Ancora su “I ragazzi delle case INCIS” di Leo Spanu

LEO SPANU

 

 

 

 

 

 

 

di Piero Murineddu

In altra occasione, ho avuto modo di fare qualche considerazione sul  contenuto del primo libro  pubblicato da Leo Spanu, medico mancato nato a Sorso e qui (forzatamente?) residente, dopo esser cresciuto in diverse città del nord Italia, dove il padre era dipendente dell’UTIF (Ufficio tecnico imposte di fabbricazione). Come potete leggere nella breve biografia in fondo alla pagina, Leo ha fatto diverse esperienze, sia lavorative sia in campo sociale. Negli anni, insieme all’impegno di stimolare i giovani sorsinchi alla pratica dello sport e aiutarli a non abbandonare mai questa importante e salutare attività, ha incrementato sempre più la passione per la scrittura che  ha avuto da sempre. Oltre la firma stabile nel periodico “Il Corriere Turritano”, dove tra le altre cose mostra di avere capacità di critico d’arte -ma guai farlo sapere a quel “simpaticone” di Sgarbi, lui si esperto d’arte per antonomasia  (diocenescampieliberidallasuamodestia!) – ma anche di critica politica e di costume, so per certo che prossimamente darà alle stampe il suo secondo lavoro letterario. Sperando che ciò avvenga quanto prima e che sia il proseguo di una – gli auguriamo e ci auguriamo – lunga serie, voglio regalarvi alcune paginette del suo  (quasi autobiografico)” I ragazzi delle case INCIS” (2012), dove il giovanissimo protagonista Leandro descrive sentimenti e fatti della sua periodica permanenza nel paese di origine, Sorso. Ho omesso la parte in cui l’impatto con la locale scuola è stato particolarmente traumatico, soprattutto per la vigliaccata dei compagnetti nei confronti di uno che veniva dal “continente”, aggravata dalla reazione divertita degli adulti presenti, “compiaciuti per la vivacità dei loro figli”. Apro una piccola parentesi. È questo un atteggiamento che ho riscontrato personalmente in diverse situazioni: il gruppo che, facendosi forte del numero e della individuale imbecillità, si fa gioco (violentemente e vigliaccamente) del debole e del “diverso”.

Chiudo subito, anche perchè non c’è bisogno di lunghi commenti. Quanto segue è in parte la testimonianza di quello che siamo stati ma, per qualche aspetto, anche di quello che continuiamo ad essere.

 

Due file di uomini accovacciati mentre…

di Leo Spanu

Il paese era anonimo e privo di attrattive. Strade strette, con acciottolati sconnessi e l’asfalto solo sulle strade principali. Girare tra le case era un vero incubo. Cento occhi ti scrutavano e ti inseguivano, dalle porte e dalle finestre. Anche i muri avevano gli occhi. A Leandro sembrava di camminare nudo come il re della favola, solo che nessuno parlava. Il silenzio era così pesante che il ragazzo rientrava a casa stanco e affaticato come se avesse trascinato sacchi di carbone. Ma neanche la casa era un rifugio sicuro. Piccola e poco confortevole mancava dei servizi più elementari. Non c’era l’acqua corrente e se il fatto di lavarsi in un catino poteva essere anche divertente, la mancanza del bagno era stata una scoperta sconvolgente per i ragazzi. In quel paese ai contini della civiltà, i servizi igienici consistevano in un buco sul pavimento, appena dietro la porta d’ingresso. Un tappo evitava sgradevoli incontri tra gli abitanti delle case e quelli delle fogne. Un orinale appoggiato sopra un panchetto di legno era il sostituto del w.c. Assurdo e scomodo, pensava Leandro che non sapeva che, al contrario c’erano anche delle alternative.

Un pomeriggio che la noia lo stava distruggendo, decise di fare un giro per il paese. Magari, data l’orae il caldo, la gente si sarebbe trovata all’interno delle case e lui avrebbe potuto passeggiare senza decine di occhi incollati alla sua schiena. Gli venne sete e decise di andare a bere alla fontana più importante del paese. Sapeva vagamente dove si trovava ma Leandro era un viaggiatore nato con un istintivo senso dell’orientamento.

