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Posizione di Hans Küng sul fine vita

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di Hans Küng

 

«Sostenendo strenuamente la responsabilità personale nella morte, lei mette in pericolo tutta la grande opera della sua vita». È più o meno così che si sono espressi molti amici e lettori dopo la pubblicazione del terzo volume delle mie memorie, Erlebte Menschlichkeit (“Umanità vissuta”), nell’ottobre del 2014. Prendo molto sul serio le obiezioni di questo tipo, ma preferirei che nella memoria dei posteri il mio ricordo non fosse legato soprattutto al tema dell’eutanasia. In fin dei conti, la mia posizione nei confronti della morte si può giudicare correttamente solo se si ha almeno una vaga idea del mio interesse costante per argomenti fondamentali come la questione di Dio, l’essere cristiani, la vita eterna, la Chiesa, l’ecumenismo, le religioni mondiali, l’etica mondiale eccetera.

Continuo a professare la prima delle quattro “norme immutabili” dell’etica mondiale, quella sul “dovere di una cultura del rispetto per ogni vita”, proclamata dal Parlamento delle religioni mondiali a Chicago nel 1993: «Dalle grandi tradizioni religiose ed etiche dell’umanità apprendiamo la norma: Non uccidere. O in forma positiva: Rispetta ogni vita. Riflettiamo, dunque, di nuovo sulle conseguenze di questa antichissima norma: ogni uomo ha il diritto alla vita, all’integrità fisica e al libero sviluppo della personalità, nella misura in cui non lede i diritti di altri. Nessun uomo ha il diritto di tormentare fisicamente e psichicamente, di ferire o addirittura uccidere un altro uomo». Tuttavia, proprio perché «la persona umana è infinitamente preziosa e deve essere assolutamente protetta», e questo sino alla fine, occorre riflettere con attenzione sul significato di queste parole nell’epoca della medicina tecnologicamente avanzata, che è in grado di provocare la morte in modo perlopiù indolore ma, in molti casi, anche di protrarla in misura considerevole.

Qui vorrei affrontare questa problematica in tutta franchezza, senza deludere nessuno dei tanti che nel corso dei decenni sono stati, per certi versi, ispirati dalle mie tesi. D’altro canto, ora ricevo adesioni e conferme da persone religiose e non che mi sono grate per aver avuto il coraggio di trattare con la competenza e l’onestà di un teologo cristiano, anzi cattolico, la questione dell’eutanasia.

Nella vita di tutti i giorni, l’individuo può provare la piccola felicità di un istante di soddisfazione, per esempio quella data da una parola gentile, un gesto cordiale o il ringraziamento per una buona azione. A volte può anche conoscere la grande felicità di un’esperienza momentanea esaltante, come il trasporto della musica, il contatto travolgente con la natura o l’estasi dell’amore. C’è solo una cosa che l’uomo non è in grado di fare: prolungare il buonumore. La supplica che Faust rivolge al momento del massimo gaudio – «Fermati, sei così bello!» – non è pronunciata per caso e resta inascoltata.

All’uomo, tuttavia, anziché una felicità perpetua, sembrerebbe possibile un’altra cosa: una serenità di fondo stabile che gli impedisca di perdere la speranza, persino nelle situazioni disperate, e che alimenti la sua fiducia. In altre parole, accettare, in linea di massima, la vita così com’è, ma senza rassegnarsi a ogni cosa. Una serenità di fondo consente pertanto di vivere in armonia, in pace con se stessi. Mi domando allora: un simile atteggiamento non si può conservare anche di fronte alla fragilità e alla caducità umane, fino alla morte?

L’ ars moriendi, l’“arte di morire”, è un argomento che mi affascina sin dagli anni Cinquanta, quando mio fratello Georg soffrì per mesi di un tumore inguaribile al cervello, per poi morire a causa di un accumulo d’acqua nei polmoni. Si è imposta ancora di più alla mia attenzione da quando, a partire dal 2005 circa, il mio caro collega e amico Walter Jens ha iniziato, nonostante le migliori cure, a vegetare nella nebbia della demenza, fino a spegnersi nel 2013. Queste esperienze hanno rafforzato la mia convinzione: non voglio morire così! Allo stesso tempo, tuttavia, mi hanno dimostrato quanto sia difficile cogliere il momento giusto per una morte affidata alla propria responsabilità.

L’intenzione di non protrarre a tempo indeterminato la mia esistenza terrena è un caposaldo della mia arte del vivere e parte integrante della mia fede nella vita eterna. Quando arriva il momento, ho il diritto, qualora ne sia ancora in grado, di scegliere con la mia responsabilità quando e come morire. Se mi venisse concesso, vorrei spegnermi in modo consapevole e dire addio ai miei cari con dignità. Per me, morire felici non significa morire senza malinconia né dolore, bensì andarsene consensualmente, accompagnati da una profonda soddisfazione e dalla pace interiore. Del resto, è questo il significato della parola greca euthanasia , entrata in molte lingue moderne, ma storpiata vergognosamente dai nazisti: “morte felice”, “buona”, “giusta”, “lieve”, “bella”.

Un autentico Requiescat in pace («Riposi in pace»), insomma. Dopo aver sistemato tutto ciò che andava sistemato, con gratitudine e con una preghiera fiduciosa. Per me, questo atteggiamento si fonda in ultima analisi sulla speranza di una vita eterna che è il compimento definitivo dell’esistenza in un’altra dimensione della pace e dell’armonia, dell’amore durevole e della felicità permanente. È questa la mia idea del morire felici, che trae ispirazione dalla Bibbia.

Ciò dovrebbe bastare a chiarire un concetto: questa eutanasia non ha nulla a che vedere con un “auto-assassinio” arbitrario ed empio, pianificato per provocare l’autorità ecclesiastica, come mi accusano alcuni sia sui media sia con lettere personali. Evidentemente, però, certi rappresentanti della “dottrina ecclesiastica”, da cui la mia concezione si dissocia, non hanno ancora capito che anche la nostra visione dell’inizio e della fine della vita umana si trova al centro di un mutamento di paradigma epocale, che non si può penetrare e dominare con l’immaginario e la terminologia della teologia medievale né con quelli della teologia ortodosso-protestante. Oggi è necessario prendere in considerazione il notevole prolungamento della vita consentito dai progressi, prima inimmaginabili, della medicina moderna e dell’igiene, ma bisogna tenere conto anche delle idee successive, che sottolineano i limiti di una medicina basata su argomenti e criteri esclusivi delle scienze naturali e della tecnica. È aumentata la percezione della necessità di dare un fondamento etico a una medicina globale che tuteli l’umanità del paziente. Anche nella Chiesa cattolica esiste, sin dall’insediamento di papa Francesco, la speranza di una maggiore franchezza e di un aiuto caritatevole in questioni che, è risaputo, sono assai complesse. Per il pontefice, il cristianesimo non è un’astratta ideologia dottrinaria, bensì una via che si impara a conoscere percorrendola.

 

Stralciato da “Morire felici?” di Hans Küng (Rizzoli)

 

“la Repubblica” del 25 febbraio 2015

Dubitare sempre degli ipse dixit del potere, di qualunque colore esso sia

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di Marco Travaglio

Tutto pensavo e sognavo di fare nella vita, fuorché il direttore. A me piace scrivere, girare, incontrare i lettori e continuerò – nei limiti del possibile – a farlo. Della linea del Fatto non c’è da toccare una virgola: era e resta la Costituzione, che noi amiamo così com’è. Magari con qualche aggiornamento, ma senz’alcuno stravolgimento, specie da parte dei ceffi che da vent’anni ci tengono sopra le zampe. Dire “Costituzione”, in un giornale, si traduce nell’impegno a dare notizie vere e verificate, senza riguardi né sconti per nessuno.

Rileggevo l’altro giorno, per trovare le parole, i primi editoriali di Indro Montanelli su La Voce, nata 21 anni fa. “Noi – scriveva – saremo certamente all’opposizione. Un’opposizione netta, dura, sia che vinca l’uno sia che vinca l’altro. Il difficile sarà distinguerci dall’altra opposizione. Se vince questa destra noi certamente le faremo opposizione, cercando però di distinguerci da quella che faranno a sinistra. Se vince la sinistra noi faremo opposizione ugualmente ferma, cercando di distinguerci da quella che faranno gli uomini della cosiddetta destra”.

Stare all’opposizione, per un giornale, non significa dire che va tutto male e che sono tutti brutti e cattivi. È un atteggiamento mentale che porta a dubitare sempre degli ipse dixit del potere, di qualunque colore esso sia, e di andare a verificarli alla prova dei fatti. Specie in un Paese dove la tendenza dominante è esattamente quella opposta: prendere per buone le parole dei potenti, incensarli, beatificarli, far loro da cassa di risonanza, ripetere che viviamo sempre sotto il migliore dei governi e dei presidenti possibili, salvo poi scoprire (sempre troppo tardi) che ci hanno ingannati, derubati e rovinati.

