Ammintendimi a babbu meu

di Piero Murineddu

Allora a Sorso, mio paese, ci vivevano poche migliaia di persone. A differenza dell’entroterra sarda, dove la gente viveva sopratutto di pastorizia, qui era il lavorare la terra che dava sostentamento e la vicinanza al mare non ne aveva mai fatto un paese di pescatori.

Si era nel pieno del terribile e inaudito conflitto che, a causa della non rara e colpevole stupidità di chi governa la vita altrui, si era propagato in ogni dove della terra senza che le normalissime genti del popolo, quelle che nella storia conosciuta e non, hanno sempre subìto le decisioni dall’alto, ne avessero capito precisamente le cause e che ancora non immaginavano lontanamente le catastrofiche conseguenze.

I giovanotti “abili” furono obbligatoriamente chiamati a lasciare la propria famiglia, indossare una divisa ed andare chissà dove ad ammazzare altri giovani, anche loro all’oscuro di tutto, se non di quanto era stato fatto loro credere.

Giuanninu, quello che sarebbe diventato giaiu meu (mio nonno), in quel periodo era già marito e padre. Imbracciando un fucile, pativa situazioni non volute, temendo giorno e notte per la sua vita e col pensiero rivolto sempre alla sua amata Maria Franzischa e ai suoi adorati figlioli che aveva dovuto lasciare nel lontanissimo paesino della “Romangia”, nome che svela l’antica presenza di quell’Impero là, più arraffone che benefattore.

Eccome se Giuanninu ricordava la dura fatica in campagna per mandare avanti la famiglia, ma pur di rivederla, era disposto a lavorare anche di notte.

Finalmente riuscì ad ottenere una breve licenza, dovuta al fatto che un familiare stretto si trovava in pericolo di vita.

Durante il tragitto in nave, assaporava con impazienza il caldo tepore dell’amata giovane moglie che non vedeva l’ora di riabbracciare

La stagione fredda indugiava prepotentemente in quel 1917, ma nei primi giorni di maggio, forse per dargli il giusto e meritato benvenuto, Sorso si era fatta trovare da lui in tutta la sua splendente e fiorita bellezza primaverile.

La notte tanta attesa era così divenuta realtà, e tra le braccia della dolce Maria Franzischa, il giovane aveva trascorso diverse ore che sembrava non dovessero mai finire, tra momenti di sfrenata passione e delicatissima tenerezza.

Ed è proprio durante quell’intenso paradiso d’amore che venne concepito colui che sarebbe diventato mio padre.

Dopo l’avvenuto funerale del congiunto, Giuanninu dovette riprendere a malincuore la strada del ritorno in zona di guerra, lasciando in lacrime l’amata moglie, incinta e a doversi occupare da sola degli altri figli.

Andeddi a ciamà Giuannica, la masthra di parthu…”

– gridò Firumena, dirimpettaia i la carrera di lu campusantu, sempre attenta a tutto e umbé ma umbé pettegolona –

Maria Franzischa è accosth’ a liarassi….”.

Era una fredda sera di gennaio, precisamente il 17, e dalla vicinissima periferia provenivano le voci e i canti di chi festeggiava Sant’Antonio Abate intorno ad un grande falò.

Altri sorsesi, coi carri trainati da buoi, a dorso di asini e persino a piedi, si erano recati nella vicina Castelsardo, dove la festa era più sentita e meglio festeggiata.

Il parto andò più che bene, e probabilmente la giovane ed energica partoriente se la sarebbe cavata anche senza l’intervento di la masthra di parthu (la levatrice) che in realtà tale non era, ma aveva talmente esperienza nell’assistere le donne a partorire che era da tutti cercata al momento del bisogno, e lei non si faceva pregare, essendo di una generosità tale che solo le persone semplici sanno essere.