Giunse in periferia e scorse a fianco di una grossa costruzione semi diroccata, un sentiero alberato che scendeva verso una piccola valle. Imboccò l’ingresso del vialetto, fece pochi passi e si bloccò paralizzato. Ai bordi del sentiero due file di uomini di varie età stavano accovacciati gli uni di fronte agli altri e chiacchieravano tranquillamente,

Erano decine di persone e, con i pantaloni abbassati, stavano tutti cagando.

L’arrivo dell’intruso non disturbò minimamente l’assemblea. Tutti sollevarono lo sguardo verso il ragazzo sconosciuto. Non c’era ostilità nelle loro espressioni anzi sembravano invitarlo a cercarsi un posto libero e ad aggregarsi alla cerimonia collettiva. Leandro cominciò ad indietreggiare lenta mente, le braccia sciolte lungo i fianchi e gli occhi socchiusi fissi su quella strana adunanza. Sembrava John Wayne in uno dei suoi classici duelli. Appena fuori della vista dei suoi “avversari” si mise a correre ma non fece molta strada. Si fermò di colpo e si mise a ridere e a ridere tanto che gli vennero le lacrime agli occhi.

Per molti anni, in seguito, ogni volta che in televisione, durante il telegiornale, sentiva parlare di seduta di gabinetto, Leandro scoppiava a ridere. Pensando a tutti quegli uomini seri e compunti accovacciati a pantaloni e mutande giù, impegnati a discutere e a risolvere i problemi del popolo italiano.

– Allora l’hai vista la fontana? — Gli chiese la mamma.

– Veramente non sono riuscito ad arrivare.

– Come mai?

– C’era uno sbarramento. —

– Uno sbarramento? –

—Si. Mezzo paese stava facendo la cacca.

La mamma lo guardò perplessa.

– La prossima volta dimmi dove si trova il gabinetto delle donne così evito di passarci. — Poi chiuse la discussione con:

– In bel posto mi avete portato!

Era sempre lo stesso argomento. I genitori continuavano a ribadire che quello era il loro paese natio, era la loro terra. Ma Leandro era duro.

– È il vostro paese, non il mio. Questo è il paese delle mosche.

La presenza, esagerata, delle mosche era un tormento continuo. mondezzai alle periferie del paese erano una vera fabbrica d’insetti d’ogni genere. Ammazzare mosche era un’attività quasi lavorativa per Leandro e Giuseppe; ogni metodo era buono ma il preferito era quello di colpirle al volo utilizzando degli elastici riconvertiti a fionda.

Di fronte alla casa della nonna c’era un negozio di alimentari. Un bancone di vendita, una bilancia e una serie di mobili a cassetti al cui interno, ben ordinati, i vari generi di alimenti che venivano venduti sfusi: pasta delle varie pezze, riso, legumi, sale. Che qualche formica passeggiasse nella farina ci poteva stare, che gli scarafaggi avessero la tana sotto il banco pazienza ma quelle lunghe e sottili strisce di carta moschicida appese al soffitto del locale erano impressionanti. Forse le cambiavano una volta all’anno ma generazioni di mosche erano rimaste incollate in quella trappola formando strati sovrapposti di insetti morti. Ad ogni soffio, quei nastri anneriti cominciavano a dondolare e a danzare nell’aria e qualche mosca finiva con lo staccarsi e veleggiare dolcemente sopra persone e alimenti o magari nel grande barattolo di conserva di pomodoro sempre aperto. La proprietaria del negozietto, una donna piccola e scura con un bambino eternamente attaccato al seno e uno in arrivo, con un dito toglieva l’intruso dalla conserva poi se lo leccava mentre continuava ad allattare, a controllare e sgridare altri duc o tre bambini seminudi (indossavano al massimo una canottiera più pasticciata della tavolozza di un pittore) che giocavano sulla strada davanti all’ingresso.

Leandro non si scandalizzava per quei piccoli, maschi e femmine, nudi ma quanto erano sporchi. E poi la solita domanda:

– Ma quanti figli hanno?

Un anno i due fratelli si erano presi i pidocchi un paio di giorni dopo l’arrivo in Sardegna. Malgrado le loro proteste erano stati rasati a zero ed avevano preteso un cappello che tenevano in testa anche di notte. Si vergognavano moltissimo per quella inattesa tosatura. A Treviso solo gli orfanelli avevano la testa nuda.