Noi – i nostri lettori più attenti lo sanno bene – non siamo né penne all’arrabbiata né pennette alla bava “a prescindere”. Critichiamo e (più raramente, purtroppo) elogiamo chi pensiamo lo meriti, cercando di argomentare e documentare le nostre ragioni, e appena possibile avanziamo proposte concrete in alternativa a ciò che non ci piace. Se veniamo dipinti come bastiancontrari, criticoni, rosiconi, gufi, mai contenti, professionisti del mugugno e del risentimento, è solo perché il resto del panorama è “tutto va ben madama la marchesa”.Dovendo proprio scegliere, meglio sbagliare per eccesso di critica che di piaggeria.

Siamo una squadra di giornalisti onesti, in gran parte giovani, e di collaboratori prestigiosi dei più diversi orientamenti, ma accomunati dall’amore per il rischio e per la libertà. Non abbiamo mai preteso di essere più bravi degli altri. Solo più fortunati: ci siamo fatti il giornale che volevamo, senza padrini né padroni (chi ha cercato di attribuircene qualcuno ha dovuto battere ogni volta in ritirata). Quando sbagliamo lo facciamo in proprio, non per conto terzi. Non abbiamo mai voluto finanziamenti pubblici e ci siamo condannati – per come siamo fatti – a non poter contare su grandi introiti pubblicitari, ma soltanto sulle nostre forze e su un gruppo di azionisti-editori privi di conflitti d’interessi che non mettono becco nella fattura del giornale. La nostra fortuna più grossa è una pattuglia di lettori e di abbonati speciali, molto attivi e partecipativi, che conosciamo quasi uno per uno: di persona o per iscritto, per averli incontrati alle nostre feste e manifestazioni, per averli coinvolti nelle nostre petizioni, per aver ricevuto le loro lettere, per aver letto i loro interventi sul nostro sito. È grazie a voi se, da cinque anni e mezzo, pur tra mille difficoltà e patemi d’animo, i nostri conti chiudono in attivo e dunque il Fatto continua a compiere il suo piccolo miracolo quotidiano: uscire ogni giorno in edicola e sul web, e rendere orgogliosi noi che lo facciamo e voi che lo leggete.

(Stralciato da il Fatto Quotidiano del  5 Febbraio 2015)

Intervista a Travaglio:

 

L’unico traguardo globale

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Prima di tutto vennero a prendere gli zingari. E fui contento perché rubacchiavano. Poi vennero a prendere gli ebrei. E stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi. Poi vennero a prendere i comunisti, ed io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare”. (Bertolt Brecht)

 

L’unico traguardo globale

 

di Rita Clemente

 

Siamo su una brutta china. Vi sono molti segnali inquietanti che stanno a testimoniarlo. I peggiori di tutti sono le dichiarazioni a dir poco folli di alcuni personaggi che definire “istituzionali” sarebbe gettare nel discredito totale quel poco che di accettabile resta delle nostre istituzioni.

Si tratta di parole” si dice. Ma a volte le parole sono pesanti come macigni e comunque si comincia dalle parole, espressione di pensiero e di coscienza sotterranea, per arrivare ai fatti. Sono lo specchio della propria realtà interiore. Sono comunque parole che non si dovrebbero mai pronunciare, non che pensare.Qualche esempio? Un certo sindaco di un certo paesino, commentando – a modo suo “spiritosamente” – la dichiarazione della Presidente della Camera Laura Boldrini, la quale sosteneva che “i Rom vanno valorizzati” se ne esce dicendoI Rom vanno termovalorizzati”. Un altro sindaco della stessa pasta (e della stessa linea politica), commentando un post, scrive su un social network “propongo i clandestini nell’inceneritore”. Sono solo due esempi molto eloquenti del degrado mentale cui si può essere giunti. Eppure,sarebbero poco significativi se essi non riflettessero una sorta di “coscienza collettiva” sempre più diffusa, che emerge sempre più chiara e distinta e – direi anche sfacciata – attraverso i nuovi strumenti di democrazia comunicativa: commenti ad articoli di giornali, commenti a post su FB, “cinguettii” su Twitter ed altro ancora.

Si leggono drastiche opinioni, informazioni date per certe, giudizi perentori, che si potrebbero, alquanto schematicamente, raggruppare nelle seguenti categorie:

 

  1. Se in Italia non c’è lavoro, la colpa è degli “extracomunitari” che lo rubano agli indigeni. Che poi vorrei vedere quanti Italiani sarebbero disposti a fare i/le badanti a tempo pieno, con anziani spesso aggressivi, nel pieno dell’Alzheimer. Oppure i raccoglitori di pomodori a tre euro l’ora.
  1. Per ottenere una casa popolare, devi farti togliere la cittadinanza italiana e risultare clandestino.
  2. Ci sono folle di emigranti che arrivano sui barconi desiderosi di trascorrere un periodo di vacanze in alberghi extralusso, pagati con le tasse degli Italiani.
  3. Sicuramente tutti questi migranti hanno contratto l’Ebola e adesso arrivano, dopo un lungo viaggio in mare in condizioni proibitive, freschi sani e pimpanti a infettare tutti noi.

        5.E soprattutto, il 90% sono terroristi che arrivano,armati fino ai denti, per  assaltare e occupare le nostre città.

      6. Dei circa sessanta milioni di abitanti che risiedono in Italia, sicuramente    un buonsessanta per cento ostituito da immigrati. Salvateci! Rischiamo  di       diventare trascurabile minoranza.

 

E altre sciocchezze del genere. Non si tiene conto di altre considerazioni su cui qualche dato e il buon senso dovrebbero far riflettere.

1) L’Italia non è l’unico Paese meta di immigrazione (oltre che di emigrazione). In altri Paesi,anche più poveri del nostro, gli immigrati sono molti di più.

2) Se uno ha l’Ebola, normalmente non se la sente di fare una lunga e pericolosa traversata in mare.

3) Spesso chi fugge sono proprio quelli che non vogliono fare i terroristi, magari proprio quelle minoranze (cristiane e musulmane) oggetto di persecuzioni e di stragi, su cui poi noi spargiamo tante lacrime di coccodrillo.

4) Il “sistema accoglienza” in Italia non è certo dei migliori e sicuramente non arricchisce immigranti, spesso costretti all’accattonaggio per sopravvivere.Ma la “coscienza collettiva” di una società, preda di una crisi che morde ormai da troppo tempo, si va sempre più orientando verso la ricerca di un capro espiatorio, facile e immediato. Dal senso di disagio al giudizio affrettato e all’azione di protesta anche aggressiva i passi sono brevi come di mostrano le sollevazioni delle periferie romane (e non solo) contro le comunità Rom e i migranti in attesa di riconoscimento dello status di Rifugiato. Naturalmente, c’è chi pesca subito nel torbido, come personaggi e forze politiche che approfittano di questo malessere per ergersi a paladini delle “legittime esigenze degli Italiani dimenticati e bistrattati”. Chi siano queste forze politiche non è così difficile da intuire: quelle che intendono rinverdire una ideologia vecchia come il cucco, secondo cui il malessere sociale dipende da “corpi estranei” che non appartengono alla nostra comunità, si chiami essa Patria o Macroregione o Religione. E’ una storia già sentita nelle narrazioni tragiche del secolo scorso, quelle che hanno intessuto gli orrori delle due guerre mondiali. E non a caso assistiamo oggi a un pericoloso convergere di programmi e idee che vedono schierati sullo stesso fronte la Lega Nord, i Fratelli d’Italia, Casa Pound e alcune frange di cattolici oltranzisti. Ma ancor più pericolosa è la diffusione di tali convincimenti anche in fasce di società civile solitamente moderate, se non addirittura “di sinistra”. Salvo poi a scoprire che questi strani personaggi che incitano alla rivolta contro i campi Rom e le strutture d’accoglienza per gli immigrati sono proprio quelli che poi, in combutta con il malaffare e con amministratori complici e compiacenti, lucrano abbondantemente proprio sui progetti del Terzo Settore con cui si cerca, in qualche modo, di arginare il disastro sociale e di venire incontro ai bisogni umani degli emarginati. Gettando così nel fango e vanificando anche tutti gli sforzi, faticosi e lodevoli, di chi con impegno e onestà dedica ad essi le proprie energie e il proprio tempo, per ridare loro un po’ di dignità e di autonomia.

L’avanzata delle Destre xenofobe e razziste non è solo un problema italiano, come dimostrano i risultati elettorali di molte nazioni europee. Ed è un problema seriamente sentito anche a livello di istituzioni europee se 100 organizzazioni della società civile con sede in diversi paesi europei hanno lanciato un appello per la costituzione di un Intergruppo sull’Antirazzismo e per la Diversità al Parlamento Europeo (ARDI. Antiracism and Di-ersity Intergroup).

