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DUE – Paura di tutto

dal film “Happy family”

 

Viviamo con l’incubo che da un momento all’altro tutto quello che abbiamo costruito possa distruggersi.

Con il terrore che il tram su cui siamo possa deragliare.

Paura dei bianchi, dei neri, della polizia e dei carabinieri;
con l’angoscia di perdere il lavoro ma anche di diventare calvi, grassi, gobbi, vecchi, ricchi.

Con la paura di perdere i treni e di arrivare tardi agli appuntamenti;
che scoppi una bomba, di rimanere invalidi;
di perdere un braccio, un occhio, un dente, un figlio, un foglio.
Un foglio su cui avevamo scritto una cosa importantissima.

Paura dei terremoti, paura dei virus;

paura di sbagliare, paura di dormire;
paura di morire prima di aver fatto tutto quello che dovevamo fare.
Paura che nostro figlio diventi omosessuale, di diventare omosessuali noi stessi.
Paura del vicino di casa, delle malattie, di non sapere cosa dire;

di avere le mutande sporche in un momento importante.
Paura delle donne, paura degli uomini;
paura dei germi dei ladri, dei topi e degli scarafaggi.
Paura di puzzare, paura di votare, di volare;
paura della folla, di fallire;
paura di cadere, di rubare, di cantare;
paura della gente;

Paura degli altri.

 

UNO – Paura dell’altro

 

LA PAURA

(monologo di Giorgio Gaber)

E camminando di notte nel centro di Milano semi deserto e buio e vedendomi venire incontro l’incauto avventore, ebbi un piccolo sobbalzo nella regione epigastrico-duodenale che a buon diritto chiamai… paura, o vigliaccheria emotiva.

Sono i momenti in cui amo la polizia. E lei lo sa, e si fa desiderare.

Si sente solo il rumore dei miei passi. Avrei dovuto mettere le Clark.

La luna immobile e bianca disegna ombre allungate e drittissime. Non importa, non siamo mica qui per fare delle fotografie, dài!

Cappello in testa e impermeabile chiaro che copre l’abito scurissimo, l’uomo che mi viene incontro ha pochissime probabilità di essere Humphrey Bogart. Le mani stringono al petto qualcosa di poco chiaro.

Non posso deviare. Mi seguirebbe.

Il caso cane-gatto è un esempio tipico: finché nessuno scappa non succede niente. Appena uno scappa, quell’altro… sguishhh.

Ed è giusto, perché se uno scappa deve avere una buona ragione per essere seguito. Altrimenti che scappa a fare? Da solo? In quel caso si direbbe semplicemente ‘corre’…

E se poi lui non mi seguisse non ho voglia di correre come un cretino alle due di notte per Milano… senza le Clark.

La luna è sempre immobile e bianca, come ai tempi in cui c’erano ancora le notti d’amore. Non importa, proseguo per la mia strada. Non devo avere paura. La paura è un odore e i viandanti lo sentono. Sono peggio delle bestie questi viandanti… è chiaro che lo sentono.

Ma perché sono uscito? Avrei dovuto chiudermi in casa e scrivere sulla porta: “Non ho denaro” a titolo di precauzione, per scoraggiare ladri e assassini. E lo strangolatore solitario? Quello se ne frega dei soldi. Dovrei andare a vivere in Svizzera. Non si è mai abbastanza coraggiosi da diventare vigliacchi definitivamente.

Ma l’importante ora è andare avanti, deciso. Qualsiasi flessione potrebbe essere di grande utilità al nemico. La prossima traversa è vicina e forma un angolo acuto. Acuto o ottuso? Non importa. Però sento che lo potrei raggiungere, l’angolo.

Ma il nemico avanza, allunga il passo… o è una mia impressione? Ricordati del cane e del gatto.

Anche lui ha paura di me.

Devo puntargli addosso come un incrociatore, avere l’aria di speronarlo… ecco, così.

È lui che si scosta… disegna una curva.

No, mi punta.

Siamo a dieci metri: le mani al petto stringono un grosso mazzo di fiori.

Un mazzo di fiori?.. Chi crede di fregare! Una pistola, un coltello, nascosto in mezzo ai tulipani. Come son furbe le forze del male!

Eccolo, è a cinque metri, è finita, quattro, tre, due, uno…

[segue con lo sguardo una persona che gli passa accanto].

[sospiro di sollievo]

Niente, era soltanto un uomo.

Un uomo che senza il minimo sospetto mi ha sorriso, come fossimo due persone.

Che strano, ho avuto paura di un ombra nella notte. Ho pensato di tutto.

L’unica cosa che non ho pensato è che poteva essere semplicemente… una persona.

La luna continua a essere immobile e bianca, come ai tempi in cui c’era ancora l’uomo.

 

 

DEDICATA A MIA FIGLIA MARTA NEL GIORNO DEL SUO VENTESIMO COMPLEANNO

Come succede a molti, anch’io sono uno di quei genitori che non riescono ad esprimere i tanti sentimenti provati per i propri figli. Ringrazio l’autrice del testo che segue per la grande mano che mi da’ nel togliermi da questo impaccio.  Per quanto mi sarà possibile, a partire da subito cercherò di far mie queste sue bellissime e vere parole. 

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A MIA FIGLIA

di Yuliana Arbelaez

 

Amata figlia,

è mio desiderio profondo che tu possa esprimere la tua essenza.

Non imitarmi, non essermi fedele, non seguire i mie errori e le mie carenze, sii fedele a te stessa, tu adesso sei libera.

