Lorenzo Milani, prete testardamente e volutamente distante da ogni potere

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di Beniamino Deidda     (volerelaluna.it)

Lorenzo Milani, figlio di una famiglia ricca di cultura e di denaro, che annoverava tra i suoi membri alcune celebrità in campo letterario e scientifico. Sappiamo che, quasi ventenne, un’improvvisa conversione al cattolicesimo lo portò a immergersi nello studio della Bibbia e del Vangelo fino «a fare un’indigestione di Gesù Cristo», come disse don Bensi, il suo confessore per tutta la vita.

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Nel novembre del 1943 entra in seminario. Il 13 luglio del 1947 viene ordinato prete. Il resto è storia molto nota e non occorre raccontarla ancora una volta.
Mi sembra invece necessario tentare di capire cosa dicano il pensiero e l’opera di don Milani ai cittadini e agli uomini del nostro tempo.

La risposta non è semplice, perché i messaggi di don Lorenzo hanno ricevuto nel tempo diverse interpretazioni. Del resto sono state molto diverse le interpretazioni della sua opera, anche quando era in vita. Osteggiato e ostacolato per vent’anni dalla Curia e dai vescovi, inviso alla gente “per bene” di Firenze e Calenzano, adorato dai suoi parrocchiani più umili e dai giovani operai che ne frequentavano la scuola serale, finì esiliato nella parrocchia di Barbiana, una chiesetta di cento anime sul Monte Giovi, di cui la Curia aveva già annunciato la chiusura e che si prestava egregiamente per togliersi di torno un prete rompiscatole.

Certo nessuno avrebbe sospettato che quella parrocchia così lontana sarebbe diventata il posto più adatto per diffondere nel mondo una scuola e una cultura di formazione umana e civile che oggi viene considerata socialmente rivoluzionaria.

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Dopo la morte, avvenuta nel 1967, don Milani ha continuato a trovare la stessa ostilità della Chiesa e dei benpensanti di quando era vivo. Per molto tempo ancora dopo la sua morte, la sua opera e suoi scritti sono stati oggetto di critiche feroci e di interpretazioni perfino faziose. Bisogna riconoscere che l’opposizione più tenace è venuta dai preti e dai vescovi, che non potevano certo accettare una pratica e un’esperienza religiosa, come quelle di San Donato a Calenzano e di Barbiana, che suonavano esplicita condanna delle pratiche parrocchiali più diffuse.

Le avvisaglie si erano già avvertite con l’improvvisa marcia indietro del Sant’Uffizio che si era rapidamente rimangiato l’imprimatur alla pubblicazione di ‘Esperienze Pastorali’. Il libro, che è un’analisi rigorosa e profonda delle abitudini e delle pratiche religiose della piccola parrocchia di san Donato, venne considerato inopportuno e ne fu proibita la diffusione.

La Chiesa ha mantenuto fermo per decenni questo suo divieto. C’è voluto papa Francesco per revocare formalmente un provvedimento che era considerato ormai privo di qualsiasi fondamento religioso e culturale. Ma il contenuto di Esperienze Pastorali non spiega completamente l’avversione della Chiesa a don Milani.

Piuttosto sono ragioni più convincenti il rifiuto di ogni integralismo da parte di un prete ostinatamente vicino ai più bisognosi di pane ed istruzione, anche quando erano avversari della Democrazia Cristiana. E l’avversione degli integralisti era tanto più rabbiosa dal momento che si trattava di un prete al quale non si poteva rimproverare il minimo sospetto di eresia, né infrazioni disciplinari, avendo egli dato prova di una rigorosa “disobbedienza obbedientissima” che non lasciava spazio ad insinuazioni e calunnie.

Son dovuti trascorrere quasi vent’anni dalla sua morte perché la Chiesa un poco alla volta rivedesse il suo giudizio su don Milani. Lo ha fatto prima di tutti negli anni ‘80 un suo compagno di seminario diventato vescovo di Firenze, il cardinale Silvano Piovanelli, il quale ha riconosciuto il valore esemplare della vita di don Milani, con l’evidente sottinteso che, se don Milani ha potuto fare quel che ha fatto si deve alla grandezza della Chiesa che gli ha consentito di essere tra i suoi figli migliori.

