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La storia dei Cervi

da “istitutocervi.it

 

È una storia che parte dalla fine, quella dei sette Fratelli Cervi e di Quarto Camurri

Dallo sparo unisono che alle 6,30 del 28 dicembre 1943 falciò al Poligono di Tiro di Reggio Emilia le vite di Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore insieme al compagno di lotta di Guastalla. Alcune ricostruzioni collocano il momento della fucilazione in altra ora. Tutte concordano sulla “discrezione” dell’eccidio: i documenti ufficiali rassicurano l’autorità sulla assenza di sguardi indiscreti. Così avvenne per la frettolosa tumulazione delle salme, ad evitare una qualunque forma di pubblica riconoscibilità di quell’atto madornale.

I_sette_fratelliSono forse le stesse, neonate gerarchie repubblichine a rendersi conto dell’enormità del gesto. Di certo, se ne avvedono le autorità “centrali”, di quello stato fascista che non c’è più ma che si vuole prolungare nell’ombra fosca dell’occupazione tedesca. Da Brescia, dove si improvvisano le sedi istituzionali della Repubblica di Salò, giunge una sola domanda, scarabocchiata sul verbale dell’esecuzione:  “sono 7 fratelli?”

Nessuna notizia venne ostentata sulla sanguinosa rappresaglia ordinata dai maggiorenti della RSI reggiana, in risposta all’attentato mortale a Davide Onfiani presso Bagnolo. Il Solco Fascista dello stesso giorno ricorda solo che “otto elementi, rei confessi di violenze e aggressioni…” sono stati passati per le armi all’alba di “oggi, 28 dicembre”. E’ immediata la percezione del crimine abnorme perpetrato, che rappresenta il primo vero faccia a faccia tra partigiani e fascisti a Reggio Emilia. I repubblichini riconoscono nella banda il primo vero nemico organizzato, con indizi schiaccianti a loro carico; ciò nonostante, la brutale rappresaglia segnerà per sempre la storia dei 20mesi della Resistenza reggiana. I Cervi se ne vanno così, nel volgere di un anno convulso e lunghissimo. Nel livido silenzio dell’inverno ’43, quando ancora tutto deve accadere a Reggio Emilia, a Casa Cervi tutto sembra essere già finito.

casa_recintoÈ il punto in cui la storia deve fare qualche passo indietro. Ad un’altra alba, quella del 25 novembre dello stesso anno. Un mese prima, i Cervi vengono sorpresi insieme ad alcuni componenti della loro “banda” nella loro casa colonica. Siamo al podere dei Campirossi, tra Campegine e Gattatico, in aperta campagna reggiana. Un plotone di militi della Guardia Nazionale Repubblica circonda l’abitazione, su precise indicazioni da parte di delatori locali. Il Capitano Pilati è venuto in forze, “ufficialmente” 35 uomini, ma i testimoni in casa svegliati dall’accerchiamento ne contano molti di più. Cento, centocinquanta per alcuni. L’ordine dei fascisti è chiaro: arrendersi subito, deporre le armi, consegnare i prigionieri rifugiati. Perchè la famiglia Cervi è una famiglia ribelle, i suoi sette figli maschi hanno preso (tra i primi a Reggio Emilia) le armi dopo l’8 settembre; e hanno fatto della loro casa un ricovero per fuggiaschi e resistenti di ogni nazionalità. I fascisti e gli assediati si scambiano colpi di fucile e mitraglia, per alcuni un accenno di resistenza, per altri un fuoco serrato. In ogni caso, la reazione dalle finestre della casa è breve, perchè in poco tempo stalla e fienile sono avvolti dalle fiamme. L’incendio è certamente appiccato dagli assalitori, circostanza sempre negata dai diretti interessati. Ci sono donne e bambini, la stalla è piena di mucche, tutta la decennale fatica di Papà Alcide e della famiglia sta andando rapidamente in fumo. La resa è inevitabile.

Vengono arrestati tutti i componenti della “banda Cervi”: i fratelli e il babbo stesso, Quarto Camurri, Dante Castellucci (Facio) e il russo Anatolij Tarassov, più 3 soldati alleati unitisi al gruppo partigiano: i sudafricani John David Bastiranse (Basti) e John Peter De Freitas (Jeppy), l’irlandese Samuel Boone Conley.

Le loro strade si dividono presto, perchè ai soldati stranieri viene riservato un trattamento migliore. Lo stesso “Facio”, fingendosi francese, non verrà trattenuto dalle milizie reggiane. Molti di loro proseguiranno l’esperienza partigiana sull’appenino. Ma queste, sono altre storie.