Fa che la tua vita sia più grande e piena della mia, scopri chi sei, io sarò con te SEMPRE in ogni sbaglio ed in ogni successo, il mio amore sarà con te indipendentemente dalle tue scelte, e dalla mia approvazione, permetti a te stessa di sbagliare, permetti a te stessa di cadere, non avere paura di deludere, impara dagli errori, gli sbagli sono importanti lezioni di volo, io ti amerò indipendentemente dei tuoi fallimenti o trionfi,

amo te non quello che fai o non fai.

Accogli ciò che sei con amore e accettazione.

Ti amo profondamente e sono fiducioso che troverai la tua strada!

Ti dono la mia benedizione affinchè tu sia quello che che desideri essere.

Ti chiedo perdono dal profondo del mio cuore per tutto quello che non ho potuto darti, per le mie mancanze.

Ti amo, figlia mia

 

Laurea con l’augurio di non puntare a posizioni di privilegio

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I VOSTRI FIGLI

di Kahlil Gibran

I vostri figli non sono figli vostri…sono i figli e le figlie della forza stessa della Vita.

Nascono per mezzo di voi, ma non da voi.

Dimorano con voi, tuttavia non vi appartengono.

Potete dar loro il vostro amore, ma non le vostre idee.

Potete dare una casa al loro corpo, ma non alla loro anima, perchè la loro anima abita la casa dell’avvenire che voi non potete visitare nemmeno nei vostri sogni.

Potete sforzarvi di tenere il loro passo,
ma non pretendere di renderli simili a voi,
perchè la vita non torna indietro, né può fermarsi a ieri.

Voi siete l’arco dal quale, come frecce vive,
i vostri figli sono lanciati in avanti.
L’ Arciere mira al bersaglio sul sentiero dell’infinito e vi tiene tesi con tutto il suoi vigore affinché le sue frecce possano andare veloci e lontane.

Lasciatevi tendere con gioia nelle mani dell’Arciere, poiché egli ama in egual misura e le frecce che volano e l’arco che rimane saldo.

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La laurea è una tappa, sicuramente importante, che aiuta a migliorare la consapevolezza nei confronti del mondo circostante. Nel contempo deve responsabilizzare per impegnarsi a rendere migliore la vita degli altri, usando strumenti nonviolenti e di pace per abbattere le troppe barriere che stanno dividendo sempre più l’umanità. È in questo senso che io intendo l’andare “veloci e lontani” delle …parole di Gibran.
Insieme a mia moglie Giovanna ringraziamo uno per uno gli amici del nostro carissimo Giuseppe che in questi faticosi anni di studio hanno allietato le sue giornate. A loro, a nostro figlio e alla nostra amata figlia Marta, impegnata anche lei a preparare con fatica e passione gli esami del suo percorso universitario, auguriamo di NON puntare a farsi strada per raggiungere posizioni di privilegio, ma ad operare con fiducia per riumanizzarci tutti e contribuire fattivamente al miglioramento di questo mondo. (Piero)

Vangelo e Costituzione come bussola

 

Intervista al neo arcivescovo di Palermo Corrado Orefice che, dice, si sente «inadeguato» per il nuovo incarico e s’ispira al beato Puglisi: «Rappresentava una Chiesa di frontiera, lontana dai riflettori, che agiva sul territorio per il riscatto sociale delle coscienze e delle periferie». Le priorità? «Tutelare i più deboli e poveri»

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di Pietro Scaglione

 “Monsignor Lorefice? No, sono don Corrado”.  L’intervista con il nuovo arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, inizia così. E questa frase testimonia la semplicità del parroco della chiesa di San Pietro di Modica, scelto da Papa Francesco per guidare una delle diocesi più importanti d’Italia nonché sede cardinalizia.  La nomina del parroco di periferia è accolta con entusiasmo in città: dai fedeli ai sindacati, dalle associazioni al sindaco, dai parlamentari siciliani ai volontari, è tutto un fiorire di reazioni positive, di applausi a scena aperta per la scelta del Pontefice.
 
Le sfide che attendono il successore del cardinale Paolo Romeo saranno numerose e delicate: accoglienza degli immigrati, antimafia, povertà, disoccupazione, riscatto delle periferie, emergenza abitativa.  Don Corrado Lorefice dedicherà una particolare attenzione ai diritti dei detenuti.

Don Corrado, una delle prime sfide sarà l’immigrazione, con i frequenti sbarchi in Sicilia. Palermo è una città multietnica dove non attecchisce il razzismo e dove prevale la solidarietà. Peraltro il nuovo rapporto Caritas sull’immigrazione spazza via pregiudizi, stereotipi e allarmismi, spesso creati ad arte.
«Non è una questione di paternalismo o buonismo. È l’identità stessa del Cristianesimo e del Vangelo ad imporre l’accoglienza e la solidarietà nei confronti dei forestieri. L’immigrazione è un fenomeno epocale che interpella sia la Chiesa come comunità diocesana, sia lo Stato come entità pluralista e società aperta».

Altre sfide importanti riguardano le vecchie e nuove povertà, il diritto al lavoro e alla casa per tutti.
«Sono questioni decisive. Uno dei miei primi propositi sarà quello di dialogare proficuamente con le istituzioni locali, partendo proprio dal basso, dalla tutela dei più deboli e dei più poveri. La politica è un’attività nobile che va intesa come servizio nei confronti della collettività e come condivisione delle necessità del popolo. La Chiesa e lo Stato devono unire le forze per contrastare la distribuzione iniqua delle risorse e delle ricchezze. In concreto, mi ispirerò ai progetti di assistenza nei confronti delle famiglie prive di abitazione e lavoro, progetti già sperimentati nella parrocchia di Modica».