Questo tentativo di riappropriazione del parroco di Barbiana è proseguito per molti anni e direi che non si è mai arrestato. Secondo questa vulgata, la libertà e il rigore di don Milani si sono potuti esercitare dentro la Chiesa solo perché la Chiesa è capace di accogliere molteplici posizioni ed esperienze, anche apparentemente contraddittorie.
Quello che difficilmente poteva essere accettato da parte delle gerarchie ecclesiastiche era lo schierarsi senza riserve da parte di don Milani a fianco degli sfruttati e dei disgraziati; uno schieramento politico che era anche una denunzia aperta nei confronti di chi aveva avuto il potere per decenni in Italia, senza che i poveri ne avessero alcun vantaggio.

Dire e scrivere questa verità è sempre apparsa agli integralisti una forzatura interessata e il prodotto di una lettura parziale del pensiero milaniano. Così come non poteva essere accettata la lezione profondamente laica delle due scuole milaniane di San Donato e Barbiana, che in un mondo profondamente diviso tra cattolici e comunisti, erano improntate alla convinzione che è inutile «immettere nei discorsi a ogni piè sospinto le verità della Fede quando non si possiede ancora la “parola”».

La scuola di don Milani è stata dunque una grande opera civile che non ha niente a che fare con l’apostolato e con l’educazione religiosa (*). Una scuola di una laicità esemplare e modernissima, ancora oggi lontana dall’orizzonte di molti cattolici. Una scuola, come dirà in una lettera, da intestare non al Sacro Cuore, ma a Socrate. Una scuola dove – con scandalo di molti – non c’è neppure il crocefisso.

In realtà la lezione di don Milani risulta chiara da tutti i suoi scritti e non si presta a equivoci o strumentalizzazioni, anche perché poggia su severissime analisi e su una lettura così rigorosa dei dati, che non ha precedenti nella storia civile dell’Italia dal dopoguerra in poi. Basta pensare ai numeri impressionanti sulla selezione scolastica, riportati nella Lettera a una professoressa che rivelano il volto crudamente classista della scuola italiana. Così pure, sono analisi di straordinaria profondità quelle che denunziano la superficialità religiosa e le pratiche superstiziose di una parrocchia, attraverso le quali si può riconoscere il volto della religiosità dell’intero paese. Oppure le analisi di “L’obbedienza non è più una virtù”, che mettono a nudo la vacuità della retorica delle patrie e lo spirito guerrafondaio delle Forze armate e dei cappellani militari in netto contrasto con il ripudio della guerra scritto nella nostra Costituzione.

La verità è che don Milani ha affrontato e denunziato problemi drammaticamente esistenti, che fino alla sua analisi lucida e spietata nessuno aveva sollevato, nonostante gravassero sulla vita sociale e civile degli italiani da oltre vent’anni. Le proposte di don Lorenzo rivelavano appunto quei mali che opprimevano tutti i poveri e gli sfruttati del suo tempo, che fossero cattolici o comunisti, socialisti o monarchici.

Denunziarli era impopolare, specie se lo si faceva senza nessun calcolo elettorale, senza nessun timore di dispiacere alle gerarchie e ai potenti di qualsiasi parte, senza altra preoccupazione che non fosse quella di dire la verità.

Il ruolo giocato da don Lorenzo in quegli anni a prezzo di umiliazioni di ogni genere da parte dei borghesi e della Curia, ha consentito che in Italia, dopo molti lustri, crollasse il muro – non meno robusto di quello di Berlino – che divideva la cultura laica da quella cattolica. Un muro che si reggeva sulla reciproca intolleranza e sull’appartenenza, più che sull’obiettiva condizione e analisi delle cose. È stato don Milani a dare decisi colpi di piccone a quel muro, spiegando che l’austerità dei dogmi della Chiesa non poteva arrivare a coprire «le complicità di una parte della gerarchia cattolica coi fascismi e i razzismi» e pretendendo di non obbedire a tutte le iniziative elettorali di cardinali e vescovi o dei giornali cattolici, spacciate per dogmi.

Con questa rigorosa distinzione don Lorenzo pretendeva di ribadire la dignità e la libertà della propria fede, senza rischiare di offendere o limitare la libertà e la dignità degli altri cittadini sovrani.
Insomma don Milani era attentissimo a difendere le posizioni della Chiesa, ma non esitava a denunziare gli errori delle sue scelte politiche e contingenti. E tuttavia continuava a stare con convinzione nella Chiesa: «Noi la Chiesa non la lasceremo perché non possiamo vivere senza i suoi sacramenti e senza il suo insegnamento». Questo suo modo di stare dentro la Chiesa pagando un prezzo altissimo per denunziarne gli errori, ha inaugurato e contribuito a far crescere un discorso pubblico che ha cambiato la nostra cultura civile e la nostra sensibilità sociale.