Insomma, si registra un ritorno al razzismo, alla xenofobia, al rifiuto del “diverso”, seppure ammantato da parole d’ordine nuove e da ragioni politiche attualizzate. E questa mentalità fa larga presa, a quanto mi è dato di vedere, anche tra persone “insospettabili”, non particolarmente esagitate e anzi dotate, per altri versi, anche di ragionevolezza e di buon senso. Come mai? Ecco, io non vorrei, a questo punto, lanciare un semplicistico “J’accuse” da “anima bella”. Sarebbe troppo semplice e troppo comodo. E anche ipocrita. Vorrei invece sforzarmi di capire. Non di giustificare,è ovvio, ma di capire. Molta, troppa gente ormai vive in una condizione di incertezza, di disagio, di bisogni insoddisfatti. Per esempio, il bisogno di trovare un lavoro sicuro, di potersi pagare l’affitto di una casa o un mutuo, di potersi curare al meglio, se si ammala. E quando i puntelli di un agognato e fino a un dato momento assicurato welfare vengono a sgretolarsi, ci si aggrappa con tuttele forze alla piccola tavola di salvataggio consentita: i “nostri” diritti, le “nostre” tradizioni, la nostra” cultura ecc. Sì, ma gli altri? Chi fugge dalla fame, dalla guerra, dalle persecuzioni, dalla miseria? Eppure bisogna chiedersi: se a me venisse tolta o pesantemente ridimensionata la possibilità di vivere in sicurezza e in relativo benessere, che cosa farei? Che cosa penserei? Inoltre, bisogna anche tener conto che chi vive già nell’area del disagio ha una soglia di tolleranza molto inferiore nei confronti del degrado di chi sta peggio e chiede interventi pubblici. E anche del fatto che,ai livelli del bisogno impellente, si intrecciano e si mescolano in maniera inestricabile fenomeni di illegalità e di devianza, di cui i “diversi” non sono esenti, come esseri umani. Anche se la percezione distorta tende a isolare e a enfatizzare gli episodi di devianza “straniera”.

Le forze politiche nazionalistiche, localistiche, identitarie, si nutrono di queste rabbie, di queste insicurezze, di queste paure. E la Sinistra? Ho come l’impressione che, allo stato attuale, le vere forze di sinistra siano alquanto deboli e impotenti. O succubi delle “ragioni” dei mercati. Che manchi, cioè, un progetto politico organico e coraggioso. Capace di fare presa sulle “masse” e di coinvolgerle in un percorso di affermazione e realizzazione solidale dei diritti di tutti. Perché? Qui occorrerebbe innestare un discorso articolato e complesso, su un nuovo modello di sviluppo in cui la crescita non sia solo un privilegio di alcuni a discapito di altri. In cui la produzione non sia finalizzata a una competitività aggressiva e minacciosa tesa all’incremento dei profitti più che al soddisfacimento dei bisogni. In cui il rispetto dei diritti non conosca confini e la tutela degli ecosistemi riguardi tutte le popolazioni.  

Occorrerebbe una visione globale e interrelata, non particolaristica e identitaria del nuovo welfare. Occorre pensare una nuova organizzazione del lavoro, al servizio della vita di tutti, non del privilegio di pochi. E forse dovremmo anche fare i conti – tutti, non solo le grandi Istituzioni – con un necessario contenimento della ricchezza individuale a favore di un sostegno del reddito per tutti, soprattutto le fasce meno protette (giovani, pensionati, diversamente abili ecc). Di una diffusione e tutela dei “beni comuni”. In Europa non mancano le forze che guardano in questa direzione. Penso a “Syriza” in Grecia, al movimento “Podemos” in Spagna. Minoritarie, certo, ma significative. Ma soprattutto, a mio avviso, la vera azione politica in questo senso sarà attuata dalla miriade di piccole e grandi associazioni della società civile che ancora credono nei valori della solidarietà, dell’inclusione, del dialogo, della condivisione, della creatività operosa e intelligente a fini sociali. Tante piccole mani e volontà per rigettare indietro –se fosse possibile –i vieti spauracchi delle pseudo rivoluzioni similfasciste. Vero è che la solidarietà da sola non basta a risolvere i problemi dei bisognosi se non è sostenuta da una robusta azione politica, incentrata sulla tutela dei diritti. Però è anche vero che la sola politica –intesa come azione legiferante dei rappresentanti del popolo –non è sufficiente se non è sostenuta a sua volta da una solidale consapevolezza della società civile. O almeno di quella parte di essa che ha sviluppato resistenti anticorpi al riproporsi di soluzioni aggressivamente identitarie.Ognuno deve metterci la faccia, il cuore e il cervello per contrastare l’emergere di pulsioni xenofobe e razziste di vecchia memoria. Laddove c’è grande malessere sociale la cosiddetta “guerra tra poveri” è sempre in agguato. E c’è chi ne approfitta, svendendo per nobili ragioni una chiusura e un’ostilità sempre più identitarie e securitarie. Ma, insegnava don Milani, “il problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia, uscirne insieme è la politica”.

La politica! Questa parola che si è rivestita di mille sensi ambigui e distorti,quasi fosse sinonimo di malaffare e di corruzione. Eppure la sua radice è la “polis”, cioè l’idea di cittadinanza, rafforzata dall’idea del diritto. Che dovrebbe costituire l’unico traguardo veramenteglobale”, senza esclusioni e barriere.

 

Tratto da “c.d.b. Informa” Foglio d’informazione della Comunità Cristiana di Base di Chieri n° 60 gennaio 2015 http://www.cdbchieri.it/

Peppino Manzoni

 

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Giuseppe Manzoni era nato a Sassari il 20 luglio 1930. Il 15 giugno 1960  sposa  Grazia Antonietta Salis e viene ad abitare a Sorso. Prima di dedicarsi all’insegnamento, grazie al diploma in Agraria aveva concentrato i suoi interessi nella coltivazione degli agrumi e negli impianti delle vigne. Tra Sorso e Sennori molte vigne sono nate col suo contributo. Pensava infatti che lo sviluppo di una comunità doveva passare necessariamente attraverso la valorizzazione di quello che di buono possiede e produce. E’ stato anche il primo in assoluto in Sardegna a utilizzare le serre per coltivare i legumi.

Essendo stato a lungo segretario dei Consorzi Stradali, incaricato quindi di rifare a nuovo le strade di penetrazione agraria, conosceva quasi tutte l campagne di Sorso. Negli anni ’70 aveva progettato anche i giardini di via Borio, di fronte al cimitero. Ne aveva deciso le piante da mettere a dimora. In quel periodo succedeva che le piante messe di giorno, la notte venivano fatte sparire. Ma questo naturalmente è un altro discorso.

La sua famiglia era originaria di Castelsardo e negli anni 50 proprio questo comune, conoscendone l’intelligenza e la capacità di adattarsi a qualunque lavoro, gli aveva affidato la direzione di un cantiere – scuola per il recupero delle strade nel centro storico del paese e sono molte le persone anziane che ancora si ricordano di lui.

Amico di Petronio Pani, condividevano la passione per l’archeologia del territorio, e non solo sui libri, ma recandosi sui siti, molte volte per liberarli dall’abbandono e dall’incuria. Oltre alla sua famiglia e al suo lavoro, amava molto Sorso e la sua gente. Parlava perfettamente non solo il sardo settentrionale, ma anche il sorsese del quale conosceva e utilizzava termini purtroppo caduti ormai in disuso. Questa sua confidenza col particolare dialetto (lingua?) è stata di fondamentale aiuto per la realizzazione dei due volume di Andrea Pilo dedicati ai ricordi e ai racconti della Sorso di una volta e scritti in sorsese e in italiano. Trascorrevano ore e ore a concordare la scrittura esatta di certi termini, ed è facile immaginarne la fatica dal momento che una grammatica non è stata mai definita. Andrea dettava, e Peppino – come era conosciuto da molti – batteva con entusiasmo sui tasti del computer, indugiando non poco prima di tradurre in lettere certi suoni espirati, cacuminali e fricativi, tipici della parlata locale.

Il 29 luglio 2013 una breve e brutale malattia l’ha strappato alla vita.

 

(con la preziosa collaborazione dei figli Nicola e Giantommaso)

Qual’è l’utilità della cultura a Sorso, dove prevale spesso la vana “boria”?

 

BIBLIOTECA

 

di Piero Murineddu

Mie considerazioni provocate dopo la lettura del testo di Leo Spanu riportato in fondo alla pagina.

Nel suo argomentare, Leo ha l’ardire di sostenere che la ricchezza culturale della famiglia Tanda  ” è stata dimenticata dai nostri compaesani impegnati in attività più serie come il pettegolezzo politico, “lu ciarameddhu”  su FB,  le discussioni sul peso dell’aria fritta, l’elogio e l’esaltazione del proprio ego e della propria ignoranza”.  Affermazioni severissime, evidentemente. Provo a ragionarci su.

In effetti, dal momento che è innegabile che la comunità di Sorso, amministratori e amministrati, non riconosce l’eccellenze artistiche, letterarie e scientifiche di molti che qui vivono e sono nati (anche perchè spesso non conosciute in modo appropriato, sia ben chiaro!), verrebbe da dedurre che a Sorso, considerata anche la durezza dei tempi, la preoccupazione principale sia “riempire la panza” e tutte le altre cose sono secondarie. Come si dice in gergo, isgiabidduri. La mia povera mamma rimaneva stupita dei giornali e dei libri che compravo da giovane. “Ma cosa ni fai di tuttu chisthu pabiru!?”, mi diceva, pensando seriamente che i soldi spesi fossero sprecati.  La necessità di lavorare duramente nei campi da piccola e di darsi da fare per garantire la sopravvivenza alla numerosa famiglia era la cosa più importante e più urgente, per cui l’analfabetismo era un dato di fatto per i più. Donna di popolo mia madre, e dunque spesso diffidente verso le cose poco comprensibili. Temo che il giudizio di mia madre fosse e continua ad essere molto diffuso: ma a cosa “serve” questa benedetta cultura? L’importante è avere un sicuro e buon posto di lavoro, ben retribuito specialmente.

