Quando la donna in casa faceva e disfaceva a proprio piacimento…….

di Piero Murineddu

La Sennori di prima raccontata da un’accudidda. Una descrizione che rispecchia la vita che si svolgeva una volta nei paesi della Sardegna, ma anche altrove. Sennaru e Sossu, distanziati più o meno da due chilometri ma “separati” sia dalla parlata, logudorese la prima e sassarese la seconda, s’intende con le inevitabili varianti locali, ma probabilmente da un “carattere” alquanto diverso, anche se generalizzare rimane cosa sempre azzardata.

Caterina evidentemente in una casa normale non è capitata, in quanto, almeno per la povera gente, l’abitazione tipica era un fondiggu, unico locale spesso umido, coi vari spazi separati da tendaggi o altro ancora. Col tempo e con più sicuri guadagni provenienti dall’avvento del micidiale petrolchimico di Rovelli a Porto Torres – quell’ estesa mostruosità che ha occupato, inquinandolo, un territorio verde affacciato sul mare e che ancora non si riesce a liberare della maggior parte degli impianti oggi ridotti a scheletri a testimoniare l’ insensatezza umana – hanno iniziato a sorgere piani nuovi. Ed ecco le tante palazzine, obbligatoriamente pressate una accanto all’altra e cresciute unicamente in altezza, dove magari il “moderno” bagno era stato sistemato a pianterreno, nel sottoscala, forse anche col salotto che non veniva mai usato perchè doveva apparire sempre al meglio quando capitava qualche occasionale ospite, la cucina al primo e le stanzette da letto nel secondo. Poi c’erano le mamme, padrone assolute della casa, che di tanto in tanto stravolgevano l’intera casa senza minimamente consultare almeno il marito, e non solo cambiando disposizione dei mobili, ma proprio tutto: bagno all’ultimo piano, stanza da letto all’entrata, soffitta interrata, garage al secondo piano e cucina …in strada direttamente. Non so la vostra, ma mia madre era più o meno così. Ah, le mamme di una volta, che forza e che…fantasia! E guai contraddirle! I poveri mariti rischiavano di rimanere a “stecchetto” per settimane e settimane, con la consorte vendicativa che se ne stava al margine opposto del lettone.

Molto particolareggiato il racconto fatto da Caddarina, la signora porthuddorresa coi capelli cotonati.

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Chiesa parrocchiale di Sennori fotografata da Giulio M. Manghina

Arrivata da Porto Torres ad abitare a Sennori

di Caterina Paglietti 

Testimonianza elaborata da Paola Rosalinda Marongiu nel volume “Raccontando Sennori” (2013) Editoriale Documenta

Arrivai a Sennori nel 1960, dopo il mio matrimonio, all’età di 25 anni. Fino a quel momento avevo vissuto a Porto Torres.

Sin da subito notai quanto il paese fosse diverso da quello mio d’origine e con la stessa velocità mi adattai.Mi apparve grazioso e particolare, con le sue vie in salita, gli orti, i cortili sul retro delle abitazioni e gli asini “parcheggiati” in strada legati a sa loriga, un anello di ferro attaccato alla facciata delle case.

Le abitazioni, alcune molto semplici e piccole, altre più grandi, concentrate al centro nella principale Via Roma o in Via Farina, erano generalmente a piani, con molte scale, spesso ripide, all’interno. Non c’erano servizi igienici ma, nel sottoscala o nell’ingresso, c’era un’apertura tappata da un coperchio, collegata alla fogna.

I più fortunati, come mia suocera, avevano una casa molto grande, composta da varie camere. Al piano terra vi erano una camera da pranzo e un salotto che venivano usati molto poco, al piano superiore le stanze da letto. Salendo ancora, si trovavano delle grandi soffitte, ordinate e pulite, dove, all’interno di grandi coivulos, si conservavano le mele miali, i pomodori e i fichi secchi.

La vita quotidiana si svolgeva nella grande chintina, che oggi chiamiamo scantinato, con il pavimento come quello del marciapiede, in graniglia grigia con disegni floreali incisi, che brillava perché pulito.

L’arredamento era ridotto all’essenziale: una grande mesa con tante sedie intorno, una cuscia, un divano-letto in ferro con il materasso molto alto, una credenza e la macchina da cucire Singer sotto la finestra. Un lavandino in pietra stava all’angolo della grande porta che si apriva sul cortiletto, occupato da una grande vasca utilizzata per lavare la biancheria, da un bagno completo di vasca fatto costruire da mio marito e dal pollaio recintato che occupava la zona laterale. Quando si faceva il bucato, al centro del cortile si metteva a bollire un grande calderone dentro il quale, dopo aver sciolto la lisciva, la cenere, si metteva la biancheria per renderla più bianca.