Tutto questo oggi noi vediamo con una certa chiarezza, ma ci son voluti più di sessant’anni dal momento in cui la lezione milaniana veniva impartita. In quel tempo essa destava semplicemente scandalo. E non solo per il valore intrinseco delle cose che don Milani andava insegnando e scrivendo, ma ancor più per il consenso con cui venivano accolte dai non credenti, dai comunisti, dalle sinistre e soprattutto da quei pericolosissimi “cattolici di sinistra” raccolti intorno a Giorgio La Pira e a sacerdoti come Padre Balducci, don Borghi, padre Turoldo e altri che hanno illuminato l’irripetibile fioritura del cattolicesimo fiorentino nella seconda metà del secolo scorso.

Non tutti a sinistra riuscivano a cogliere quegli spunti di una cultura nuova, rigorosamente gelosa della libertà di ogni religione e nello stesso tempo rispettosa della dignità di ogni essere umano, credente o non. Per molti lustri, da un lato, gli integralisti cattolici hanno preteso di avere l’esclusiva “dell’interpretazione autentica” di don Milani, annettendolo senz’altro alla tradizione ecclesiastica; dall’altro le sinistre più scolastiche lo hanno irrigidito in una vulgata sessantottina lontano mille miglia dalle intenzioni e dalla sostanza del suo messaggio. Né gli uni, né gli altri sono stati capaci di capire la novità dirompente che nei decenni è stata in grado di rinnovare la vita civile del nostro paese.

Sono stati decenni durante i quali è successo un po’ di tutto. Insieme alla demolizione del muro di Berlino, che sembrava promettere un futuro di pace, sono cadute molte altre cose che pensavamo durature: sono evaporate le ideologie; i partiti si sono come svuotati; la DC si è sgretolata, travolta dal malaffare e dagli inevitabili processi penali; i fascisti sono passati per il lavacro di Fiuggi, ma oggi governano come se non ci fosse mai stato; la classe operaia non esiste più come soggetto politico capace di battersi per l’eguaglianza; la globalizzazione ha visto il trionfo di un liberismo capace di moltiplicare le disuguaglianze.

Oggi, in questo che sembra un panorama di macerie, riemergono fantasmi che sembravano superati: il ritorno di un razzismo prima strisciante e poi sempre più scoperto, la lotta senza quartiere agli immigrati che non sono morti in mare, la criminalizzazione dei poveri perseguiti con le dure norme di un nuovo “diritto del nemico”, la scomparsa della solidarietà tra i più svantaggiati, messi l’uno contro l’altro da politiche irresponsabili e, infine, la crescente disumanità che da tempo caratterizza le politiche di ogni maggioranza al governo e, per riflesso, i rapporti tra cittadini.

Proprio in questo frangente il pensiero di don Milani torna prepotentemente ad illuminare il nostro tempo e alimenta il dibattito al di là (e qualche volta contro) del ceto politico. E non solo in Italia don Milani torna a indirizzare le azioni di coloro che tentano di recuperare il senso dello stare insieme e dell’essere cittadini padroni del proprio destino.

Questa nuova cultura civica travolge il provincialismo, disdegna le politiche di corto respiro e ci costringe a guardare oltre l’orizzonte del nostro paese. In qualche modo tutti gli uomini di buona volontà in tutto il mondo guardano a Barbiana, come a un modello che ha insegnato e praticato l’utopia riscatto degli ultimi.

Don Milani ha mostrato a tutti noi l’assurdità delle divisioni tra i paesi e tra i popoli: «Io ai miei ragazzi insegno che le frontiere sono concetti superati». Ma noi ci comportiamo come se tutto il mondo fossimo noi. Aveva ragione Padre Balducci: «Barbiana non è più solo nel Mugello: ha assunto il valore come di una immensa e mirabile metafora del tempo nuovo».