La sorte dei Cervi invece è quella di nemici dell’ordine pubblico. Ribelli sediziosi e comunisti; non va meglio al disertore della Milizia Volontaria Quarto Camurri, “italiano rinnegato” come recita la cronaca fascista della “brillante operazione di polizia militare”.

L’alba del 25 novembre è, negli occhi e nella memoria dei testimoni, ma anche dei conterranei dei Cervi, il vero consumarsi della tragedia. Mai prima di quel momento si era vista all’opera la macchina repressiva della RSI, mai il conflitto era arrivato così vicino. Per le 5 donne e i 10 bambini (alcuni in fasce) della casa ai Campirossi, sono i momenti della paura, del fuoco, del violento distacco dai propri affetti.

Per la popolazione locale, il disvelamento del volto truce del fascismo in armi, disposto a tutto per il controllo del territorio.

In realtà la pianura reggiana era già immersa confronto in atto, tra le forze declinanti ma agguerrite del “nuovo” fascismo e la montante attività clandestina degli antifascisti organizzati. L’opzione delle armi, resa concreta dopo l’8 settembre, stava già portando i segnali di una lotta senza quartiere tra gappisti e repubblichini, alzando il livello dello scontro. I Cervi stessi fanno parte di quel movimento avanzato che all’indomani dell’Armistizio intende fare delle retrovie nazifasciste un luogo instabile, e della pianura reggiana un territorio ostile per gli occupanti e i collaborazionisti.

Ci sono dunque, molti antefatti a quelle due albe di violenza che portarono i Cervi al carcere di San Tommaso e un mese dopo al plotone di esecuzione. Il più importante di questi è la scelta precoce, radicale di opposizione al regime già a partire dagli anni ’30, nel culmine della parabola di consenso al Duce e all’impero coloniale. Per una famiglia di solide radici cattoliche, impegnata in politica già prima della dittatura, si tratta di una opzione naturale. Il fascismo aveva progressivamente spazzato via tutti i riferimenti pubblici che costituivano l’identità civile dei Cervi: Alcide, iscritto al Partito Popolare fino al 1921, e pure sensibile alla predicazione di Camillo Prampolini nelle campagne, ha educato i figli all’impegno coniugato alla fede. Dalla madre Genoeffa Cocconi, i 9 figli (si devono sempre aggiungere al computo le figlie Rina e Diomira) hanno preso l’amore per la lettura, l’inquietudine culturale e la sete di conoscenza. Sono autodidatti, i Cervi, spinti da un desiderio di emancipazione sociale che passa per il lavoro nei campi, l’innovazione nella stalla.ammasso

 

 

 

 

 

 

Da mezzadri ad affittuari, nel volgere del primo decennio fascista la già numerosa famiglia Cervi cerca una strada nuova. Si trasferiscono nel 1934 al podere ai Campirossi, tra Caprara e Praticello. Che trasformano ad immagine e somiglianza delle loro ambizioni agricole moderne, delle loro letture scientifiche. Studiano, sperimentano, falliscono e riescono più volte. Con la stessa irrequieta dedizione, Aldo Cervi è il primo a maturare una compiuta coscienza antifascista; abbraccia l’ideologia comunista, lui che era stato un attivista in prima fila per l’azione cattolica locale. Ed è insieme a Didimo Ferrari, altro campeginese noto nella storia partigiana, che prende corpo l’idea di una Biblioteca Popolare. Libri per difendersi dallo sfruttamento, per essere liberi di pensare fuori dagli schemi: un’intuizione sorprendente per una famiglia di contadini, non certo di intellettuali; che aveva, però, sperimentato sul campo l’efficacia del sapere. Più studio significava più latte dalle mucche, più resa dei campi. Padroni del proprio lavoro, e così delle proprie idee.

visita-museo-trattore-modulinoCon ruoli e intensità diversi, tutta la famiglia partecipa alla marcia di Aldo verso lo scontro con il fascismo. Dalla lotta all’ammasso (il conferimento forzoso al regime di produzione agricola), passando per i primi volantini, Casa Cervi diventa un laboratorio di antifascismo applicato. Le informative su questa famiglia di irrequieti contadini, e di chiare simpatie comuniste, si accumulano sui tavoli della autorità. Non solo il terzogenito Aldo, ma anche Gelindo e Ferdinando sono fatti oggetto di segnalazioni e provvedimenti restrittivi tra la fine degli anni ’30 e i primi anni ’40. Il cammino politico dei Cervi è complesso e articolato, risulta impossibile comprimerlo in poche righe. Ricalca lo stesso percorso carsico dell’antifascismo minoritario, delle avanguardie del movimento in quegli anni. Allo stesso tempo, ne presenta tratti unici, legati all’esperienza di riscatto sociale e produttivo.lucia sarzi