Di cucinare si occupava mia suocera e si mangiava tutti insieme, anche i figli sposati. Secondo la tradizione la pasta asciutta al sugo di carne era riservata alla domenica, così come le polpette al sugo. Durante la settimana mangiavamo minestre di legumi o in brodo di manzo o di gallina. In primavera si mangiavano solo fave e a maggio i piselli preparati in tutti i modi. Il pane, di cui ricordo ancora il profumo, non si mangiava appena sfornato, bisognava aspettare e durava una settimana.

Per lavarsi si usava il catino, il bagno si faceva una volta alla settimana, il sabato. La notte, se avevi bisogno, c’era l’orinale di ferro che si teneva sotto il letto o dentro il comodino.

Nelle sere di primavera inoltrata e d’estate, le donne si sedevano fuori dalla porta, sul gradino o sulle panchittas, degli sgabelli in legno, a fare cestini, a cucire e a ricamare. Era l’occasione per aggiornarsi sui fatti e sulle persone.

D’inverno, ci si sedeva intorno a sa coppa, una struttura circolare di legno chiaro con un foro centrale a misura del braciere di rame che veniva inserito all’interno. Mettevamo i piedi sopra sa coppa per scaldarli e poiché non c’era il televisore, si ascoltava la radio o si parlava. Spesso, sopra il braciere si metteva una gabbietta di legno forata che serviva per scaldare biancheria o altro.

Ricordo di essere rimasta molto stupita nel vedere che i fidanzati stavano a distanza, senza potersi prendere neanche sottobraccio. In chiesa c’erano due file separate, gli uomini a destra e le donne a sinistra. Le donne dovevano portare rigorosamente la veletta, nera per le adulte, bianca per le giovani. Anche col caldo, d’estate, bisognava entrare coperte e con le calze. Il messale era d’obbligo. Quando arrivai a Sennori tutti si giravano a guardarmi perché ero vestita “all’europea”. Portavo dei tailleurs di vari modelli alla moda dell’epoca che acquistavo a Sassari, dei cappelli molto belli ed eleganti, i guanti di pelle o di stoffa, le scarpe e le borse Chanel.

Avevo i capelli corti e cotonati e mettevo gli orecchini secondo la moda. Apparivo dunque molto diversa dalle persone del posto. Le ragazze portavano un vestito lungo, in genere scuro, su solinetto, con un’arricciatura nella scollatura. Le donne giovani vestivano con una gonna con l’elastico in vita, lunga sotto il ginocchio, una camicetta e il fazzoletto in testa. Portavano i capelli lunghi raccolti in uno chignon a treccia sulla nuca, e le più giovani due trecce sciolte.Non andavano dalla parrucchiera. Iniziarono diversi anni dopo a tagliarsi i capelli, quando già si usavano corti.

Con me parlavano in italiano e si esprimevano anche bene. L’accoglienza fu subito molto buona, erano molto gentili. Sapendo che ero “di fuori”, la sera, venivano a prendermi le cugine di mio marito per portarmi a fare delle passeggiate in campagna e per raccogliere frutta. Mi portavano a Coronos, in campagna, dove c’era una fonte.Svaghi non ce n’erano. C’era il cinema ma le pellicole non erano aggiornate. C’era anche una sala da ballo.

I figli si partorivano a casa con l’aiuto dell’ostetrica che veniva la Sorso. Al parto assistevano il marito e la suocera che si occupava di scaldare l’acqua.

Noi eravamo già molto fortunati perché, avendo il mulino della farina, l’acqua scendeva dal rubinetto già calda.

Quando la donna in casa faceva e disfaceva a proprio piacimento…….ultima modifica: 2023-12-01T05:40:58+01:00da piero-murineddu
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Commento (1)

  1. Caterina

    Eo puru so Chederina e la destrizione degli ambienti e degli stili.divita sono perfetti. I ricchi erano pochi. La maggioranza viveva alla buona.
    Bravissimi Pier e Caddarina. Unu abbrazzu mannnu dai su core. Quanti rivordi mi frullano per la testa, cose, persone, personaggi, modslita relazioni cona sa cheshjia, ovvero si andava da una persona per chiederle motivo di una offesa ricevuta.I nostri paesi raccontano storie d’amore, di serenate, di matrimoni combinati, de fuzzos de anima…un mondo

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