E pensare che qualcuno si azzarda ancora ad affermare che “la cultura è la condizione necessaria per autodeterminare la propria vita e per liberarla“. Altre altitudini e altra mentalità.

Continuo nel mio pseudo ragionamento, per qualcuno forse fastidioso e inopportuno.

A cavallo delle due guerre e per diversi anni nel periodo post bellico, la possibilità di studiare era riservata a pochi, e generalmente erano i figli delle famiglie benestanti che arrivavano a farsi una “posizione”. E’ azzardato affermare che nei confronti di queste famiglie privilegiate, nella “gente del popolo” si sia creata una sorta di risentimento, forse invidia o chiamatelacomevolete? E’ plausibile pensare che nella vita concreta e quotidiana ci sia stata una spaccatura  “noi-loro”? Ripeto, l’argomento è difficile e forse anche antipatico. Probabilmente il benessere di certe famiglie era comunemente giudicato conseguente a situazioni d’ingiustizia e di prevaricazione, per cui nei confronti di chi stava bene e non era costretto a stringere la cinghia, nel tempo è stata covata della rabbia, raramente espressa, per paura forse di inimicarsele queste famiglie “in vista”. Quest’ultime, nel tempo avevano  stretto una sorta di alleanza (di comodo)  tra loro, frequentandosi e creando un mondo  “separato”. E’ abbastanza corrispondente al vero che chi andava avanti erano i loro figli, mentre gli altri, la maggior parte, interrompendo gli studi per necessità, perchè non incoraggiati dalla famiglia e forse riuscendo ad ottenere a malapena la licenza elementare o media, hanno dovuto accontentarsi dei lavori di manovalanza, scarsamente retribuiti.

Provo ad essere provocatorio. Spesso, non sempre ma spe-sso, le  persone che si sono distinte nell’arte, nelle lettere, nella scienza, o anche che hanno raggiunto alti gradi militari o ruoli di rilievo nella società, hanno per lo più avuto l’appoggio di famiglie con improbabili problemi economici.  Senza negare l’estro, l’impegno, le rinunce e le capacità personali,  nell’immaginario comune ho paura che persista l’idea che siano stati dei privilegiati e sicuramente agevolati per la loro condizione economica e sociale. Non tutti, ma buona parte.

Pur tuttavia, ammesso (e probabilmente da molti non concesso) che il mio ragionamento sia in qualche modo fondato, questo “risentimento”, questa “ferita” difficile da rimarginare non può giustificare questo non dar importanza ai nostri concittadini che si sono distinti. Con questa eventuale  “ferita”  bisognerebbe fare i conti.

Mi chiedo:  la possibile  “invidia”  che si scatena nei confronti di chiunque “emerga”  in un qualsiasi settore, può avere questa radice?

Torniamo alla decisione del prof  Tanda:

ha fatto bene a non lasciare i suoi beni librari a Sossu?

La sua è stata una scelta per “vendicarsi” del mancato riconoscimento da parte dei suoi compaesani?

Gli “invidiosoni” sussinchi non si meritano niente?

Sono giustificati tutti i “cervelli”  che cercano fuori da Sorso la loro realizzazione come, per fare un solo esempio, aveva deciso il pittore Giuliano Roggio che nel 1976 si era trasferito con la propria famiglia in Piemonte, “deluso dall’incomprensione e dalla speculazione che ruotava intorno ai pittori” (tornò a Sorso sei anni dopo), ma come continuano a fare i tanti che giudicano ristagnante e frustrante la vita a Sossu?

Se ci pensiamo, il non dare evidenza e riconoscimento alle nostre “eccellenze” umane, è culturalmente ed economicamente autolesionistico, e questa è responsabilità si degli amministratori che si susseguono, ma anche dei cittadini, che singolarmente o associati, non si attivano in questo senso.

A proposito,

finirà finalmente il tempo di delegare tutto alla politica, di pensare che sia la politica preposta ad affrontare ogni minimo aspetto della vita? E se il politico è un imbecillotto incompetente come spesso capita, che facciamo, continuiamo inerti ad aspettare e a sperare nel messianico uomo della provvidenza? Dobbiamo ancora illuderci che il politico sia ancora capace di agire senza obiettivi che non siano quelli di perpetuare il suo potere?

Ma nel caso che Nicola Tanda avesse donato il suo patrimonio librario a Sossu, è verosimile pensare al rischio che sarebbe andato a finire nelle “oscure e umide cantine”,  disperso o addirittura trafugato nelle private casseforti o salotti casalinghi?

Ripeto:  è possibile che noi sussinchi siamo invidiosi dei nostri “profeti”, frustrati come siamo e presi spesso dalla vana “boria”, e non sopportiamo che qualcuno si metta in evidenza per dei motivi positivi, fatta eccezione per qualcuno che si distingue al massimo nello sport? Se fosse vero, come dice Leo,  che “i sorsesi s’impegnano molto a cancellare ogni traccia della loro memoria”, l’ultra 80enne Professore finirà con lo stancarsi facendo inutilmente il numero del Comune di Sorso per avere udienza presso i gestori pubblici della….Cultura.

Ma poi, a differenza di Ozieri dove  ha trovato un’Associazione come interlocutrice affidabile,chi c’è a Sossu  intenzionato seriamente (e coraggiosamente) a recuperare  la Memoria Collettiva, non per forza mosso da obiettivi turistici e di cassa?

Chi, individualmente ed in associazione, è disposto a prendersi la responsabilità di elevarci “culturalmente”?

A Sorso abbiamo una Biblioteca pubblica, “tempio laico” della cultura, ed è in questo luogo che si dovrebbero trovare i segni concreti dei personaggi che hanno dato e continuano a darci lustro, e se ancora non ci sono, dovrebbe essere impegno comune farveli ritrovare.   Ma mi chiedo, i sorsesi sono interessati alla loro conoscenza? Li ritengono realmente un valore insostituibile?

Leo Spanu capisce e condivide la “sofferta” decisione di Tanda, ma pensandoci bene, non dovrebbe essere l’eventuale “vicinanza politica,  l’intelligenza artistica e letteraria e quindi il livello culturale di chi momentaneamente governa a motivare eventuali donazioni di Opere artistiche e letterarie, ma la consapevolezza di beneficare le attuali e future generazioni (con la speranza che siano migliori e più “intelligenti” delle passate), con la severa clausola che dei “doni”  bisogna avere massima cura.

Per finire, chi è disposto a dimostrare nei fatti   che dire   “i sorsesi sono impegnati  nel pettegolezzo politico, “a ciarameddhà”  su FB, in discussioni sul peso dell’aria fritta, a elogiare ed esaltare il proprio ego e la propria ignoranza”  è falso?

 

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La foto è tratta da ” Ancora ammenti” di Nicola Tanda

Nessuno è profeta..a Sossu

di Leo Spanu

Leggo sulla Nuova del 23/7/2014 la notizia che il professor Nicola Tanda “regala” ad Ozieri il suo ricco fondo librario. La mia prima reazione istintiva è di stupore  poi mi rendo conto, con amarezza, che il professor Tanda ha fatto la scelta giusta. Nicola Tanda è l’ultimo di quattro fratelli che, con le loro attività, hanno onorato la città di Sorso. Pochi cenni indicativi per i più distratti che, a Sorso, sono troppi.

Nicola Tanda: docente universitario, filologo, critico letterario, fondatore di vari premi letterari (Ozieri, Romangia), studioso della lingua sarda.

Ausonio e Francesco Tanda: due fra i maggiori pittori sardi del secondo dopoguerra.

Anton Paolo Tanda: Sovrintendente dell’Archivio Storico della Camera dei Deputati, studioso di diritto, scrittore.

In realtà parlare di questi quattro illustri sorsesi richiederebbe molto più spazio e tempo ma queste poche note danno un’idea significativa della ricchezza culturale di questa famiglia che, purtroppo, è stata “dimenticata” dai nostri compaesani impegnati in attività più serie come il pettegolezzo politico, “lu ciarameddu”  su FB,  le discussioni sul peso dell’aria fritta, l’elogio e l’esaltazione del proprio ego e della propria ignoranza. Ma tornando a noi, la scelta operata dal professor Tanda di privilegiare Ozieri ignorando il paese natio ha una sua logica.

Facciamo un passo indietro e vediamo cos’è successo alle donazioni fatte al comune di Sorso.

Il fondo Madau-Diez è dato per disperso e del fondo Cottoni non si hanno notizie.

Resta il fondo Bellieni che è in corso di catalogazione da parte del personale della biblioteca.