È cioè diventata sinonimo dei tanti posti del mondo che sono oppressi e sfruttati dall’egoismo dei paesi più ricchi. Le tante Barbiane di tutto il modo che sono nel nostro Sud, in Africa, in Asia e in America Latina, ricordano a noi, che siamo convinti dalla pubblicità e dal mercato che il nostro sia l’unico mondo esistente, che fuori dal nostro benessere ci sono miliardi di uomini e donne che non fanno parte del mondo privilegiato e che la stragrande maggioranza dell’umanità fa i conti con la fame, con la sete e con la guerra.

Di fronte a questo mondo, tragicamente diviso tra oppressori e oppressi, sta l’analisi severa di don Milani, che non può essere condivisa da nessuna delle ideologie dominanti. È stato padre Balducci a intuire tra i primi che la posizione originalissima di don Milani lo sottraeva a ogni omologazione con i poteri che hanno determinato le terribili diseguaglianze esistenti nel pianeta: «La verità è che il maestro di Barbiana non può ancora essere integrato in nessuna delle posizioni ideologiche che si confrontano nella nostra società.

Ci sono quelli che si ostinano a vedere in don Milani soprattutto il prete, ma senza spiegare perché nessuna curia potrebbe sopravvivere con dieci preti come lui.

Ci sono quelli che lo considerano un precursore della scelta di classe, una specie di “cristiano per il socialismo” avant la lettre, ma si trovano imbarazzati davanti alle sue critiche sferzanti contro tutti i partiti politici. C’è chi lo vede come il precursore dei nuovi orientamenti pedagogici della scuola a gestione sociale, ma è troppo evidente che la scuola di Barbiana è strutturalmente irriducibile a misure istituzionali […]. Il carattere selettivo della scuola attuale riflette in sé il genio selettivo della società che in ultima istanza non conosce altre gerarchie che quelle del profitto. […] Ecco perché la scuola di Barbiana non è un modello, è un messaggio e il messaggio non si limita mai, è sempre un appello a nuove creazioni» (Attualità inattuale di don Milani, Testimonianze n. 196-197).

È chiaro allora che la lezione di Barbiana va ben oltre Barbiana e i suoi piccoli montanari. Don Lorenzo aveva intuito che non erano i barbianesi i destinatari finali del suo discorso. Ai giudici che lo processavano aveva scritto, a dimostrazione del fatto che non aveva fatto carriera: «Ho 42 anni e sono parroco di 42 anime». Ma il giorno dopo il suo arrivo a Barbiana, scese in paese a Vicchio per comprarsi la tomba al cimitero, sicuro che solo stando insieme agli ultimi e facendo la stessa loro vita, avrebbe potuto parlare a tutti quelli che volessero ascoltare le parole di una cultura nuova.

Dalla piccola canonica sperduta sul Monte Giovi don Lorenzo continua ancora a parlare a tutto il mondo il linguaggio capace di chiedere giustizia ed eguaglianza per tutti gli oppressi e i diseredati delle tante Barbiane sparse nel mondo.

La novità di Barbiana trova corrispondenza anche nella novità della lingua di don Lorenzo. La sua scrittura è semplice e piana, ma suona tagliente e nello stesso tempo precisa. Nella Lettera dall’oltretomba, indirizzata “ai missionari cinesi del prossimo millennio”, scrive:

«Voi certo non vi saprete capacitare come prima di cadere non abbiamo messa la scure alla radice dell’ingiustizia sociale. È stato l’amore dell’ordine che ci ha accecato. […] Non abbiamo odiato i poveri come la storia dirà di noi. Abbiamo solo dormito. È nel dormiveglia che abbiamo fornicato con il liberalismo di De Gasperi, coi congressi eucaristici di Franco. Ci pareva che la loro prudenza ci potesse salvare. […] Quando ci siamo svegliati era troppo tardi, i poveri erano già partiti senza di noi. […]Troppe estranee cause con quella del Cristo abbiamo mescolato. Essere uccisi dai poveri non è un glorioso martirio».

Una lingua netta che non lascia dubbi nel lettore sulla qualità del giudizio. Questa precisione e libertà di giudizio don Milani se l’era guadagnata prendendo le distanze da tutte le ideologie dominanti nel suo tempo: da quella dei cattolici in politica, che si esprimeva nelle varie correnti della Democrazia Cristiana, a quella socialcomunista del PSI e del PCI, a quella liberale e confindustriale, per finire a quella della parte più retriva dell’arco costituzionale.