 

 

 

 

 

 

 

Saranno gli incontri personali, nient’affatto casuali, a fare la differenza. Cosi come era stato con “Eros”, la movimentata gioventù antifascista si cerca e si ritrova nella clandestinità. Lucia Sarzi, attrice itinerante e già militante comunista, porterà ad Aldo e ai suoi fratelli nuovi spazi operativi, contatti, legami con i centri clandestini della nascente resistenza. Nel frattempo, i Cervi non rinunciano al loro progetto di agricoltura di progresso. Il primo trattore, una “macchina del futuro” in quegli anni, arriva nel ’39, seguito dal più potente Landini a testa calda due anni dopo. La stessa abitazione si amplia per contenere l’espansione produttiva del podere nel 1941.

Per loro, contadini di scienza di giorno e cospiratori di notte, non è certo facile abbandonare gli affetti domestici, la famiglia che nel frattempo si è completata di 4 spose e 10 bambini (23 persone in tutto). Ma sono tra i primi a farlo, pronti a rompere gli indugi già un mese dopo l’armistizio. Tanto precoce è la loro scelta, così lo è la loro irruenza per passare dalla propaganda all’azione. Anche in contrasto con gli altri compagni di lotta che attendono, pianificano, e non condividono l’approccio immediato della nascente ” bsnda Cervi”.

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Aldo, Otello Sarzi, Dante Castellucci, Tarassov e altri Cervi saliranno in montagna nell’ottobre del 1943, non prima di aver trasformato la casa ai Campirossi in un centro di latitanza. Si alternano azioni in montagna (l’assalto alla caserma di Toano, l’incontro con Don Pasquino Borghi a Tapignola) e i “colpi” in pianura, come il disarmo del Presidio dei Carabinieri a San Martino in Rio e il fallito attentato al segretario del Partito Fascista Repubblicano Giuseppe Scolari.

Sono gli ultimi, convulsi giorni dei Cervi liberi. La Resistenza è già una realtà, ma dal percorso incerto e ancora acerbo nel 1943, anche in una terra di passioni democratiche come Reggio Emilia.

Spintasi oltre il confine della clandestinitá, in un contesto non ancora strutturato e conflittuale, la banda Cervi rimane isolata. Ed ecco arrivare la cattura, dopo meno di 80 giorni dall’8 settembre.

Per restituirci l’umanità del primo sacrificio reggiano alla Resistenza, vale la pena, in conclusione, sfogliare le lettere che i fratelli scrivono a casa, nel mese di prigionia e interrogatori che li separa dall’esecuzione.  Una fine forse attesa per alcuni (Aldo e i fratelli più “esposti”), inconcepibile per altri, improvvisa per tutti. Le prime raccomandazioni  sono per il podere, il timore che la fatica del lavoro vada in fumo. Quasi che la parentesi della cattura sia solo una pausa dall’operosità dei campi e della stalla. Poi la consapevolezza, sempre più concreta, che i piani dei fascisti sono altri. Gli affetti lontani, la madre e le mogli, i figli. E’ un commiato sfilacciato e mai definitivo, quello che si consuma con la famiglia. Fino all’epilogo, che impedirà a Papà Cervi, loro compagno di cella fino alla fine, di congedarli prima della traduzione al poligono.

Il 28 dicembre 1943, nel modo peggiore possibile, cala il sipario sull’intervento diretto dei Cervi nella Resistenza reggiana. Un contributo folgorante e annichilito anzitempo. E inizia, da quel momento, il loro ruolo simbolico, che attraverserà tutta la storia della Liberazione locale, e oltre la guerra ne incarnerà il sacrificio e la dedizione.

Il 25 luglio 1943 a Reggio Emilia: manifestazione popolare

Cosa sappiamo di loro?

di Piero Murineddu

Definiti genericamente “zingari”, termine a cui abbiamo dato una valenza dispregiativa e che deriva da “athinganoi”, cioé esperti nella lavorazione dei metalli. Molti continuano a temerli, ma pochi conoscono la loro storia e la loro cultura, tramandate in prevalenza oralmente.

Nei tempi passati, non potendo fare a meno della loro ingombrante e sgradita presenza, si son costruiti dei campi a loro destinati, possibilmente lontani dai centri abitati o perlomeno periferici. Veri e propri campi di concentramento, quindi. Col tempo, divenuti non degni di farci vivere degli esseri umani, le autoritá europee hanno dato indicazioni per l’integrazione di queste famiglie nel contesto civile. Nonostante i ritardi, diverse amministrazioni locali si sono attivate in questo senso. Le difficoltà non sono mancate e continuano a non mancare. Le più diverse motivazioni, non ultime le resistenze da entrambi le parti, dovute anche alla mancanza di conoscenza e all’accettazione della sensibilitá “culturale” altrui. Come solitamente succede, insomma.