I momenti migliori erano quando andavano al mare. A volte si trattenevano per molti giorni via dal paese. Ospitati da parenti o amici, la famiglia Sanna si trasferiva armi e bagagli in campagna. Si trattava sempre di modeste abitazioni agricole che talvolta avevano come dependance delle baracche costruite con le canne. Non c’erano molte comodità, il bagno era dietro il primo albero che trovavi e, per carta igienica, foglie di vite alternate a pezzi di giornale.

Ma la vita all’aperto era gradevole.

Una volta avevano caricato un carro trainato dai buoi. Una decina di chilometri al massimo ma il viaggio era stato esageratamente lungo. I buoi non hanno fretta, Tutti seguivano a piedi. Leandro era incantato da quell’antiquato mezzo di trasporto; saliva e scendeva dal carro in continuazione. Giuseppe invece era sempre incollato ai buoi. Non ne aveva mai visti prima e poi con quelle code in continuo movimento a scacciare nugoli di mosche.

— Ho capito a cosa serve la coda negli animali. — Finalmente aveva qualcosa da insegnare al fratello maggiore.

La vita in campagna era semplice. La mattina una colazione a base di frutta, la nonna sbucciava decine di fichi d’India.

— Non ne mangiate troppi che stringono. — Diceva in dialetto,

— Che cosa stringono? – Chiedeva Giuseppe.

— Il culo, scemo. — Le spiegazioni di Leandro al fratello erano sempre sintetiche e gentili.

A metà mattinata c’era il via libera per andare al mare.

Si attraversava la strada e via di corsa sulla spiaggia, quasi sempre coperta di alghe morte. Spesso lo strato di paglia marina superava il metro d’altezza e si trasformava in trampolino naturale da cui tuffarsi. È vero che prima di toccare l’acqua dovevi passare per una massa marrone e densa come un budino ma bastava avanzare di qualche metro per ritrovare un’acqua limpida e trasparente come poche e ricominciare a rituffarsi e ritornare puliti.

Quando i ragazzi ritornavano a riva si riempivano di nuovo di alghe che si incollavano alla pelle. Allora si mettevano a cercare un punto della spiaggia più pulito dove lavarsi, Il sole asciugava quel che rimaneva sulle gambe ma quando le alghe si seccavano, con le mani, le spazzolavano via. Poi di nuovo verso la campagna con la nonna che li aspettava con un piatto di trutta fresca.

Prima dell’epilogo, Leandro continua a raccontare i suoi ricordi, compreso quella volta che il padre li ha portati a mangiare l’aragosta al mare,

 

Breve biografia dell’autore

Leo Spanu nasce a Sorso (Sassari) il 26 giugno 1946. Cresciuto a Treviso e a Brescia, in età adulta in Sardegna, definitivamente. Una breve vacanza, incontra la donna che ha sposato (due figli e quattro nipoti). Maturità scientifica, studi di Medicina fino al terzo anno, servizio militare (Alpini). Amministratore comunale, a Sorso, negli anni Ottanta e Novanta, dirigente di partito (PSI), non si occupa più di politica ma di sport e giornalismo. Dirigente sportivo, allenatore di atletica leggera, presiede una società giovanile (CCRS Sorso). Metalmeccanico e, naturalmente, cassintegrato. Quindici anni di lavoro nel settore Archeologia del Mìnistero dei Beni Culturali. Coltiva la storia dell’arte, l’antiquariato e il collezionismo. Ha organizzato mostre di pittura, e di fotografia e di altro materiale cartaceo sulle tradizioni. Attualmente compila schede per censire le chiese della Sardegna. Da qualche anno è in pensione e ora scrive testi letterari. Non sì può dire che non abbia fatti e cose di cui parlare. Con / ragazzi delle case INCIS ha inteso raccontare la maturazione sentimentale e intellettuale di un adolescente responsabile e caparbio che si prepara alla vita (Acronimo di INCIS : Istituto Nazionale per le Case degli Impiegati Statali). Disegna anche animali immaginari e creature fantastiche per la nipotina (sette anni) che ammira film di mostri e di fantasy. Ha trovato bellissimo /! signore degli anelli (nove ore di proiezione). Tuttavia Leo non sì preoccupa per questa passione della nipote.

Ancora su “I ragazzi delle case INCIS” di Leo Spanuultima modifica: 2014-10-23T19:02:30+02:00da piero-murineddu
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