Dal suo punto di osservazione equidistante poteva discutere in assoluta libertà le posizioni di tutti senza abbracciarne nessuna. Da questo pulpito poteva giudicare gli errori e le omissioni delle varie parti con la sola preoccupazione di dire la verità, senza preoccuparsi delle conseguenze, «senza tatto e senza educazione», come diceva lui. Per questo ha potuto parlare senza dover prendere partito nella contrapposizione frontale tra comunisti e democristiani che caratterizzava il suo tempo, conservando anzi la libertà di criticare anche la sua parte. «Per un prete quale tragedia più grossa di questa ne potrà venire? Essere liberi, avete in mano sacramenti, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutta questa dovizia di mezzi divini ed umani raccogliere il bel frutto, d’essere derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti. Aver la chiesa vuota, vedersela vuotare ogni giorno di più. Sapere che presto sarà finita per la fede dei poveri».

I borghesi, ma anche il suo Vescovo, lo accusavano di essere classista e di fare una scuola di classe. Don Lorenzo accettava la provocazione e paradossalmente rinforzava l’accusa. In un incontro con i direttori didattici del territorio fiorentino non esita a dire: io ai miei ragazzi faccio questo discorso «Senti ragazzo la tua classe sociale, gli oppressi, gli infelici di tutto il mondo, dall’Algeria al Congo, a Barbiana, al Monte Giovi, nell’officina, nei campi, gli oppressi di tutto il mondo, gli infelici di tutto il mondo, i proletari di tutto il mondo, soffrono di questa data sofferenza che hai tu. Dedica la tua vita a far sortire questa classe da questa situazione».

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Dunque la “lotta di classe”. Ma aveva un senso diverso da quello che intendeva la cultura marxista. Era più vicino al senso evangelico che la Pira aveva sottolineato scrivendo a Papa Montini a proposito delle scelte di don Borghi, un altro grande prete del cattolicesimo fiorentino, compagno di seminario di don Milani: «Lo schema evangelico oppressori-oppressi, questo intende dire don Borghi quando parla di lotta di classe; schema autenticamente biblico ed evangelico».

Il fatto è che la voce di don Milani, anche quando è seguita da un coro di consenzienti, non assomiglia a quella di nessuno. Non assomiglia a quella dei laici, pur avendo dato vita a una scuola assolutamente laica; non assomiglia a quella dei confratelli preti, impauriti e fedeli seguaci dei comandi politicamente discutibili della Gerarchia ecclesiastica; non assomiglia a quella dei socialcomunisti o a quella dei marxisti, neppure a quella declinata nella straordinaria versione gramsciana.

Insomma don Lorenzo non si è fatto catturare da nessuna delle culture del suo tempo. È stato diverso e, per molti aspetti, unico. Non tanto per le cose che ha detto e che forse possono ritrovarsi anche in altri grandi protagonisti della cultura moderna, da Gandhi a Tolstoi, da Einstein a Primo Levi e certamente molti altri. Ma soprattutto per il modo con cui si è posto nei confronti del potere, di tutti i poteri, da quello ecclesiastico a quello civile e politico.

Da quella sua originale posizione di prete distante da ogni potere, deciso a schierarsi senza tentennamenti dalla parte dei poveri e dei diseredati di ogni angolo della terra, è scaturita una cultura del tutto nuova, di respiro continentale ed europeo, che era quella di cui si erano nutriti i suoi antenati e i parenti più prossimi e che resta un dato riconoscibile della qualità del suo pensiero e della sua scrittura. Solo che quella eredità è stata da lui consapevolmente rifiutata nella scelta dei fini a cui consacrare la propria vita ed è rimasta lontana sullo sfondo.

Don Lorenzo ha sostituito ai valori tipici della cultura borghese della sua famiglia un orizzonte molto più vasto, capace di includere gli esclusi di tutto il mondo e le “culture inferiori” di cui abbonda la Terra. Cosicché gli uomini di oggi, se vogliono scoprire qualche verità che illumini il loro cammino nella società e nella politica, si rivolgono all’esempio di un uomo che ha trovato la propria verità vivendo in quello che sembrava un esilio (ed era invece un pulpito impareggiabile) con una manciata di ragazzi che Dio aveva messo sul suo cammino e che don Lorenzo ha amato fino alla fine, con un amore geloso e pieno di ansie.