Conclusa l’Immane Carneficina, giaiu Giuanninu, a differenza di molti altri, fece ritorno a casa e poté così riprendere in mano la sua vita, che seppur sempre dura, come dura ed estremamente faticosa è stata sempre per la povera gente, era sicuramente meglio che ritrovarsi a trascorrere notti all’addiaccio dentro delle trincee, temendo per la propria vita e augurandosi di non trovarsi nella necessità di dover uccidere altri giovani sconosciuti, che qualcun altro, chissà perchè, aveva stabilito che dovevano essere considerati nemici, quindi da eliminare.

Man mano che cresceva, i fratelli maggiori insegnavano al piccolo Antoninu, futuro mio babbo, i modi migliori per affrontare la vita e sapersi difendere dai bulletti del tempo.

Un giorno, mentre giocava con una palla fatta di stracci insieme ad alcuni amichetti nei pressi di lu muntinaggiu (discarica), dove attualmente sorge la onnipresente (e sempre imbronciata!) statua di San Pio, tre ragazzotti più grandicelli si misero in mezzo, appropriandosi del prezioso oggetto da prendere a calci, sferico ma non troppo.

Al sentire le urla del fratellino minore e dei suoi compagnetti di gioco, accorsero i miei zii Giuanni e Giomaria, i due maggiori della famiglia.

Ne nacque una sonora scazzottata, alla fine della quale i tre se ne scapparono a gambe levate, uno con l’occhio gonfio e un altro vistosamente zoppicante.

Un’altra volta, mentre nonno Giuanninu si era recato in campagna portandosi dietro mio padre e suo fratello maggiore Giuanni, seduti allegramente sopra l’asino, il più prezioso bene che allora i poveri possedevano, per un movimento brusco dell’animale mio padre era ruzzolato per terra, procurandosi delle escoriazioni alle gambe e alle braccia.

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Immediatamente Giuanni, non esitò a urinargli sul graffio più grosso della gamba destra per disinfettare la ferita, mentre nonno Giuanninu raccolse delle erbe spontanee che conosceva e che avevano la proprietà di lenire il dolore e di accelerarne la cicatrizzazione, insieme all’urina che intanto aveva iniziato a fare effetto.

Sono tanti i racconti che mio padre mi faceva, almeno quelle volte che non era troppo stanco dalle lunghe ore trascorse a lavorare in campagna. Seduti a scaldarci davanti al caminetto oppure mentre insieme preparavamo il forno per cucinare il pane impastato da mia madre e le mie due sorelle maggiori. La legna veniva portata sulle spalle dai fratelli più grandi, a qualche chilometro di distanza dove c’era la nostra campagna.

Tornando indietro nel tempo, aveva forse diciott’anni, un pomeriggio si era appostato all’inizio della discesa che portava giù alla storica fontana del paese. Si era invaghito di una bellissima ragazza e voleva tentare l’approccio.

Come si usava, vistala salire cu lu caddinu (recipiente) colmo d’acqua che teneva in equilibrio sulla testa poggiato i lu tiddìri (cercine), si era fatto coraggio e le aveva chiesto di dargliene un l’upu (mestolino) per dissetarsi dalla terribile arsura di quelle giornate d’agosto.

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La ragazza, Giuanna Maria, era fortemente tentata di accontentarlo, in quanto il giovanotto aveva un discreto fascino ed era di modi estremamente gentili, ma all’ultimo momento ci ripensò, ricordando che già aveva fatto una mezza promessa ad un altro pretendente.

Quella giovane e bellissima ragazza infatti si sposò ed ebbe dei figli, ma purtroppo rimase vedova dopo pochi anni dal matrimonio. Non passò molto tempo che Antoninu, fattosi coraggio, un bel giorno le chiese di sposarlo. Ella non esitò. Fu così che Giuanna Maria divenne mia madre.

Persona molto pacifica mio babbo, e solitamente andava d’accordo con tutti, salvo gl’immancabili coi quali si, accordo ci può pure essere, ma quanta fatica!