Da sempre, due ispiratori della sua missione sono don Giuseppe Dossetti, padre della Costituzione, e don Pino Puglisi, martire dell’antimafia sociale. Al loro esempio ha dedicato anche due suoi libri.

«Sono due figure che hanno profondamente inciso nella mia vita. Dossetti era protagonista del rinnovamento dello Stato (Assemblea Costituente) e del rinnovamento della Chiesa (Concilio Vaticano II). Insieme al cardinale Lercaro, invocava una Chiesa povera per i poveri, come fa adesso papa Francesco. Una Chiesa libera, autentica e semplice, lontana dalle tentazioni del potere».

E Padre Puglisi?

«Ringrazio la provvidenza del Signore che mi ha fatto incontrare il Beato Pino Puglisi, con il quale ho collaborato al Centro Regionale Vocazioni di Sicilia. Don Pino rappresentava una Chiesa di frontiera, lontana dai riflettori; una Chiesa che agiva sul territorio, per il riscatto sociale delle coscienze e delle periferie. Una Chiesa ministeriale attenta a promuovere e valorizzare tutte le vocazioni nello stile e nella prassi della diaconia, ovvero del servizio di chi sa di dover sempre scegliere di essere il più piccolo e il servo di tutti».

Come sta vivendo questi intensi giorni che precedono l’insediamento?
«Ho il cuore ancora pieno di stupore per l’inattesa nomina. Quando il Nunzio apostolico in Italia, monsignor Adriano Bernardini, mi ha convocato a Roma per confidarmi la scelta di papa Francesco, ho immediatamente avvertito il senso della mia inadeguatezza. Ma, fissando il Crocifisso che mi stava di fronte, ho pensato subito alle parole di San Paolo: “Tutto posso in colui che mi dà la forza”».

In una lettera aperta ai fedeli di Palermo, ha rivolto un deferente pensiero ai presbiteri e ai diaconi. Come si comporterà nei loro confronti?
«In questo mio delicato ruolo mi sentirò particolarmente legato a tutti i presbiteri, a me carissimi, ai quali intendo dedicare, nel dialogo franco e leale, un ascolto attento, alimentato dalla comune obbedienza al Vangelo e dalla condivisione dell’unico pane eucaristico, sacramento di carità e di unità che Gesù ha lasciato come eredità preziosa ai suoi discepoli. Ai diaconi, che saluto nel nome di Cristo servo, desidero, invece, porgere l’invito a mantenere vigile l’attenzione ai più piccoli, ai più poveri, agli ammalati, così da aiutare tutta la Chiesa ad abitare con verità le vie delle periferie umane».

(tratta da “Famiglia Cristiana”)

 

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“La Costituzione la mia bussola”

Il neo vescovo di Palermo, don Corrado Lorefice, nel giorno del suo insediamento ricorda l’importanza della lotta alla mafia con «l’esempio di don Pino Puglisi» e cita la Costituzione come sua bussola, e in particolare l’articolo 3 che fissa il principio di uguaglianza tra i cittadini. «La Costituzione Italiana sia una bussola per tutti noi, e per me per primo, a partire da quell’articolo 3 che come cittadini – ha detto Lorefice – ognuno nella propria responsabilità e nel proprio ruolo, siamo chiamati a rendere reale nella nostra pratica quotidiana. Si tratta di un articolo meraviglioso». Il vescovo Lorefice ha letto l’intero articolo durante l’incontro in Comune con il sindaco Leoluca Orlando: «Non mi nascondo le contraddizioni di una bellezza che a Palermo appare ferita dalla violenza e dal sopruso – ha aggiunto – sono qui per farmi carico con voi di tutto questo». 
 
da “La Repubblica” del 6 dicembre 2015

La buona notizia della solidarietà

“Lasciamo che la sofferenza ci faccia provare solidarietà, abbracciamoci in un solo dolore perché di quello abbiamo bisogno. Sì, abbiamo bisogno di essere uniti per sconfiggere quello che danneggia ogni giorno le nostre vite”.  (Rosa Ramirez)

di Rita Clemente

 

Dai miei giovani amici di Face Book. Perché la rete supera i confini e qualche volta dà ali a sogni evanescenti.

Alì mi scrive spesso, in un francese un po’ stentato. Studia in Burkina Faso da ingegnere. È orfano di padre, quando può dà lezioni private per mantenere sua madre e i suoi fratelli. “Io m’impegno molto, sai. Il mio desiderio sarebbe quello di vincere una borsa di studio e di andare a studiare in Italia. Ma il povero non ha sogni in Africa e il talento non è che un’illusione. Temo il presente e il futuro mi fa paura…E come sperare in un futuro in uno schifo simile?”.

Munir è un ragazzo libico, dai grandi occhi tristi. Lavora in fabbrica, conosce bene il francese e studia l’italiano. Ogni tanto mi scrive dei messaggi per chiedermi spiegazioni su qualche regola grammaticale. Una volta mi ha scritto: “Che cosa significa la parola annegare?” E io mi sono sentita stringere il cuore. Gli ho chiesto: “Come si sta in Libia”? Mi ha risposto “Malissimo”. Ma poi ha aggiunto che lui “sta benissimo, perché crede in Allah”.

