nello stesso periodo al sodalizio del Farina appartenne Giovanni Baracca (1843-1882), la cui opera letteraria ne rispecchia l’indole turbolenta, il carattere irrequieto e lo spirito battagliero. Nel 1872 fu uno dei redattori della «Giovane Sardegna» e le sue invettive politiche o amministrative dallo stile impetuoso e sarcastico suscitarono le ire di molti lettori. Collaborò attivamente a «La Stella di Sardegna» di Enrico Costa, con poesie e articoli che raccontavano le sventure e ì dolori dell’isola, inveendo senza misericordia contro gli aggressori del passato e i denigratori del presente; nel giornale «La Meteora» furono pubblicati drammi d’ispirazione storica e sociale (I! Tigellio, Il Marchese di Cea, Angioy, Eleonora d’Arborea e Piaga sociale), che descrivono, nelle loro ambientazioni, la Sardegna antica, medievale e moderna. Per la produzione poetica Baracca attinse a modelli letterari ed estetici carducciani per ciò che riguarda la produzione italiana, e a Satta per quella isolana. Le sue poesie sono caratterizzate da una specifica tematica di carattere civile e sociale, con spunti d’agonismo con cui possiamo contraddistinguere tutte le sue opere.

Nella Sorso di fine secolo, pervasa di quello spirito di rinnovamento culturale che sconvolse tutta l’Isola, si formarono giuristi, scrittori, poeti, politici e scienziati che diedero notevole lustro al paese e nei quali si può individuare come linea comune quel forte senso di patriottismo che nasce dalla conciliazione di due culture differenti: quella italiana, ma soprattutto quella sarda, rese tangibili nell’opera poetica del Masala.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Giannetto Masala e il valore che diamo alla Culturaultima modifica: 2024-06-03T07:45:30+02:00da piero-murineddu
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