La donazione dei quadri di Rosa Sechi Colacino (ne abbiamo parlato in un precedente numero del nostro giornale) ha un’esistenza talmente difficile che gli eredi stanno pensando seriamente di farsi restituire le opere della pittrice. Sistemati provvisoriamente al Palazzo Baronale, vengono appesi e staccati in base alle esigenze di altre manifestazioni. Ed è già un fatto positivo considerato che per anni sono stati buttati in un solaio dello stesso palazzo. Non una presentazione ufficiale, non una mostra per far conoscere ai sorsesi una pittrice, loro compaesana, di talento.

La politica culturale a Sorso non esiste. Se escludiamo la prima giunta Bonfigli (assessore Antonio Salis) e la giunta Razzu (assessore Alba Sassu) non c’è mai stato un tentativo serio di programmare un’attività importante per la crescita sociale (ed anche economica) di Sorso.

Purtroppo, e qui sta l’anomalia, c’è un’indifferenza colpevole che non ha spiegazione alcuna considerata la ricchezza culturale di questa comunità. Nel corso degli anni si è visto solo qualche episodio sporadico fine a se stesso e senza seguito quando non si è dato spazio a delle vere e proprie castronerie. Resta il fatto che noi sorsesi ci impegniamo molto per cancellare ogni traccia della nostra memoria. I pochi che resistono e si oppongono a questa logica assurda sono delle mosche bianche da omaggiare per qualche secondo e subito dopo relegare nel dimenticatoio.

“Nessuno è profeta in patria” è un classico ovunque ma a Sorso ha raggiunto la sua espressione più alta. Eppure ci si potrebbe fare un volume di Pagine Bianche con l’elenco delle personalità sorsesi, compresi quelli che, pur essendo nati altrove, a questa comunità hanno dedicato impegno e passione.

Una specie di piccola Atene: Giovanni Baraca, Andreuccio Bonfigli, Antonino Borio, Giuseppe Borio, Gerolamo Cappai, Antonio Catta, don Giuseppe Chelo, Salvatore Cottoni, Francesco Dedola, Salvatore Farina, Lorenzo Giordo, Giuliano Leonardi, Pietro Antonio Manca, Telesforo Manca, Giannetto Masala, Pasquale Marginesu, Pietro Marogna,  don Giuseppe Piras, Luigi Polano, Ignazio Secchi, Rosa Sechi Colacino (Secol),  Francesco Sisini, Giorgio Sisini, Anton Paolo Tanda, Ausonio Tanda, Francesco Tanda,  Antonio Tedde, per citare solo alcune personalità  scomparse e di sicuro ne sto dimenticando qualcuna.

Poi ci sono gli artisti, gli studiosi, gli scrittori viventi. Sono tanti ma volutamente ignorati dai nostri concittadini che  preferiscono l’erba del vicino, notoriamente sempre più verde.

Il professor Tanda da qualche anno  cerca udienza presso le varie amministrazioni comunali con una serie di proposte interessanti. Ne cito una sola: il recupero della sua casa in via Umberto per la costituzione di una pinacoteca che raccolga le opere di tutti i pittori sorsesi. Servono mezzi finanziari, non v’è dubbio, ma serve soprattutto la voglia di operare in questo settore così affascinante e ricco di prospettive anche economiche. Perché malgrado l’opinione dell’ex ministro Tremonti la cultura crea lavoro e ricchezza. Invece tante belle parole, tanti complimenti e tanti bla-bla  “sull’importanza della cultura”.

E allora perché mi sorprendo se il sorsese Nicola Tanda si rivolge a Ozieri, dove è cittadino onorario, per non disperdere il suo e il nostro patrimonio?

 

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Grafomania? Solo espressione del pensiero

 Raccolta parziale di mie lettere pubblicate

                                   sul quotidiano  “La Nuova Sardegna”

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      1 Giugno 2006

                 I monumenti di Sorso sono abbandonati

Di domenica mattina porto mia figlia e il mio piccolo nipotino a far conoscere loro il paese in cui vivono, a partire dagli spazi verdi. Scopriamo purtroppo che gli unici giochi dove far sfogare la loro esuberanza si trovano all’interno di un giardino, che da quel che ne so, è perennemente chiuso. Scopriamo una sorta di scivolo in un altro piccolo spazio, ma non è impresa facile scivolarci, dal momento che è di pietra. Tento di recuperare, portandoli in alcuni luoghi storici. Arriviamo all’antico lavatoio, dove, facendo uno sforzo per non far notar loro le tante siringhe sparse per terra e lo stato di totale abbandono, spiego la grande importanza che il luogo aveva nel passato, per la mancanza di acqua corrente nelle abitazioni. Nelle vicinanze, a malapena dall’alto riusciamo a intravedere la fontana storica dei sorsesi e lo spazio circostante, la cui visita è perennemente impedita sia ai turisti, sia sopratutto ai bambini e alla popolazione, salvo qualche rarissima eccezione. Inevitabilmente mi viene da chiedere a chi amministra la cosa pubblica e che anch’io ho voluto al governo col mio voto: possibile che non si riesca a rendere usufruibili questi spazi? O è destino che dobbiamo prendere sempre la macchina per andare dove ci sono spazi vivibili? 

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   06 febbraio 2009

Parcheggiare in città è difficile e troppo caro ma  

             soprattutto mancano le indicazioni

Una mattinata sfortunata. Nonostante le istintive resistenze a recarmi in città, se non altro per evitare l’inevitabile dose di stress che ogni automobilista giornalmente deve accumulare nel percorrerne le strade e nell’ansiosa ricerca di un parcheggio, una metà mattina di un qualunque giorno feriale mi son dovuto recare controvoglia a Sassari per ritirare un certificato medico. Come prima tappa, cerco un buco per sistemare l’auto nei pressi della stazione ferroviaria, al fine di potermi servire della Metropolitana. Sforzo vano. Mi reco quindi nei pressi degli ospedali e penso di andare a parcheggiare sotto il “Palazzo rosa”. Da subito intravedo la difficoltà di trovare uno stallo libero. Nessun addetto e nessun segnale luminoso avverte della disponibilità o meno di posti, per cui non mi rimane che avventurarmi nei locali quasi al buio. A un certo punto, un muro mi conferma l’assenza completa di posti liberi. Con non poca fatica e apprensione, visto lo spazio limitatissimo, inizio a fare manovra. Disdetta! La fiancata destra dell’auto rimane graffiata da una colonna. Mentre sto per “liberarmi”, non valuto a sufficienza lo spazio minimo dell’uscita più vicina. Ridisdetta! La parte anteriore sinistra rimane malamente graffiata dal muro, per giunta ruvido. Alquanto di malumore per la prospettiva di dover lasciare una considerevole somma dal carrozziere, riesco a trovare uno stallo libero nei parcheggi delle Cliniche, gestiti dalla Europol Service. Meno di dieci minuti mi sono sufficienti per ritirare il certificato. Recatomi allo sportello per il pagamento del parcheggio, riaffiora il malumore, che momentaneamente la gentilezza dell’infermiera incontrata mi aveva fatto dimenticare: per dieci minuti mi viene chiesto 1 euro e 20 centesimi. Mi chiedo se la mia è stata semplicemente una mattinata caratterizzata dalla “scalogna”, oppure se da Sassari è meglio tenersi alla larga!

 

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15 Settembre 2010

                         Qualcuno aiuti la famiglia di Masonga

Da qualche tempo ho instaurato un rapporto d’amicizia con Masonga e la sua famiglia senegalese, dalla quale sto ricevendo molti insegnamenti. Purtroppo nella casa che hanno in affitto a Sorso sono sotto sfratto. Nonostante l’impegno, la ricerca di un nuovo alloggio, iniziata da svariate settimane, si prefigura molto difficile. Anche io ed altre persone siamo impegnati in questa ricerca, ma quando si dice che si tratta di una famiglia di senegalesi il rifiuto è netto e definitivo. Ho paura che anche da noi la diffidenza e la chiusura verso l’immigrato stia assumendo proporzioni che rischiano di rasentare il razzismo. Masonga, tra l’altro eccellente pittore, dopo aver svolto diversi lavori e dimostrato la sua serietà e capacità, si ritrova a dover ripiegare nella solita attività d’ambulante. Ha tre figli meravigliosi e dotati di una sensibilità e intelligenza straordinari. Le due più grandi si sono inserite benissimo nella realtà sorsese, specialmente scolastica. Il piccolo frequenta l’asilo con molto entusiasmo. Purtroppo c’è la prospettiva che a breve debbano lasciare tutto ciò che hanno costruito qui per ritornare, forzatamente, in terra d’Africa. Il mio vuole essere un appello alle istituzioni e ai cittadini, perchè dimostriamo concretamente di essere un popolo accogliente e di non essere schiavi di pregiudizi verso gli immigrati. Masonga e sua moglie stanno cercando una casa dignitosa in affitto, possibilmente in campagna, per riprendere il contatto diretto con la terra, fondamentale per l’africano.