Marina è una ragazza moldava. Ama la poesia e studia diritto internazionale. Ma ha dovuto interrompere gli studi, perché è malata e deve curarsi. La sua malattia nasce da una profonda tristezza: sua madre è in Italia da anni, ormai. Fa la badante. Anche sua madre non sta bene, ma deve lavorare. Stare dietro, con infinita pazienza, a donne anziane perse dietro i loro personali deliri. Altrimenti non guadagna abbastanza per comprare le medicine a Marina, che è triste perché lei è lontana.
E’ molto brava, Marina! Ha già imparato l’italiano abbastanza da scrivermi delle frasi dolci e corrette…

Sono giovani che hanno speranze, sogni. Colpiti oppure attratti da un’esperienza di migrazione. E comunque messi ai margini da un momento storico che tende a uniformare i mercati e a dividere le persone. A creare aspettative di business in ogni parte del mondo e a cancellare il futuro dei giovani. E anche in Italia non è molto diverso…

Margherita è una giovane donna sui trent’anni. Orfana di madre, è cresciuta in un Istituto. A 13 anni il padre l’ha riportata a casa, a fare da servetta alla matrigna e al fratellino più piccolo. Ora Margherita ha un bambino tutto suo e un compagno che l’ama. Ma non può lavorare perché le fatiche da ragazzina le hanno creato dei grossi problemi alla spina dorsale. E non poter lavorare è dura, con un bambino da crescere e un compagno che a volte trova lavoro, a volte no. Spesso non ce la fanno neppure a pagare 200 euro di affitto.

Anna Rosa è giovane anche lei ed è separata. Si è sposata giovanissima, una storia difficile, con il marito che entrava e usciva dalle comunità per tossicodipendenti. Adesso Anna Rosa se la deve sbrigare da sola, con un figlio adolescente che ha gravi problemi di insufficienza renale. Lei non si dà per vinta: tutti i giorni si rimbocca le maniche e parte per il ristorante dove lavora 12 – 14 ore al giorno. E per lei non ci sono né domeniche, né feste…Ma come fare?

Loredana è un’altra giovane donna. Intelligente, volitiva, era iscritta all’Università, le sarebbe piaciuto fare l’insegnante. Poi suo padre si è ammalato e lei ha dovuto assisterlo fino alla fine. Sua madre da sola non ce l’avrebbe fatta: ha grossi problemi di deambulazione. Adesso vivono da sole e Loredana vorrebbe riprendere l’Università. Ma come si fa a pagare tutte le tasse arretrate con una pensione di soli 800 euro al mese? Loredana vorrebbe lavorare e ha mandato in giro un mare di curricula. Ma ha 38 anni e nessuna esperienza lavorativa. Chi la prende? E così le sue giornate si trascinano tra l’assistenza alla madre anziana e la sua personale depressione…

Storie di ordinaria umanità dei nostri giorni. E non sono neppure le peggiori, perché ve ne sono altre, terribili, che raccontano di guerre, di torture, di violenze subite, di figli piccoli brutalmente strappati ai genitori, di fughe precipitose nel cuore della notte, quando hai davanti a te solo km e km di strada da fare senza sapere dove andare, senza avere più niente di tuo.

C’è chi, su storie come queste, costruisce le sue fortune politiche. Dividendo italiani da stranieri, come se la sofferenza fosse un privilegio o un titolo di merito da esibire. Scorrendo la Rete, spesso mi imbatto in link dai titoli come questo: “Tolgono l’assistenza ai disabili, ma danno soldi ai clandestini”. “Parroco sfratta un’anziana per dare l’alloggio agli extracomunitari”. “Loro, italiani, dormono in macchina; lo Stato regala 40 euro al giorno agli extracomunitari”.

Ora, l’informazione (e la disinformazione) si costruiscono anche ad arte, sulla base delle convenienze e dei preconcetti, e questo lo sappiamo. Vero è che l’infelicità, il dolore, lo stato di bisogno estremo sono molto diffusi, sia fra gli italiani che fra gli stranieri. Ma non siamo xenofobi, neanche un po’.

Se in Italia arrivassero “investitori” americani, giapponesi, cinesi o anche arabi gli apriremmo le porte con mille salamelecchi. Spianandogli pure la strada sulle condizioni di lavoro, le norme sulla sicurezza o l’inquinamento ambientale, i contributi da versare.

Magari venissero, dobbiamo essere “competitivi”! E così l’Italietta un po’ alla volta, svende tutto il suo potenziale produttivo. Persino i beni pubblici. È la legge del mercato, che farci?

Ma se arrivano frotte di disperati, quelli no, vogliono i nostri soldi e poi portano malattie, ci tolgono il lavoro

Quando a Chieri è partito un progetto di accoglienza per un certo numero di profughi, noi come Comitato Pace e Cooperazione ci siamo subito attivati a sostenerlo. Devo dire però che nutrivo qualche perplessità e ben più di un timore. Abbiamo ancora in mente la gazzarra scatenatasi quando abbiamo cercato di inserire nel territorio cittadino un piccolo numero di famiglie Rom.

Sappiamo che ci sono forze, partiti politici, gruppi non ben identificati pronti a partire all’attacco, perché, è ovvio, “gli Italiani innanzi tutto”. Salvo poi, una volta passata la buriana, a lasciare anche i poveracci italiani là dove sono, cioè nella loro solitudine e disperazione.

Pertanto, abbiamo cercato, prima di partire, di costruire un fronte comune, con l’Amministrazione comunale, l’associazionismo responsabile, il mondo cattolico (parrocchie e Pastorale migranti) e privati cittadini. Un’amica, amministratrice, mi diceva “stiamo tranquilli, a volte vi sono delle risposte che neppure ci aspettiamo”. Infatti. In silenzio, senza grida e senza clamori, un buon numero di persone, giovani e meno giovani, ha risposto al nostro appello e ci ha offerto di tutto, per poter venire incontro alle necessità dei Richiedenti asilo. Alcune famiglie si sono perfino offerte di ospitare qualcuno di loro. Questa cosa ci ha allargato il cuore. E’ vero che ci sono le resistenze, i mugugni, i preconcetti, perfino le opposizioni truculente, ma c’è anche una silenziosa e coraggiosa folla di persone accoglienti, solidali.