Sosteneva che l’amore, quando è autentico non si poteva dare indistintamente a tutti gli uomini e che l’amore è un dono e non un dovere. Questo completo dono di sé agli altri resta la chiave per intendere la cultura nuova che don Lorenzo ha generosamente distribuito a quei pochissimi che allora seppero ascoltarlo e che oggi noi sentiamo così attuale in questo centenario.

Una delle caratteristiche di questo prete, così insolito nella storia della Chiesa, è che egli sembra parlare e scrivere come se per la prima volta si dovesse affrontare l’argomento. Nei suoi scritti non ci sono citazioni, non ci sono richiami. Ci sono solo posizioni decise, scelte chiare e senza tentennamenti. Sembrerebbe dunque che nell’elaborazione del suo pensiero mancassero i punti solidi su cui poggiare le indicazioni precise della sua elaborazione religiosa e politica. E invece ci sono due fonti dalle quali egli non si è mai discostato e che costituiscono il costante fondamento del suo insegnamento.

La prima fonte è stata il Vangelo, interpretato alla lettera e senza sconti, dal quale don Lorenzo non si è mai discostato anche nelle polemiche più dolorose con la Gerarchia e gli altri preti. La seconda è stata la Costituzione italiana che non non considerava “una legge come le altre”, perché era il frutto dell’unica guerra degna d’essere combattuta: quella di resistenza contro i nazifascisti.

Non si sbaglia a dire che tutte le battaglie di don Lorenzo hanno avuto come sfondo i principi di dignità, di libertà di uguaglianza e di sovranità popolare scritti nella Costituzione. A Barbiana la Costituzione non è mai stata un libro di testo al quale rivolgersi per qualche citazione. È stata la luce che ha guidato con sicurezza tutta la cultura nuova che Lorenzo impartiva ai suoi ragazzi di montagna. Una cultura che egli voleva diversa da quella dei “borghesi” e che si sarebbe certamente imposta con la sua freschezza quando i suoi ragazzi avrebbero posseduto la “parola”. Ed è stata la Costituzione quella che ha guidato la vita di don Lorenzo, nella sua triplice veste di uomo, di cittadino e di maestro. Solo i valori della Costituzione hanno potuto costituire quella novità, ancora oggi insuperata nel nostro paese, che è stata il fondamento della nuova cultura civile del maestro di Barbiana.

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Di seguito, il collegamento al video realizzato nel 65 da Angelo D’Alessandro

https://www.raiplay.it/video/2023/05/Barbiana-65—La-lezione-di-Don-Milani-ff12d9a2-dfa1-4561-865f-f0899528d48c.html?wt_mc=2.www.wzp.raiplay_dati

E dato che ci siamo, indico anche lo Speciale Tg1 indicatomi da mia moglie. Un excursus biografico sottolineato di tanto in tanto da canzoni di De Andrè.

https://www.raiplay.it/video/2023/05/Speciale-Tg1-Lorenzino-Don-Milani-f555b10a-479e-4e62-8232-db6d8a61b88b.html?wt_mc=2.www.wzp.raiplay_dati

(*) La scuola di don Milani è stata dunque una grande opera civile che non ha niente a che fare con l’apostolato e con l’educazione religiosa“.

È un passaggio del lungo articolo di Deidda che non mi trova completamente d’ accordo, e proprio per come Lorenzo intendeva la sua scelta di mettersi al seguito del Maestro come prete. Aiutare i ragazzi a lui affidati a raggiungere la loro piena umanità era per lui il modo più vero di fare “apostolato”, cosa completamente diversa dall’ inculcare sterili pratiche “religiose” che non incidono nella vita reale.

A proposito dell’autore, procuratore sardo in pensione nativo di Lanusei che apprezzo per le sue considerazioni riguardo alla “vicenda”  Milani nel suo insieme, leggo che ha avuto a che fare con la giustizia e per questo ha pagato il suo debito. Nello specifico, la corte di appello di Firenze l’ aveva condannato a 6 mesi di reclusione, con pena sospesa, per aver rivelato segreti di ufficio e di accesso abusivo ai sistemi informatici. Posso dire che per me, davanti alla validità di quanto argomentato nell’ articolo, la cosa è del tutto secondaria? L’ho detto (Piero)

Lorenzo Milani, prete testardamente e volutamente distante da ogni potereultima modifica: 2023-05-27T07:04:58+02:00da piero-murineddu
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