Razzismo in sette punti

di Alessandro Ghebreigziabiher

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Nel mio piccolo vorrei fare un po’ d’ordine su un argomento che mi tocca personalmente da sempre, ma che ritengo ancora oggi frainteso quanto ineludibile in un paese come il nostro e non solo.

Sto parlando del razzismo.Ho imparato a conoscerlo letteralmente sulla mia pelle fin dalla nascita.

Sono nato in questo paese alla fine degli anni ’60 e basti pensare che sono stato l’unico alunno con la carnagione più scura del solito dell’intero istituto di riferimento per tutto il percorso di studi dall’asilo fino quasi all’università compresa.

Rammento quel giorno alle superiori quando sentii uno dei miei professori affermare – non ricordo il motivo – che nel nostro liceo vi erano circa 600 studenti.
Ebbene, la prima cosa che ho pensato è che voleva dire che i “bianchi” erano 599…

Questa è stata la norma nel mio quartiere, quando giocavo in strada o nei campetti dell’oratorio. O quando andavo al mare, dove le cose si complicavano perché inevitabilmente diventavo ulteriormente scuro.

Non starò qui ad annoiare con la quantità esorbitante di episodi di intolleranza e discriminazione subiti. In parte sono diventati nutrimento per racconti, romanzi o spettacoli teatrali e mi va bene così, perché scrivere o recitare a mio avviso serve anche a questo, a trasformare la sofferenza in qualcosa di diverso, che magari riesca a far sorridere, riflettere o solo generare condivisione.

Tutto ciò, assieme al tempo speso negli anni a documentarmi e confrontarmi sui punti di vista e soprattutto le esperienze altrui, è premessa fondamentale per ciò che sto per dire, con la speranza che mi garantisca un seppur minimo grado di autorevolezza.

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Primo, il razzismo è molto più di quel che di solito viene dai più additato o identificato come tale, il che spesso si quantifica soltanto in una miope e pericolosa riduzione del reale problema a monte. In altre parole, la questione è infinitamente più complessa di così.

Si prenda quale emblematico esempio l’ennesimo episodio diventato virale a seguito di una partita di calcio, con il giocatore preso di mira dai tifosi, e la conseguente condanna del mondo dello sport e delle nazioni interessate, della stampa di settore e non, e perfino di importanti istituzioni. È una scena già vista: la discussione dura qualche giorno, le varie star e i coprotagonisti dello spettacolo che deve comunque andare avanti dichiarano la loro solidarietà alla vittima degli insulti, e vai con altri spot e magliette con le scritte “no racism” a tranquillizzare tutti. Se poi si riesce anche a individuare i responsabili e a bandirli dallo stadio, l’obiettivo è perfettamente raggiunto: i cattivi sono stati puniti e i buoni possono tornare al gioco della vita.

Ovviamente, tale fragile cerotto dura fino alla prossima interruzione dell’incontro da un altro calciatore che non ce la fa più ad accettare l’aggressione verbale di turno.

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Da cui, punto secondo: il razzismo non nasce in uno stadio di calcio, vi arriva dall’esterno. Perché le persone che offendono i giocatori avversari a causa del colore della pelle, sono le stesse che alla fine dalla partita se ne tornano a casa. Vanno a scuola o hanno un lavoro, hanno una famiglia, degli amici, un vita quotidiana come tutti noi e accanto a noi. Le incontriamo sui mezzi pubblici, in ufficio, nel traffico, come vicini di casa o in qualsiasi altra veste. Alcuni magari fanno parte delle nostre conoscenze e neanche lo sappiamo. E lo stesso vale, generalizzando, per tutti coloro che si distinguono per comportamenti simili in qualsiasi altro ambito che non sia la partita della domenica, sia nel mondo reale che quello digitale, dove ormai viviamo una seconda vita.

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Terzo, in questa parte del mondo il razzismo ci viene insegnato da secoli fin da bambini e oramai è come una sorta di congenita malattia autoimmune, la quale senza che ce ne rendiamo conto aggredisce la parte sana del nostro grado di umanità. Nessuno si dovrebbe permettere di sentirsi escluso, perché nemmeno il sottoscritto, nonostante o forse soprattutto dopo quanto detto, ci si sente.

Il razzismo è parte di ognuno di noi, a questo punto della storia.
A prescindere dalla nostra volontà, influisce in ogni singolo istante sul nostro modo di vedere, percepire e sentire il mondo e le persone che ci sono attorno. Per usare un’ulteriore metafora, è come un errore di sistema che è stato da noi stessi inserito nei programmi che determinano la nostra convivenza.

Tuttavia, preferisco quella dell’epidemia innata, perché mi aiuta a rendere meglio l’idea dell’errore che stiamo compiendo quando finiamo per limitare la nostra indignazione soltanto al mero episodio che attira l’attenzione dei media, come le aggressioni verbali o anche quelle fisiche con un esito tragico.

Non vorrei essere frainteso, si tratta di episodi gravi che non vanno tollerati e devono essere prontamente stigmatizzati, ma dobbiamo aver chiaro che sono solo i sintomi della malattia di cui sopra. Per usare il Covid come esempio, sarebbe come intervenire solo sulla febbre o il raffreddore senza preoccuparsi del virus.

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Di conseguenza, quarto punto: il virus del razzismo è ovunque e va aggredito alla radice. E la radice è nelle nostre leggi e nelle nostre istituzioni. Nella nostra Storia e nella nostra cultura. È nel modo con il quale ci raccontiamo a vicenda le cose del mondo e in ciò che insegniamo quotidianamente ai più piccoli e non. A essere razzista è l’impalcatura stessa della nostra intera società, a ogni livello, dal più grande al più piccolo.

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Quinto, non vi è altra via per sperare di guarire da un male che ammettere di esserne affetti. In caso contrario, non c’è alcuna speranza. Solo così si riesce a riconoscerlo per ciò che è e a scoprire dove si annida e più che mai in quale punto e istante ha avuto origine.

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Sesto: per tutti i motivi fin qui esposti, non si può in alcun modo tirarsene fuori dicendo “io non sono razzista”, magari perché uno non ha mai detto la famosa “parola con la enne”, perché ha tanti “amici neri”, perché cita Martin Luther King, perché gli piacciono i film con Morgan Freeman o perché ha il poster di Lukaku in camera. Il “non razzista” non è altro che un complice dell’epidemia sopra citata.

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Settimo e ultimo: se si vuole davvero cambiare per il meglio se stessi e il mondo in cui viviamo, l’unica strada è essere antirazzisti. Ciò necessita piena consapevolezza di quanto premesso e comporta un’azione quotidiana e concreta nel combattere il razzismo fuori e dentro di sé.

Mi dispiace, ma non credo ci siano alternative.

Razzismo in sette puntiultima modifica: 2023-05-30T05:44:40+02:00da piero-murineddu
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