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17 giugno 2011

         Sedicenne di Sorso lasciato solo

 La partecipazione al funerale del giovane suicida di Sorso è stata massiccia, come succede in situazioni dove le persone sono colpite emotivamente. Padre Marco, nella sua toccante omelia, fa l’inevitabile analisi, rilevando la mancanza di valori di questa società consumista e invitando tutti a fare autocritica.  Come per molti, è possibile che il ragazzo vivesse una dimensione di solitudine che nessuno è stato in grado di colmare. Il parroco, dopo i rituali e forse inopportuni ringraziamenti alle autorità per la loro presenza, ai ragazzi presenti dice con forza e convinzione che lui e gli altri sacerdoti che sono in paese vogliono essere cercati perché vogliono… lavorare! É chiaro il suo riferimento alla “Vigna del Signore”. Ma questo “lavoro” di cui parla è ancora adeguato ai tempi pieni di contraddizioni e “privi di padri” che stiamo vivendo? Forse buona parte dei pastori di anime pensa che il suo lavoro sia proficuo se riesce ad attirare ragazzi in chiesa e ad impegnarli all’interno di gruppi sotto il suo controllo e la sua guida. È necessario ammettere che questo richiamo non è attraente per tutti i giovani. Si aspettano di essere ascoltati, principalmente nelle richieste non espresse verbalmente. È proprio questa capacità che manca oggi in molti adulti ed educatori. Tutti siamo pronti a elargire consigli e regole di comportamento, ma ascoltare l’altro è diventata impresa sempre più rara. Epperò questo è il compito principale per coloro che vogliono tentare di abbattere le barriere generazionali sempre più alte, siano essi preti o genitori, ma anche amministratori e responsabili a vari livelli.

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13 novembre 2011

     Giusta protesta dei pendolari di Sorso

 Ho letto proprio ieri sulle pagine della cronaca di Sassari e ritrovato volentieri su Facebook il reclamo che un gruppo di cittadini ha inviato alle autorità per i disagi di diverso genere provocati dai ritardi dei treni in partenza da e per Sorso, specialmente nelle prime ore del mattino, cioè quando è importante raggiungere puntualmente i luoghi di studio e di lavoro. Ne è prova la lettera che il gruppo – piuttosto folto – di pendolari ha consegnato all’Arst, che ha la gestione delle linee. La mia soddisfazione è data dal fatto che finalmente, almeno qualche volta, i cittadini tentano di superare la rassegnazione e pretendono i loro diritti.  Oltre i ritardi constatati personalmente, dal momento che anch’io mi servo di questo mezzo di trasporto, voglio qui richiamare l’attenzione sul fatto che ancora oggi, su questa tratta inaugurata nel lontano maggio 1930, circola il treno costruito in quegli stessi anni. Poco più moderno di un vagone a vapore, una locomotiva che fu messa sulle rotaie negli anni 50. Purtroppo il suo valore storico non va di pari passo alle giuste esigenze odierne di voler viaggiare comodamente e senza rischiare di prendersi un malanno con tutti gli spifferi e la mancanza di riscaldamento.  La cordialità del personale, anch’esso mortificato e penalizzato nel dover prestare servizio in tali condizioni, non è sufficiente a placare l’ira ed il malcontento dei viaggiatori. E intanto, i nostri politici che fanno? Si stanno dando da fare per cercare di diminuire i disagi dei concittadini amministrati?

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22 dicembre 2011

      Mezzi pubblici obsoleti


Se uno decide di servirsi dei mezzi pubblici per recarsi al lavoro, la tratta Sassari-Sorso lo costringe a rinunciarci. Qualche settimana fa si è parlato dei vecchi treni risalenti al periodo fascista ancora in uso, con tutti i disagi derivanti. Ma anche volendosi servire degli autobus, la situazione non migliora affatto. Non si riesce a capire perché i viaggiatori debbano anche in questo caso subire innumerevoli disagi, dovuti sempre all’uso di mezzi obsoleti. Martedì 13 dicembre, come al solito, mi trovo nel capolinea di via Zirano, aspettando il bus per fare rientro in paese, stazionando in mezzo alla sporcizia e costretto tra l’altro a inalare i gas di scarico dei grossi mezzi in moto, chissà perchè, diversi minuti prima della partenza. Naturalmente, alle 14,10, orario previsto, dell’autobus nessuna traccia. Dopo un bel po’, finalmente arriva. Al momento di salire a bordo, i passeggeri vengono bloccati dall’autista perchè non riesce ad accendere il motore. Lo stesso guidatore si mette in contatto con la centrale operativa per rimediare all’inconveniente, ma di risultati niente. Intanto il senso di frustrazione e la rabbia dei lavoratori e degli studenti montano, ma inutilmente. Dopo mezz’ora circa, arriva l’autobus per Santa Teresa di Gallura. L’assalto è in massa e in breve vengono occupati tutti i posti disponibili. Buona parte rinuncia al viaggio. Altri, me compreso, salgono e son costretti a viaggiare in piedi, faticando non poco a stare in equilibrio per tutto il tragitto. Se fosse un fatto isolato, ancora ancora. Il fatto è che questi episodi si ripetono, e quando va bene, si è costretti a viaggiare con mezzi scassati, sporchi e col riscaldamento che, guarda un po’, «proprio quel giorno non funziona».

                     

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11 luglio 2012

                                  Esempi di partecipazione

Caro professor Brigaglia, nella risposta alla mia, pubblicata lo scorso 26 giugno, lei mi chiedeva come i cittadini possono far sentire la loro voce agli amministratori pubblici in modo organizzato.Quando si parla di Democrazia Partecipativa si pensa ad un semplice auspicio, difficilmente applicabile in un contesto sociale e politico dove solitamente, non rispettando gli impegni presi in campagna elettorale, il candidato che si trova ad amministrare la cosa pubblica, più che farsi portavoce della volontà popolare, porta avanti la sua posizione e quella del partito di appartenenza. In diversi Comuni italiani la partecipazione diretta dei cittadini è una fase imprescindibile prima di decidere come amministrare le risorse. L’amministrazione organizza assemblee pubbliche nei vari quartieri, e in modo democratico si decidono le priorità. Il frutto di queste discussioni pubbliche viene vagliato dalla giunta, facendolo diventare operativo, nel possibile. Perché non applicare questa prassi nelle nostre realtà locali? Certo, per arrivare a questi risultati bisogna crederci.Il problema è se il “politico” è disposto a farsi semplice tramite della volontà delle persone, mettendo da parte le tentazioni del potere. Molti politici però sono lontanissimi dalla mentalità del confronto. Si figuri che dalle nostre parti un esponente della maggioranza è arrivato ad insultare il consiglio comunale dicendo che «l’opposizione non merita nessuna risposta…. noi dobbiamo rispondere solo ai cittadini (sic)». Quali cittadini? Quelli che li hanno votati o tutti?

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 agosto 2012

                    Quanta acqua sprecata nelle aiuole pubbliche

Rivolgo attraverso il giornale una domanda agli amministratori di Sassari. Mi dica, Sig. Sindaco Ganau, ma non rimane contrariato quando vede l’acqua sprecata fuori dalle aiuole a causa della mancata regolazione degli irroratori? E alle orecchie e all’intelligenza dell’Assessore incaricato, giunge notizia di queste disfunzioni a cui dovrebbe porre rimedio, se non altro per evitare l’indignazione sempre più montante degli amministrati privati per troppe ore giornaliere di questo bene prezioso? Provi a dare un’occhiata nella piazza della Stazione, magari verso le otto di mattina. Buona passeggiata

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11 gennaio 2013

                 In memoria di Petronio

L’8 gennaio di due anni fa ci lasciava Petronio Pani, all’età di 82 anni. Una persona che ha avuto sempre massimo rispetto per l’altro, sia durante gli anni d’insegnamento nelle scuole di Sassari, sia nelle svariate attività portate avanti con passione e senza alcuna ricerca di tornaconto. Ha sempre cercato di costruire ponti d’incontro con gli altri, con la convinzione che la particolare ricchezza umana e culturale di ciascuno serva per la crescita comune. La sua perenne disponibilità serviva da stimolo per le persone che avevano la fortuna e l’avventura d’incontrarlo. Sono molti coloro che hanno beneficiato della sua generosità e che continuano ad avere un senso di riconoscenza per quest’uomo che non si tirava mai indietro davanti alle necessità altrui. Sono certo che il ricordo rimarrà vivo in tutti coloro che l’hanno conosciuto e le nuove generazioni apprezzeranno i racconti fatti su di lui. Lu Pintògliu è un’autodefinizione di Petronio. Egli ha sempre pungolato se stesso e le persone che hanno avuto la fortuna di conoscerlo, affinché si superasse l’ordinaria banalità quotidiana, andando oltre la semplice cura del proprio orticello. Così facendo, è stato capace di rendere straordinaria la sua vita.

risposta di Brigaglia

Murineddu ha ragione. La memoria di Petronio Pani, della sua gentilezza, della sua disponibilità verso il prossimo, dei suoi molteplici impegni nel sociale (in cui gli fu sempre vicina la moglie, la signora Gavina) è ancora fortemente viva fra i sorsensi. E scorrendo i ricordi della sua vita, cui lo stesso Murineddu ha dedicato un bel documentario, ho trovato anche memoria di un giornale goliardico del 1951, “Lu siazzu”, tra i cui redattori figura uno degli indimenticabili cittadini di Sorso, Andreuccio Bonfigli, che ne fu sindaco molto popolare. Questa lettera è un esempio: non soltanto perché vuole rinverdire una memoria che, peraltro, non si spegne (ci fu anche un “Memorial Petronio Pani” nell’ottobre di due anni fa, nel quadro di “Romangia corre”), ma anche perché mostra come il patrimonio di memorie “civili” di un paese si alimenta del ricordo degli uomini “buoni”, gente comune a suo modo straordinaria, gente che mette a frutto la propria vita impiegandola a favore degli altri. Ogni comunità avrebbe bisogno di questo piccolo Pantheon, in cui gli anziani possono riversare i loro ricordi e i giovani imparare le leggi essenziali della vita.

