di Piero Murineddu
Siligo è veramente un bel paesino collinare del Mejlogu. Non arriva a 900 abitanti. E’ questo il motivo che ha portato domenica scorsa a far tappa qui l’iniziativa “Freemmos – Liberi di restare“, nata per concentrare l’attenzione sui motivi per cui diversi paesi, in questo caso della Sardegna, vanno progressivamente spopolandosi.
Ho colto l’occasione per farci un salto e le ore trascorse son state piacevolissime.
Una sbirciata breve al dibattito tenutosi presso il Centro di aggregazione, dove tra gli altri era presente il sorsese Stefano Cucca, giovane intraprendente che ha dato avvio all’interessante realtà associativa “Rumundu”. Viaggiatore instancabile e particolarmente amante della bici, con la quale ha percorso le strade di mezzo mondo. E grazie alle conoscenze acquisite, propone nuovi metodi per creare impresa. Vi era anche uno dei titolari dei caseifici thiesini, i Pinna, ma l’elencazione di risultati raggiunti mi ha portato ad accelerare il passo verso la porta d’uscita, dove ho trovato una bella piazza ad anfiteatro brulicante di festa.
Per quella però c’era ancora tempo. La curiosità di percorrere le strade premeva, particolarmente il centro storico. Poco prima di uscir fuori dalla piazza, mi sono avvicinato a Gavino Ledda, l’autore del famoso libro “Padre padrone” che, andato oltre l’aspetto autobiografico, ha portato diversi suoi compaesani a provare avversione verso di lui, perché quanto scritto e fatto vedere nel film che i fratelli Taviani ne hanno ricavato, non corrisponderebbe alla realtà dei fatti. Punti di vista. Al di là delle polemiche, gli ho stretto la mano.
Percorrendo le belle stradette con diversi slarghi incontrati a breve distanza l’uno dall’altro, mi ha provocato molto piacere vedere le tante piante messe a dimora, particolarmente nelle facciate dei privati. Un fantasioso intreccio di colori e di profumi della cui presenza ognuno che passa può godere, e questa la considero cosa bellissima e particolarmente lodevole. Un dono gratuito che fa bene alla vista e all’umore.
Lo spopolamento è reso evidente dai vari cartelli con la scritta “vendesi”, ma non si tratta di ruderi, segno che la decisione di disfarsi di queste case, per magari andare a vivere altrove, è stata presa relativamente di recente.
Coi pochi incontrati per strada è stato un vero piacere fermarsi a conversare, particolarmente con Michele, coi suoi 93 anni sulle spalle ma che non l’’hanno affatto reso curvo e sofferente. Alto, longilineo, guida l’auto, ama trascorrere del tempo seduto nella via principale giù dabbasso coi suoi coetanei a parlare di ciò che è stata la vita di una volta, delle greggi portate al pascolo, dei tanti anni trascorsi a lavorare nel caseificio dei Pinna che dicevo prima. Non ho bisogno d’insistere per farlo parlare. Una volta che parte, è difficile interloquire, ma ascoltarlo non dispiace affatto. Fra i tanti punti, non poteva mancare quello legato ai Ledda padre e figlio. Babbo Abramo, da giovane, era proprio lì a pochi passi che andava per far la corte alla ragazza che poi sarebbe diventata sua moglie e fu proprio lui ad accompagnare con la sua auto Gavino alla stazione di Giave, quando decise di rendersi indipendente dall’autorità paterna e partire per costruirsi una sua strada. Sappiamo dei malumori intercorsi tra Gavino suo padre, ma negli ultimi anni prima di morire si erano riconciliati. Ciascuno dei due è probabile che sia rimasto fermo nelle sue posizioni, ma il gesto di riavvicinamento ha contribuito a bilanciare la diversità di carattere e di visione della vita. Il saluto col vecchio Michele è stato molto cordiale e pieno di gratitudine nei suoi confronti.
Tornato alla piazza, sormontata da un grande murale raffigurante Maria Carta della quale lo spazioso e ben architettato anfiteatro prende il nome, c’è l’accoglienza di un eccellente ballo tipico sardo accompagnato da un buon fisarmonicista. Subito dopo, viene presentato un gruppo “di colore” che da qualche tempo sta mettendo insieme un repertorio, e la scelta dei brani è ben curata. Terminata la loro esibizione, mi avvicino per scambiare con loro qualche parola, sempre impresa ardua per la difficoltà nel non conoscere bene la lingua parlata dall’altro. Nonostante la fatica nel comunicare, su un punto l’intesa c’è stata: sia a me e sia a loro quella presentazione di gruppo di ragazzi “di colore” aveva dato fastidio, segno che sulle cose importanti ci si può sempre intendere.
Arrivato il momento della partenza, mi è venuto del tutto naturale avvicinarmi a Giacomo Serreli, giornalista incaricato di presentare la serata, e manifestargli questo disappunto sull’usare ancora questo termine totalmente inopportuno “di colore”. L’intelligente Giacomo ha subito concordato, ammettendo che è un luogo comune diffusamente usato istintivamente, ma che in effetti contribuisce a marcare differenza. Essendoci ancora tempo prima di presentare il nuovo gruppo, ho cercato sullo smartphone quel breve testo che mi ha sempre colpito. L’abbiamo letto insieme:
Uomo di colore
Io, uomo nero, quando sono nato ero Nero
Tu, uomo bianco, quando sei nato eri Rosa
Io, ora che sono cresciuto, sono sempre Nero
Tu, ora che sei cresciuto sei Bianco
Io, quando prendo il sole sono Nero
Tu, quando prendi il sole sei Rosso
Io, quando ho freddo sono Nero
Tu, quando hai freddo sei Blu
Io, quando sarò morto sarò Nero
Tu quando sarai morto sarai Grigio
E tu mi chiami uomo di colore?
Dopo avermi ringraziato, con Giacomo ci salutiamo con molta cordialità.
Proprio un bel paesino. Bisogna che ci ritorni, anche per riprendere la conversazione col vecchio 93enne Michele. Il gilet che indossava gliel’ho quasi invidiato. Chissà che ne abbia un altro da regalarmi…..