Ecco, mi capita di guardare un altro link sulla Rete. In un piccolo paese italiano “un gruppo di Pakistani si è attivato a favore di anziani non autosufficienti per aiutarli nel disbrigo delle incombenze quotidiane e per fare loro compagnia qualche ora al giorno”. Questa mi sembra, finalmente, un’ottima notizia:

sofferenze e solitudini che s’incontrano, si danno una mano, si aiutano a vicenda.

Nel nostro pazzo mondo succede anche questo, a volte. Non siamo degli illusi idealisti, sappiamo che esistono anche tante brutture, violenze, inganni, a danno dei più fragili, dei più deboli. Senza distinzione di razza, cultura, etnia, religione, sia tra i prevaricatori che fra le vittime. Ma ogni tanto, quando è possibile, quando è vera, fateci anche respirare con la buona notizia della solidarietà!

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Articolo tratto da “CDB INFORMA”, foglio d’informazione della Comunità di Base di Chieri – Novembre 2015

Moni Ovadia: “Fare la guerra rischia di legittimare l’Isis”

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di Stefano Corradino

“Per fermare l’Isis non servono altre bombe né una guerra globale ma un’azione diplomatica seria. Altrimenti si rischia di fare proprio il loro gioco”. Ad affermarlo è Moni Ovadia, “ebreo agnostico di professione saltimbanco” come lui stesso si è definito in una lettera recente al papa. Ovadia è un grande conoscitore e protagonista della Cultura Ebraica, dal Mediterraneo all’Est Europa. “I criminali tagliagole dell’Isis – sottolinea al nostro giornale – si fanno esplodere perché non hanno aeroplani, bombardieri, F35… Per cui non c’è da stupirsi più di tanto se utilizzano il proprio corpo come bombe. Quello hanno, quello usano”.

La Francia ha subito reagito con bombardamenti in Siria. E gli altri paesi dell’Europa si stanno organizzando rapidamente per le missioni militari. E’ questa la strada giusta?
L’opzione militare secondo me è la peggiore che si possa intraprendere. L’Isis non lo combatti con gli aerei. Anche perché, per un terrorista che fai fuori ammazzi nove civili innocenti. Fare la guerra all’Isis significa legittimarlo. E’ esattamente quello che cercano. Quindi è a mio parere un errore madornale. Dall’appoggio dato dagli americani ai Mujaheddin e ad Al Qaeda contro i sovietici, in avanti, queste guerre hanno provocato solo catastrofi, morti e più terrorismo.

Se non è l’opzione militare quale altra strada bisogna intraprendere?
La prima cosa da chiarire è se si vuole combattere effettivamente l’Isis. Perché se questa è la vera volontà allora si dovrebbe chiedere al potente alleato turco di utilizzare i Peshmerga curdi (le forze armate del Kurdistan, ndr) che sono dei grandissimi combattenti. Ma la Turchia non lo fa perché non vuole che i curdi abbiano un loro stato. E poi gli americani devono decidere cosa fare con l’Arabia saudita che è il loro migliore alleato e che è stato il massimo finanziatore dell’estremismo islamico. L’occidente deve decidere, al di là delle chiacchiere e della retorica se è più interessato alla strada della democrazia o a quella del business e dell’egemonia. Se sceglie la seconda il terrorismo durerà ancora a lungo.

Come si evita una guerra globale?
Togliendo acqua nello stagno dove nuotano i terroristi, togliendo benzina al loro fuoco, e questo si fa costruendo accordi e inglobando tutti i paesi di quell’area in un dialogo diverso. E l’occidente deve smetterla di considerare il sangue in modo diverso. Le guerre occidentali nel medio oriente e in nord Africa hanno fatto negli anni milioni di morti. Questo sangue non è diverso da quello dei morti di Parigi.

L’ex premier britannico ha chiesto scusa per la guerra del Golfo ammettendo che quell’azione militare ha praticamente creato le basi per una nascita dell’Isis
Blair è un ipocrita, dopo aver fatto questa dichiarazione dovrebbe andare a seppellirsi in un convento per la vergogna. Lui e l’ex presidente Bush hanno scatenano una guerra sulla base di un cumulo di menzogne. Il loro è un crimine di guerra. Non basta chiedere scusa. E poi perché non c’è nessuno che voglia finalmente aprire gli occhi sul martirio del popolo palestinese?

L’Europa che politica deve attuare?
L’Europa deve innanzitutto diventare “politica”. E oggi non lo è e peraltro ha una classe dirigente antropologicamente di una mediocrità senza fine. E’ un’istituzione che si occupa di sostenere gli interessi dei potenti in Europa e del cosiddetto libero mercato che poi non è affatto libero. L’Europa deve decidere cosa vuole fare da grande. E’ indispensabile  un’Europa politica unita e con una sola difesa centrata sulla pace. L’Europa può diventare il continente di equilibrio che media tra gli uni e gli altri ma è difficile con questi “omuncoli” che la dirigono. Il tanto vituperato Prodi era l’uomo che voleva veramente questo processo di unità e gli hanno messo i bastoni tra le ruote in tutti i modi. E lo sapete chi è stato il vero avversario di Prodi? Proprio Tony Blair.