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29 gennaio 2013

                VOTO CONSAPEVOLE

In tanti anni di Democrazia rappresentativa, ne abbiamo visto (e subìto) tutti i limiti e le contraddizioni. Ogni tanto da parte della società civile, di qualche partito e di qualche isolato politico (almeno a parole), partono appelli ad una maggiore partecipazione dei cittadini alle scelte che riguardano tutta la collettività, ma i mezzi e i modi continuano ad essere vaghi e non tradotti in gesti operativi. Nonostante la novità delle “primarie” (non da parte di tutti, questo va detto chiaramente), la tendenza dei capi partito ad assicurare il posto a certi privilegiati permane. La verità è che chi si ritrova a gestire il potere non accetta di essere “disturbato”, per cui si preferisce andare avanti come sempre è stato. E allora, cosa resta da fare al singolo cittadino che crede ancora nella politica e che non tutti coloro che vogliono operare in questo campo siano “arraffoni ed arrivisti”? Proviamo ad informarci. In molti casi la possibilità di conoscere il curriculum delle persone pubbliche è alla portata di tutti. Informarci sull’attività e l’apporto dato al bene comune e, nel caso d’esperienza già fatta, sapere come ha amministrato la cosa pubblica. Informarci sui rapporti del candidato con la giustizia è fondamentale. Certo, essere indagato non vuol dire aver subìto una condanna, specialmente penale. In questo caso, tuttavia, si dovrebbe avere la decenza di mettersi da parte. Far politica non è un mestiere, ma la decisione seria di uscir fuori dalle proprie comodità per mettersi a servizio degli altri. Lo so, come definizione è quasi commovente, e i malumori e i forti risentimenti da parte dei tanti esclusi dalla formazione delle liste, oltre l’indecente sbraitare di chi si sente incoronato dal leader nazionale a guidare le liste e le lotte conseguenti, mi fanno ancora pensare che gli scopi siano diversi da quelli del servizio al prossimo. Purtroppo, per colpa dei troppi che hanno tratto profitto personale, nel sentire comune la visione di Politica come Servizio continua a far sorridere. Ad altri più sensibili, però, fa quasi piangere.

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13 febbraio 2013

                                          Satira fastidiosa

Tradizionalmente e con molta evidenza, i politici rimangono infastiditi ad hanno paura della satira. Al contrario, a noi persone “comuni”, la satira serve come antidoto al loro prendersi troppo sul serio e come ricostituente per l’umore, spesso a terra per le troppe cose inaccettabili che siamo costretti a subìre. Su “La Nuova Sardegna”, Ferdinando Camon ha parlato dell’argomento. Tra l’altro, ammette che nella trasmissione “Ballarò”, dopo l’intervento iniziale di Crozza e l’inizio della presentazione dei cartelli statistici, cambia canale. Io non solo cambio canale, ma spesso dedico il tempo finale della giornata a qualche libro che nel momento mi sta appassionando, invece di lasciarmi andare alla passività televisiva.Mentre Crozza ridicolizza i politici, presenti o meno, senza distinzione di colori, le telecamere inquadrano i volti di questi, volta per volta divertiti (almeno apparentemente!), o corrucciati trattendo la rabbia che sale. In prossimità del Festival di Sanremo, il Monarca Innominabile annuncia di non aver paura della Lucianina “Gambecorte”, a differenza dei suoi , che temono che sia occasione per fare campagna elettorale. Si sa, il Super Capo deve sempre mostrare sicurezza, e non far trasparire segni di cedimento. Ci mancherebbe…. Lui! Vedremo. L’argomento mi fa ripensare alle reazioni scomposte che durante il Carnevale scorso ci sono state a Sorso, quando un Giudice Giullare aveva fatto un processo a Re Giorgio molto particolare, scherzando coi politici locali ed altri personaggi sorsesi. Apriti, cielo! Minacce di denunce e quant’altro. Conclusione: già da questo Carnevale 2013 l’anarchica e liberante buffoneria di li sussinchi è stata messa a tacere.

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17 febbraio 2013

                          Scrutatori – Sorso insiste con i vecchi criteri

Anche questa volta il Consiglio comunale di Sorso ha scelto gli scrutatori per le elezioni secondo la normativa vigente, cioè proporzionati ai partiti eletti. Ogni Comune avrebbe facoltà di modificare il metodo di scelta, come ci dice l’esempio dato da Alghero, purtroppo non seguito. Nella cittadina catalana, i 218 scrutatori sono stati sorteggiati tra tutti coloro che ne avevano fatto richiesta, e molti degli estratti hanno rinunciato in favore di altri, disoccupati e senza reddito. Ringrazio gli algheresi per la dimostrazione di civiltà dimostrata. Non posso invece non esprimere la mia delusione e amarezza per la solita logica spartitoria usata dal nostro Consiglio Comunale. Mi rimane la speranza che quando ci recheremo a votare, le schede non ci vengano consegnate dai soliti volti, compresi i presidenti di seggio, con un lavoro e un reddito assicurato. Oltre che uno sfregio al senso di giustizia, sarebbe imperdonabile nei confronti dei troppi disoccupati, magari con un diploma e una laurea in tasca, ma senza “angeli in paradiso”.

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4 maggio 2013

                  Un’opportunità per chi ha sbagliato

Mi ha riempito di speranza leggere che recentemente il sindaco di Mamoiada che ha teso una mano al suo attentatore e che ricorda che «il nostro compito fondamentale è quello di costruire comunità, non separare, isolare e nè tantomeno giudicare». Tra l’altro, il primo cittadino dice che la sua amministrazione ha fatto una convenzione col tribunale, finalizzata al «recupero dei carcerati mediante l’inserimento in lavori di pubblica utilità». Come ci ha informato la stampa, negli stessi giorni i comuni di Sassari, Porto Torres e Sorso hanno fatto una cosa simile, applicando semplicemente il dettato costituzionale che considera e motiva la detenzione per migliorare chi ha sbagliato più che a punirlo. Personalmente ho gioito di questo. La soddisfazione è stata però oscurata dall’indignazione al sentire reazioni risentite per quest’iniziativa. I soliti e qualunquisti luoghi comuni: ”Non c’è lavoro per le persone oneste e lo danno ai galeotti” oppure “Per essere aiutati dallo Stato, bisogna essere o drogati o delinquenti” e via di questo passo. Comprensibile se a dirlo è un padre di famiglia mortificato e incattivito dall’impossibilità di accedere ad un qualsiasi reddito, ma non è accettabile come giudizio e atteggiamento da parte di un popolo civile che ha il dovere della solidarietà, anche verso chi ha infranto la legge, magari per necessità e per disperazione, e che non può negare l’opportunità di rimediare allo sbaglio che si è fatto.

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15 maggio 2013

                   Il treno a retromarcia

Non so se esiste un precedente. Alle 6,30 di questo martedì, il treno che da Sorso conduce a Sassari è arrivato faticosamente a destinazione, ma… a marcia indietro (!). Partito già lentamente con un motore in meno, poco dopo l’uscita dall’abitato si è fermato, con disappunto dei passeggeri e ansioso punto interrogativo da chi aveva bisogno di raggiungere il posto di lavoro in città. A fatica si riparte, per fermarsi subito dopo. È qui che il macchinista decide di prendere i comandi nella parte opposta dei tre vagoni e avviare la retromarcia. L’arrivo quasi insperato in città. E per di più in un orario ancora accettabile, allenta la tensione nei viaggiatori. Messo piede a terra, non esito a chiedere scusa al controllore col quale, alla prima sosta, si era creato un piccolo diverbio, un po’ per il modo brusco col quale mi aveva fatto una giusta osservazione e un po’ per la mia permalosità, dovuta anche al poco riposo notturno. È questo il motivo principale di questa mia lettera, cioè l’importanza di fare un passo per ricomporre possibili incomprensioni, superando stupide testardaggini e sterile orgoglio, ma naturalmente anche per denunciare, se mai ce ne fosse ancora bisogno, lo stato penoso dei treni in Sardegna.