I suoi modi garbati e allegri lo rendevano simpatico.Nei pochi ritrovi che al tempo vi erano in paese e dove gli uomini andavano a trascorrere qualche ora dopo le dure fatiche della settimana trascorsa nei campi, i suoi canti sardi, in “RE” sopratutto, eseguiti con una voce talmente potente che la si sentiva sino in fondo alla strada, rallegravano gli altri presenti.

Una fredda serata invernale, il troppo vino ingurgitato aveva alterato gli animi di due clienti di lu buttighinu, notoriamente affarradòri (molto propenso alle zuffe), fino ad arrivare alle mani, come alcune volte precedenti, rovinando la piacevole atmosfera che si era creata.

Uno dei due aveva addirittura tolto di tasca una rasóggia (tipico coltello sardo pieghevole e molto affilato), e l’alterco rischiava di finire in tragedia. Mentre tutti gli altri si erano allontanati, mio padre, pur non essendo grosso di corporatura, facendosi coraggio si frammise tra i due, riuscendo a calmarli e a separarli. E questo non con la forza. Erano bastate la sua autorevolezza e simpatia, da tutti riconosciute.

Calmati gli animi e messa via la pericolosa arma, mio padre li accompagnò ormai riappacificati nelle loro case, trovando le due rispettive mogli in ansiosa attesa, perchè la voce del litigio si era già sparsa per tutto il paese.

Persona non tanto in salute per delle malattie non ben curate durante gli anni preadolescenziali, ma di carattere gradevolissimo, disponibile con tutti e molto “di compagnia” mio padre.

Bassa scolarità, come la maggior parte delle povere famiglie, ma di una intelligenza viva e acuta. Di lui mi son rimasti bellissimi ricordi e un esempio di vita che ancora mi sostiene e mi fa affrontare con fiducia le normali avversità che nella vita non mancano mai.

La sera di quel freddo e sempre più lontano 2 dicembre del 1987 aveva una leggera sensazione di malessere che gli impediva di prendere sonno. Per tranquillizzarlo, gli preparai una camomilla col miele come piaceva a lui e aspettai seduto vicino al letto finché non si addormentò.

La mattina presto del giorno dopo fui svegliato dall’agitato richiamo di mia madre. Quando mi precipitai in cucina, vidi babbo che, accortosi della mia presenza, cercava con molta difficoltà di dirmi qualcosa. Il suo sguardo fisso sul mio sostituì quelle parole che non riuscì più a pronunciare. Uno sguardo che mi accompagna e che non mi lascerà mai, e non solo per il resto dei miei giorni su questa terra.

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P.S.

Oltre che non mancare mai alle sagre paesane, in quei tempi che oggi sembrano lontanissimi e che erano allietate da vere e proprie gare di canto eseguito sopra palchi di fortuna, davanti ai quali la gente si assiepava estasiata seduta i li banchitti o caddreièddhi portati da casa, mio babbo non mancava di far risuonare la sua potente voce nei pochi ritrovi serali del paese.

Quello che segue è un recente esempio di questo tipo di esibizione, sempre più rara, registrata nell’estate credo del 2019, quando la vita aveva ancora più …. sembianze umane.

https://youtu.be/_26jd6zJQj0

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Ammintendimi a babbu meuultima modifica: 2022-12-03T04:42:09+01:00da piero-murineddu
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Commenti (2)

  1. SILVINA PETTERINO

    Grazie Piero per questa narrazione di tempi tanto diversi da quelli che viviamo ora, di persone così autentiche come i tuoi antenati. Chissà perché, sento di avere “santificato la Festa”. Buona domenica.
    Saruddu.

    Silvina

    Rispondi
    1. piero-murineddu (Autore Post)

      Se nel mio piccolo ho potuto contribuire a santificare questa domenica, mi fa solo piacere. Ciao Silvina

      Rispondi

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