 

Quando la morte è una lezione di umanità

“Vogliamo testimoniare un impegno nel senso della solidarietà, del coraggio, della voglia di andare avanti migliorando noi stessi e il mondo che ci circonda, una cosa che mia figlia aveva molto presente. Non sono una persona capace di odiare”. 
(Alberto Solesin)

 

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di Deborah Dirani

Oggi che il mondo si raggomitola su se stesso, che si chiude e inalbera una corazza a difesa dei suoi valori e della sua gente, che blinda frontiere e restringe passaggi, oggi c’è un uomo che a questo mondo dà una lezione di umanità commovente. È un uomo normale, o almeno lo era fino a 10 giorni fa: aveva un lavoro, una casa, una moglie, una figlia. Al mattino si alzava, afferrava gli occhiali dal comodino, si beveva un caffè, andava in ufficio, ci stava fino a sera poi, dopo un adeguato numero di ore, compiva il percorso inverso e tornava a casa, si levava gli occhiali e si addormentava nella rassicurante certezza della sua tranquilla quotidianità. Una notte però quella sua pacifica routine è stata scombinata, irrimediabilmente, da un gruppo di senza dio che in nome di dio gli hanno ammazzato la figlia. Che aveva 28 anni, questa figlia, ed era bella e anche buona: una di quelle che la gente te le invidia. E ora che la gente pensa di non avere più nulla da invidiargli lui, quest’uomo normale, si infila di nuovo gli occhiali e, senza nemmeno aver bisogno di un pulpito e di un pubblico, mette insieme la più grande lezione di umanità di cui io abbia memoria.

Alberto, questo è il nome  normale di un uomo inconsapevolmente eccezionale, seppellirà sua figlia, e lo farà con dolore, rimpianto, angoscia e (immagino) un senso di perdita che solo un genitore che lo ha provato prima di lui, può comprendere. Ma lo farà senza quella rabbia e quel folle terrore che leggo nelle dichiarazioni di chi al Bataclan ha perduto solo l’idea di tranquillità in cui si cullava.

Nei giorni in cui il mondo annuncia la Terza Guerra Mondiale e si prepara a inondare di sangue i suoi quattro angoli, lui piano piano, senza alzare la voce, senza versare una pubblica lacrima (che non so immaginare quante ne stia versando nella violata tranquillità della sua casa) spiega al mondo che la pace è possibile. Lo spiega a capi di Stato e fanatici fiancheggiatori del terrore: quelli che tentano di giustificare stragi e omicidi in nome di altre stragi e altri omicidi patiti. Come se l’uomo non potesse vivere altrimenti che seguendo il Vecchio Testamento e la sua sanguinaria legge dell’occhio per occhio.

Al funerale civile, non laico – ci tiene a precisare – ogni preghiera, ogni benedizione, ogni lacrima sarà accolta. Anche quelle di un Imam. E, scusatemi, ma io mi alzo in piedi e abbasso gli occhi. Perché io stessa, che vivo con la parola “pace” a fior di labbra, riconosco che, davanti a uno strazio simile a quello che accompagna la nuova quotidianità di quest’uomo, sarei furiosa.

Lo guardo bene, allora, cerco nei suoi occhi l’umanissimo furore che aspetta di azzannare gli assassini: continuo a trovare pace. Dolore, certo, ma pace. Vorrei chiedergli come fa, come riesca a mantenere inalterata la sua civiltà, come riesca a non chiudersi in un guscio di rabbia e frustrazione, come possa naturalmente aprirsi a quella diversità che oggi spaventa tanti, quasi tutti.

Vorrei che, passati i giorni del dolore che annichilisce, Alberto venisse invitato nelle scuole (almeno in quelle del mio Paese): che magari, più del racconto del movimento per i diritti civili o della lotta non violenta di Gandhi, ai ragazzi servirebbe ascoltare la voce di un uomo fatto di carne e sangue che è riuscito a invocare la pace sulla bara di sua figlia. Un uomo che riconosce la liceità di ogni fede, di ogni dio, anche di quello che pregavano gli assassini di sua figlia. Un uomo che insegna che la rabbia e il rancore non servono a fare del mondo un posto migliore. Un uomo che, per la miseria, ha perso il suo bene più grande, che non ha fatto nulla per patire questa perdita, che avrebbe tutte le ragioni del mondo per inalberarsi in un grumo di revanscismo razzista, e invece no: si infila gli occhiali e consegna a chi lo ascolta sillabe di amore, accoglienza e rispetto.

Vorrei che ogni politico che oggi si arma, di droni intelligenti o di parole infuocate, si fermasse a riflettere, almeno un po’, sul messaggio che gli ha recapitato quest’uomo normale. Che non fa proclami, non si siede in cattedra, eppure tiene una lezione indimenticabile sul potenziale dell’umanità. Io lo ringrazio, con tutto il mio cuore, il signor Alberto. Mi ha fatta sentire una pulce di ipocrisia e banalità. E sono felice di sentirmi così piccola, così perfettibile, così misera: solo in questo modo potrò migliorare me stessa e sperare, un giorno, di avere nel cuore quello stesso rispetto per l’altro che fa di un uomo normale un grande uomo.

“Quello che fu un rigoglioso spazio verde, ora è ridotto a quattro alberi”. E non solo a Sassari, come tutti ben sanno.

Sassari è la città più vicina dove molti di noi della zona fanno tappa quotidiana, forzatamente o per scelta.Vi ci rechiamo per lavoro, per cure sanitarie,per estenuanti attese in uffici pubblici,per spesucce o spesone, per passatempo e fors’anche per divertimento. Sempre più caotica Sassari, specialmente per l’inarrestabile aumento del traffico automobilistico, che provoca la massima estensione  dei “nervi” (almeno dei miei) e soprattutto riempie i polmoni di devastanti e poco gentili microparticelle. Personalmente, a parte l’obbligo di andarci per lavoro, faccio di tutto per evitarla, ma molti vi sembrano fatalmente attratti per i motivi più disparati, non per ultimo per trovare un bullone o un cartoncino che acquistandoli in paese costerebbero dodici – tredici centesimi in più.