Risposta di Brigaglia

La Sua è una lettera esemplare, nel senso specifico di “che serve da esempio”. Esempio numero uno. Il viaggio Sorso-Sassari a marcia indietro, se non fosse l’ennesima manifestazione della precarietà in cui si trovano i servizi ferroviari in Sardegna, sarebbe una storia da collocare pari pari nell’imperituro album dei rapporti fra sassaresi e sorsinchi, che si apre con la famosa “Battaglia di Rosello-Tira chi ti tostha”. Esempio numero due. Straordinario spirito di iniziativa del controllore (o chi per lui), che invece di adottare il principio sardesco del “fare fanno come fanno a Bosa, che quando piove lasciano piovere”, realizza con il ricorso alla retromarcia non solo il miracolo di portare i viaggiatori a destinazione, ma anche di farli arrivare quasi in orario (cioè con il ritardo che è consueto a molte delle linee sarde). Esempio numero tre. Il viaggiatore che chiede scusa al controllore. Comportamento da gentiluomo di Romangia, di cui non si conoscono molti casi: né più né meno di quanti pochi se ne conoscono di controllori che chiedono scusa al viaggiatore. Urrah, dunque, e passiamo il tutto alle cronache prossime venture.

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22 maggio 2013

                               Riparare è meglio che rottamate

Zia Firumèna, madre di Peppeddhu, ha bisogno di un letto ortopedico, per cui il figlio si reca presso l’ASL per averne uno in comodato d’uso. Non vedendo più i presidi arrugginiti, viene a sapere da Giuanniccu, che qualche giorno prima è stato portato tutto via. Bisogna sapere che Peppeddhu, avendo frequentato la gloriosa scuola di masthr’Antòni Pàni, indimenticato fabbro factotum di Sorso, si diletta da sempre a ridare vita agli oggetti apparentemente inservibili. Indignato per tanto spreco e probabilmente senza conoscere le correnti modalità d’assunzione, si propone direttamente alla Direzione dell’Ente per riparare tutti gli apparecchi.Il Direttore, dopo un frettoloso sguardo a questa inusuale richiesta, senza esitare butta il foglio nel cestino, ma inaspettatamente lo raccoglie e decide di mettere alla prova il giovane . Il suo stretto collaboratore gli richiama la prassi normale, cioè pubblico concorso e soprattutto l’indicazione del Politico Influente, ma lui vuole fare di testa sua. Nell’arco di poco tempo il miracolo promesso da Peppeddhu,affiancato sempre da Giuanniccu, si avvera: carrozzine, letti e quant’altro vengono perfettamente rimessi a nuovo, con disappunto delle Ditte Ortopediche e grande gioia delle casse dell’ASL. Ma non solo. La notizia incredibile che una persona capace non è stata assunta con l’intercessione del Politico Influente, provoca un altro miracolo, cioè risvegliare l’antico entusiasmo dei vecchi dipendenti.

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                           La raccomandazione e la pagnotta

Seduti al bar con altri tre amici, parliamo della raccomandazione. Mentre Mario afferma che per l’urgenza di assicurarsi la pagnotta, gli scrupoli morali ai tempi d’oggi sono rarissimi, Umberto mette in evidenza che le Caste sociali si reggono su questi interessi ed intrecci traversali. Maria Antonietta dice che taluni che ne usufruiscono addirittura l’ostentano e per chi la concede è motivo di orgoglio. La discussione si anima. E’ esagerato affermare che nei concorsi pubblici la cosa diventa criminale? Presentarsi con le carte in regola è un diritto, ma non è dignitoso raccomandarsi al potente perchè intervenga. Se il potente interviene è illegale, ma è ancora più grave se la Commissione giudicante si fa manovrare nello stilare la graduatoria di merito.Una concezione distorta della politica, che riduce i cittadini a sudditi che assicurano all’Influente Benefattore il potere raggiunto,perpetua questo malcostume. Ma l’insicurezza e i rapporti all’insegna del “do ut des” comprende anche i rapporti interpersonali, fino al punto che si cerca per istinto il conoscente che lavora in qualsiasi ente pubblico per ottenere il più elementare diritto.Bisogna ammettere la triste verità, cioè che questa malattia è talmente cronicizzata e siamo in una situazione del “si salvi chi può”, che importa solo risolvere il proprio problema personale? Chissà se il prete dei tempi passati immaginava che la sua innocente lettera di raccomandazione per il bravo parrocchiano avrebbe generato un tale sconquasso nella nostra società! Intanto, ci lamentiamo col barman siciliano perchè il caffè servito è imbevibile. Ci risponde di non rompere i cabasisi:sono questi discorsi che facciamo che lo rendono amarissimo.

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8 luglio 2013

                                   Cervelli in fuga

Con grossi sacrifici personali e della famiglia, nei giorni scorsi mio figlio ha conseguito una laurea alla “Sapienza” di Roma. Per la possibilità avuta di soggiornare in alcuni Paesi europei e per l’apprendimento di almeno tre lingue, sarà molto probabile che scelga di andare a vivere all’estero. La volontà di adattarsi ad altre culture è importante, ma è triste doverlo fare perché qui non si intravedono prospettive. È cosa grave l’allontanamento forzato non solo dei cosiddetti “cervelli in fuga”, ma di qualsiasi persona, col suo insieme di capacità. Aspetto, questo, non meno importante. Che possibilità di vita dignitosa offre questo Paese e la Sardegna in particolare? Sono sicuramente apprezzabili i tentativi di chi con fantasia intraprende una qualsiasi attività con l’intento di migliorare la nostra terra, ma raramente il coraggio di rimanere è riconosciuto e incoraggiato. La mia imperdonabile colpa è che una volta, tanti anni fa, seppur a livello locale, ho contribuito anch’io ad alimentare il potere berlusconiano che in tutti questi lunghi anni ha portato non pochi a vergognarsi di essere italiani. Non abbiamo tardato a patire la conduzione padronale che questo stravagante imprenditore ha fatto dell’Italia. Gli animi di molti sono sempre più esasperati, eppure si continua a mantenere il Sultano in piedi e con le attuali e ipocrite “larghe intese” – per rimanere aggrappati al potere, s’intende! – tutta la politica nazionale continua a ruotare scandalosamente intorno a questo personaggio, per cui vedere prospettive incoraggianti all’orizzonte è impresa ardua. E allora? Coraggio, figlio mio, considerati cittadino del mondo e realizza la tua vita dove ti porta …il cervello.

Risposta di Brigaglia

La Sua lettera dice almeno quattro cose che colpiscono l’attenzione. La prima, abbastanza usuale, è che mentre i dati ci mettono dietro altre 98 regioni d’Europa per numero di laureati, chi si laurea qui non trova lavoro. La seconda, su cui si mette meno attenzione, è che il governo regionale pare non voglia (possa?) far nulla per chi, laureato, vuole restare qui. La terza, meno impressa, credo, nella coscienza degli italiani, è che il regime di quest’ultimo ventennio ha grande colpa di questa situazione. La quarta è che dobbiamo abituarci a vivere nel mondo globalizzato come fossimo a casa nostra.

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1 dicembre 2013

               Servitori dello Stato non solo in divisa

Nei drammatici giorni dell’alluvione, un politico rilevava la “gravità” dell’assenza delle Camere ai funerali del poliziotto morto in servizio. Eppure c’era la bara avvolta dal tricolore, c’era il capo della Polizia, c’era la presidente del Consiglio Regionale e lo stesso Cappellacci. Tuttavia, il politico evidenzia che le istituzioni non hanno degnamente onorato l’eroismo di un “servitore dello Stato”. Sul valore che si dà al termine “eroe”, sarebbe tutto da discutere, anche considerando che il povero poliziotto, perito a causa dell’improvvisa voragine apertasi nel ponte, stava svolgendo uno dei tanti compiti previsti dal mestiere che aveva scelto. Ci sarebbe da riflettere sopratutto sulla dicitura “servitore dello Stato”. Chiedo come mai solitamente è considerato tale chi indossa una qualsiasi divisa, possibilmente delle forze dell’ordine, oppure che ricopre un ruolo di rilievo nella società. Il pensiero va anche ai poveri militari periti in terra straniera non per azioni di guerra in senso stretto, ma per un semplice incidente stradale. Al loro rientro in patria sono accolti da eroi e con solenni funerali di Stato. Un poveretto che muore sul posto di lavoro, sottopagato e magari perchè non sono state osservate le norme di sicurezza, non è un servitore dello Stato? Un insegnante che muore d’infarto perchè stressato dalle dure ore di lavoro coi ragazzi, un anziano metalmeccanico che muore di cancro dopo aver respirato per anni veleni, un militare ammalatosi gravemente nei campi d’addestramento che doveva ripulire dalle scorie dell’uranio impoverito. Non sono anche questi servitori dello stato? Isael, immigrato brasiliano da svariati anni in Gallura, perito con la sua famiglia imprigionata dalle acque del seminterrato della casa non sua che custodiva, non era un servitore dello Stato? Eppure era un onesto e ben voluto cittadino. Altre vicende recenti ci hanno mostrato e continuano a mostrarci che non tutti siamo uguali, davanti alla legge e purtroppo, rischiamo di non esserlo neanche davanti alla morte. Che la terra sia lieve a tutte le vittime di questa e di tutte le tragedie, vittime sì di fenomeni naturali straordinari, ma sopratutto dell’imbecillità umana.