I processi migratori e l’ipocrisia dell’Occidente

di Fabrizio Venafro (lafionda.org)

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La strage di Cutro, come quella recentissima sulle coste libiche, ci devono costringere a ripensare radicalmente l’atteggiamento verso i fenomeni migratori. Innanzitutto nel riconoscere, tra gli altri diritti considerati inalienabili, quello a pretendere attraverso l’emigrazione migliori condizioni di vita. E quando chi respinge è responsabile delle condizioni da cui si fugge, un diverso approccio ai fenomeni migratori è ancor più necessario.

Uno dei padri del neoliberalismo come August von Hayek distingueva tra taxis e cosmos, ossia tra una legge imposta dall’alto, dai governi, e quella che scaturisce dal dipanarsi degli eventi in un continuo adattamento spontaneo verso un’ordine che deriva dall’evoluzione delle società. Tale pensiero è alla base del rifiuto di ogni laccio o impedimento alla libertà d’impresa propugnato dai neoliberali, di qualsiasi barriera alla libertà di circolazione. Il riferimento ad Hayek è pertinente dal momento in cui la destra al governo (va detto in continuazione con i governi precedenti) si fa interprete più radicale di quel pensiero. Ma quella libertà pensata per imprenditori e merci viene negata alle persone, nella fattispecie ai migranti. Nella politica attuale il diritto di emigrare viene misconosciuto. Eppure, l’ordine spontaneo è stato riconosciuto in passato quando erano gli europei a prendere il mare per raggiungere altri continenti. Certo non vi arrivavano da profughi ma da esploratori e da conquistatori. Fu nel 1539 Francisco De Vitoria, ricorda Ferrajoli su il manifesto del 12 marzo, a proclamare il diritto ad emigrare, a sostegno della conquista del Nuovo Mondo.

Un andare troppo indietro nel tempo quello di Ferrajoli? No, perché tale diritto viene continuamente riaffermato a senso unico dall’Occidente. Quando, in una forma neocoloniale, si interviene in altri paesi per esportare la democrazia a suon di bombe, o quando si impone loro un modello di sviluppo e li si assoggetta al cappio del debito, favorendo le condizioni che costringono le moltitudini ad emigrare.

Dalla conquista coloniale, il rapporto tra nord e sud del mondo non è mutato. Il colonialismo, lungi dall’essere stato debellato, si è semplicemente perfezionato in modo da dare l’impressione che i paesi poveri siano responsabili delle loro sorti. Se non crescono è perché non si impegnano abbastanza, non accettano le ricette imposte loro dal fondo monetario internazionale, hanno governi corrotti che non facilitano la dinamica del libero mercato. In realtà, tra il colonialismo ottocentesco e il neocolonialismo attuale c’è un filo rosso che ha come sfondo l’asservimento di quei paesi con la finzione che quella servitù sia in fondo volontaria.

Il colonialismo ha fatto tabula rasa di pratiche tradizionali, ha persino distrutto modelli di gestione del rischio in occasione delle emergenze, ha rotto logiche comunitarie in nome dell’imperativo del mercato e della competizione. Ha ridotto quei paesi a dipendere dalle esportazioni per quanto riguarda la tenuta economica, grazie al sistema delle monocolture o dell’estrazione di minerali e terre rare, e dalle importazioni per quanto riguarda i beni alimentari di sussistenza. Li ha resi insomma un ingranaggio della catena del commercio internazionale, privandoli della minima autosufficienza. Quando qualche paese prova ad invertire la tendenza si vede il governo eletto democraticamente rovesciato da un colpo di stato che fa di nuovo pendere l’ago della bilancia a favore dei paesi ricchi. Persino il rovesciamento del regime di Gheddafi viene visto alla luce del suo tentativo di disancorare i paesi africani francofoni dal franco africano.

Il sud del mondo, inoltre, è quello che maggiormente risente della crisi climatica con il corollario di desertificazione, siccità, fame e povertà conseguenti. Gran parte dei migranti possono ormai essere considerati migranti climatici. I fenomeni migratori aumentano di intensità parallelamente all’aggravarsi della crisi climatica. La relazione tra l’effetto serra e l’effetto guerra è stata ben messa in evidenza da un libro di qualche anno fa di Grammenos Mastrojeni e Antonello Pasini. Nulla più della crisi climatica ci dà la contezza di vivere in un villaggio globale e del fatto che i destini dell’umanità sono comuni. E nulla più della crisi climatica riconduce alle responsabilità dei paesi ricchi.

Per questo, trattare i fenomeni a compartimenti stagni risulta una misura anodina ed ipocrita. La guerra agli scafisti non impedisce i fenomeni migratori generati dallo sfruttamento operato ai danni di quelle terre. La clandestinità è frutto di leggi tese a fare delle frontiere occidentali una rete che filtra unicamente le risorse umane utili a far funzionare l’economia dei paesi ricchi. Il resto risulta un carico residuale che va respinto. Checché se ne dica, la strage di Cutro è figlia di quest’ottica prettamente razzista. Quando poi si stigmatizza il comportamento dei migranti come irresponsabile, così come si stigmatizza la povertà come un’onta e una vergogna di cui sono responsabili suoi protagonisti, il cerchio è completo. Siamo in presenza di quella logica neoliberale che interpreta la vita come lotta e competizione e chi non riesce non è degno di considerazione ma merita disprezzo.

Siamo a quello spirito del capitalismo descritto da Weber per cui chi riesce fa sicuramente parte degli eletti, mentre gli altri sono annoverabili nel cerchio dei dannati, quindi non degni della minima considerazione sotto il profilo umano. Solo che il cerchio dei dannati è più vasto di quanto si creda e si va allargando sempre più. E quando coloro che si credono eletti si ritroveranno dall’altra parte, forse sarà troppo tardi per una soluzione pacifica, occorrerà scegliere tra catastrofe o rivoluzione.

I processi migratori e l’ipocrisia dell’Occidenteultima modifica: 2023-03-17T19:56:05+01:00da piero-murineddu
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