Grazie allo sbirciamento saltuario nelle pagine degli amici feisbuchini, questa volta di Giulio M. Manghina, mi sono fortunosamente imbattuto in questa bella pagina di seguito riportata, tratta dal sito “Accademia sarda di storia di cultura e di lingua”. L’autore, non più giovanissimo, in una calda giornata del giugno di quattro anni orsono se la va a zonzare per le strade, facendo considerazioni su diversi aspetti del suo vivere in città, in quei giorni semi deserta e con pochissime auto in circolazione. A volte capita, grazie a Dio! Purtroppo, alcuni  aspetti descritti sono comuni a troppi paesini o paesotti del circondario, specialmente per la sempre più esigua presenza di piante lungo le strade e per certe scelte urbanistiche che proprio il buon umore non fanno certo venire. (Pi.Mu.)

Lemiciclo-Garibaldi

Girovagando tra le ombre di Sassari

di Angelino Tedde

Stamane la gente è al mare e io, sassarese di residenza da una vita, alla ricerca di buttar giù qualche chilo, ma sarei contento se anche fosse mezzo chilo, lascio i luoghi alti della città (300 metri sul livello del mare in Piazza Segni) e me ne vado a zonzo. Mi protegge, dal sole caldo, l’ombra degli alberi del marciapiede che corre  lungo le piscine comunali, in via De Gasperi. Passo davanti alla chiesa parrocchiale della Sacra Famiglia, scappellandomi con devozione, oltrepasso l’ingresso della Galleria e l’emiliana Conad, osservo per un po’ le macchine che arrivano dalla rifatta palazzina dell’Acquedotto, e vista la strada libera, mi sposto rapidamente, nel marciapiede della Scuola Elementare, proseguendo presso il relitto di un bosco di querce centenarie, imboccando direttamente quella che un tempo era via dell’Acquedotto e che poi è diventata Viale Adua. Forse uno dei più bei viali alberati della Sassari alta, se da poco, con varie argomentazioni, non avessero eliminato una quindicina di platani secolari. Quella cinquantina che restano abbelliscono ugualmente il viale formando una galleria  con i lunghi rami frondosi. Questi alberi ti danno respiro e vita, gioia e malinconia al tempo stesso. Devi stare attento tra un passo condominiale e l’altro perché rischi di romperti il collo, tanto sono sgraziati: rozzezza e avarizia di condominii o di assessori a cui poco importa se un cittadino, non più aitante, tra una buca e l’altra si rompe il collo. L’albero, lo si constata, non è amato dai sassaresi in chiave, ma nemmeno dagli accudiddi. Sprizzano di gioia i taglialegna quando abbattono gli alberi, qualcuno, se potesse, strapperebbe le loro radici a morsi. Parlo naturalmente dei nuovi devastatori, di quella categoria di ingegneri e architetti e urbanisti che se non stai attento ti progetterebbero una palazzina in testa. Pare che abbiano formato una società segreta per abbattere dentro e intorno alla città tutto il verde possibile e immaginabile.  Se qualcuno li condannasse tutti a mangiarsi, non dico molto, ma almeno mezzo metro cubo di cemento armato o disarmato, in pochi anni recupereremmo tanti di quegli alberi da spingerci ad amare questa città per altri versi così amabile.

Ho raggiunto Piazza Conte di Moriana che si è abbellita con la rotonda ricoperta da un prato inglese, mentre i giardini davanti alla Facoltà di Lettere e Filosofia, un tempo lussureggianti li hanno ridotti al minimo, per dare opportunità ai devastatori notturni di compiere ogni nefandezza. Per farla breve, quello che fu un rigoglioso spazio verde, ora è ridotto a quattro alberi, che fanno da becchini alla morente Facoltà di Lettere e Filosofia, dai muri imbrattati da farlocchi graffitari. I tempi della Facoltà di Magistero son finiti da un pezzo e con essi se ne sono andati il mitico e fantasioso Marcello Lelli, lo stravagantissimo Padre Guidubaldi con i suoi teatri tenda, il focoso Cavallini  e numerosi altri della partita: gli ultimi stanno per andarsene in pensione e il giro di boa sarà compiuto.

A volte in Viale Adua o in Via Roma incontro l’annoso e longevo Massimo Pittau che continua a lavorare sodo e a sfornare saggi e studi. Due chiacchiere, dei ricordi e una stretta di mano e poi lui sale verso via Gramsci, mentre io scendo in città. Date le spalle all’ingresso dei graffiti della Facoltà, per via Catalocchino, raggiungo Viale Dante, altra bella oasi verde della città, forse il viale in cui uomini, macchine e alberi, procedendo ciascuno nella propria corsia, hanno raggiunto l’armonia. Peccato che con le geniali panchine tondeggianti agl’inizi e alla fine di ogni rambla, venga impedita la passeggiata in mezzo al verde delle aiuole e all’ombra degli alberi: qualche rotella dev’essere andata in tilt all’urbanista che ha progettato il tutto. Soltanto le ombre dei defunti, probabilmente, fanno pausa su quelle panchine semicircolari, che impediscono di fruire dei vialetti.

Raggiungo San Giuseppe e m’immergo tra le querce che dalla vecchia GIL conducono ai giardini pubblici. Il primo lotto verde, già dissacrato dall’Hotel Jolly, è oggi infestato anche da una stazioncina della metropolitana di terra. Mi affaccio così, finalmente all’emiciclo Garibaldi, presidiato ancora dal busto di Mazzini. Oggi, si nota meglio che è circolare. Sotto hanno costruito un parcheggio per auto che mi dicono costa l’occhio della testa, sopra è tutta piazza alla De Chirico: di umani, qualche ombra. Le palazzine sono tutte ridipinte di colori piacevoli, le geometrie sono marcate, ma quel movimento caotico che popolava quello spiazzo negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso è assente. Che tristezza, man mano che la città si rinnova, è quasi d’obbligo cacciar via le folle e i mezzi di trasporto che facevano caos e colore. Fanno la guardia due ascensori che salgono e scendono nel sotterraneo parcheggio,quando qualche patentato parcheggia  o fuoriesce  da sotto come un fantasma e poi silenzio. Sassari e il suo territorio comunale e provinciale, un pò d’olio e di vino, di cavoli e finocchi li produce ancora, ma secondo gli statistici, i figli nati sono abbondantemente superati da coloro che passano a miglior vita. Mancano i giovani, i bambini, gli adulti. In cambio abbondano gli anziani (guai a dire vecchi!) che si rifugiano in circoli o in centri sociali per fare qualche partitella a carte e ingannando il tempo che inesorabilmente passa. Attraverso, quasi in punta di piedi, l’emiciclo e salgo, per una via di cui non voglio leggere il nome, verso Piazza d’Italia, un  tempo cuore pulsante della città. Il Palazzo della Prefettura è lindo, nella piazza son tornati i lampioni ottocenteschi, la pavimentazione è stata rifatta, ma il vertiginoso viavai d’un tempo non c’è più: qualche mamma o nonna con la carrozzella e dei bimbetti capriocciosi, qualche giovinetta con tacchi a spillo, tre anziani che parlottano a voce bassa come se fossero al cimitero! Ah quanto è spaziosa la Piazza, senza gente! In un angolo mi par di vedere De Chirico che bofonchia. Sotto i Portici tre notabili: un arzillo collega ottuagenario, un sessantenne che sembra un arnadio e l’editore Carlo Delfino che gesticola e lascia intendere. Sono incerto, mi sembra di navigare in un mare deserto, prendo il cellulare, chiamo mia moglie.

– Vieni a prendermi al cimitero!-
-Al Cimitero?- Resto interdetto e le rispondo: – No, mi faccio trovare davanti al Palazzo Bosazza, vicino al Banco di Sardegna, no, dell’Emilia Romagna!-

-Va bene- risponde mia moglie – Davanti al Palazzo Bosazza!-

Affretto i passi e mi dirigo  verso Viale Umberto dove un pò di macchine passano e mi fanno compagnia, nell’attesa.

E’ ANCORA POSSIBILE PARLARE DI NONVIOLENZA?

CNV

 

di Maria G. Di Rienzo

Fu un popolo disarmato, il popolo dell’India, a sconfiggere la  forza di occupazione britannica. Fu la pratica nonviolenta a rovesciare  strutture razziste e ingiuste come quelle sfidate da Gandhi e King.
Ma persino di fronte a questi clamorosi successi, e all’infinità di altri  che potrei citare, mi si dice: “Si’, ha funzionato perche’ gli Inglesi non  erano i nazisti, perche’ i razzisti degli stati del Sud degli Usa non erano  nazisti. Se lo fossero stati…”.
In primo luogo, non abbiamo modo di sapere se un’opposizione nonviolenta di  massa avrebbe o no sconfitto Hitler, per il semplice motivo che essa non è  stata tentata.
Ma all’interno dell’Europa occupata dai nazisti abbiamo dei ben documentati  casi di successi nonviolenti.

Citerò ad esempio la Danimarca, dove la resistenza nonviolenta fu guidata dal re in persona: egli comincio’ con il dichiarare che se gli ebrei danesi  fossero stati forzati ad indossare la “stella di Davide” lui sarebbe stato  il primo a portarla. E quando i nazisti si mossero per arrestare e deportare  gli ebrei danesi, autorita’ e popolazione del paese riuscirono a trasferirli
sani e salvi in Svezia nel giro di sole 48 ore.

In Bulgaria, la gente sedette sui binari dei treni e impedì che essi  partissero con gli ebrei a bordo verso i campi di sterminio.

In Italia, si, proprio da noi, dei treni subirono misteriosi ritardi e  furono indirizzati sui binari “sbagliati”, di modo che non arrivarono mai ai  campi.

In Norvegia, la protesta degli insegnanti fu in grado di contrastare la  nazificazione e potrei continuare.

L’altra parte della risposta concerne un mito, e cioè che tutte le  nefandezze del nazismo siano senza paragoni. Sfortunatamente non è così.

La brutale dominazione belga del Congo ha ucciso svariati milioni di  africani. E c’era ben poco di “gentile” nella dominazione britannica  dell’India o in quello che la comunita’ di colore statunitense dovette  soffrire.

Non tutte le lotte si vincono. Non le vincono tutte nè i pacifisti, nè i terroristi,  nè gli eserciti, nè le corporazioni economiche.
La nonviolenza non vince sempre: e questa non è una ragione per  abbandonarla, non piu’ di quanto lo sia per i militaristi abbandonare le  armi ove esse falliscano.  La differenza è che la nonviolenza non desidera la cancellazione e la morte  e la distruzione dei suoi avversari, ma un cambiamento radicale dell’intera  situazione. Una differenza non da poco.