Ho cercato nella Rete notizie sull’argomento, in particolare elementi che possono aiutarci a conoscere meglio la cultura di queste persone, la maggior parte delle quali sono italiani a tutti gli effetti.

In conclusione, due video. Uno realizzato oltre dieci anni fa, indicativo del clima che spesso si crea nei rapporti tra “zingari” e “gagé”. Il secondo dedicato alla storia di Giuseppe Lavakovich, istriano divenuto italiano, lavoratore in terra africana occupata dall’Arrogante col petto in fuori e ben mascellato, tessera fascista unicamente per necessitá di sopravvivenza e partigiano per liberarci dal giogo nazifascista, che solo quest’ultima particolare vicenda basterebbe ad avere massimo rispetto per questo  popolo.

Mi scuso con chi legge e con gli autori per la mancanza d’indicazione delle fonti.

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Chi sono i Rom e gli altri? Da dove arrivano?

(autori vari)

Preferiscono essere chiamati Rom, che nella loro lingua, il romanes, significa “uomo”. E definiscono gagè, “gli altri”, il resto del mondo, cioè i non Rom. Il gagio (singolare di gagè) è per loro un credulone, superstizioso, troppo attaccato alle cose, talvolta violento. I gagè, dal canto loro, li chiamano zingari e pensano che siano trasandati, infidi, ladri, senza cultura. Ma generalizzare è sbagliato: nell’Est europeo, e in molti casi anche in Italia, vivono in normali case, lavorano, studiano e la convivenza coi gagè è tranquilla.

I Rom bosniaci chiamano l’Italia “il Paese dei campi”, intendendo i campi nomadi, recintati. Da noi fanno spesso la questua, a volte furti. Le baracche fatiscenti prendono fuoco. Politici e cittadini fanno manifestazioni. I sindaci sono preoccupati.

Ma i Rom sono sempre stati nomadi? È vero che non hanno cultura? Perché sono visti come accattoni? Chi sono?

Discendono da una popolazione che parlava una forma volgare di sanscrito, il praclito. Nel 1000 d. C. circa, lasciò il delta dell’Indo, fra l’India e il Pakistan. Vi erano esperti nella lavorazione dei metalli, chiamati athinganoi, da qui “zingari”. In 4 secoli i Rom si insediarono in molti Paesi europei, a partire dai Balcani. Giá da allora i Rom non si comportavano tutti allo stesso modo, cambiavano economia e ritmi di vita secondo le opportunità offerte dai Paesi ospitanti.

Li si poteva suddividere in 3 aree geografiche. La prima, quella Balcanica, durante l’impero Ottomano li vide sviluppare un gran numero di professioni, soprattutto artigianali. Alla fine del XVI secolo erano tutti censiti, abitavano in dimore fisse e pagavano le tasse. Erano insomma ottimi contribuenti, divisi in corporazioni: lautari (musicisti e costruttori di strumenti musicali), fabbri, orefici, sarti, macellai, venditori di cavalli, “veterinari”, contadini liberi.

La seconda area, che corrispondeva ai principati di Valacchia e di Moldavia (oggi parte della Romania), li vide invece nello scomodo ruolo di schiavi. Erano proprietà del principe, e lui poteva permettere loro l’esercizio di mestieri itineranti (acrobati, addestratori di orsi, giocolieri), lingurari (costruttori di utensili di legno), calderai e ramai, a patto che gli pagassero i tributi. Salvo venire donati, con l’intera famiglia, a un monastero ortodosso a saldo dei peccati del principe. Spesso i Rom erano schiavi di feudatari e monasteri che li utilizzavano nei campi. E rimasero tali fino alla metà dell’800 (altro che nomadi…), quando, con le rivoluzioni liberali, fu abolito lo schiavismo nella regione.

Queste prime due aree, la Balcanica e la Rumena, oggi ospitano il 90% dei Rom europei. E non per caso sono sedentari, vivono in vere case con bagno e cucina, sanno fare i mestieri più diversi, coltivano la terra. In Romania, i furti da loro commessi sono vicini allo zero. Lo afferma l’Interpol.

Ma c’è una terza area, conflittuale: è l’Europa occidentale.Come sono arrivati?

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Fra il 1417 e il 1430 furono notate, dall’Italia all’Olanda, compagnie di pellegrini che si dicevano “egiziani”. Erano condotte da presunti conti e duchi, composte da uomini, donne, bambini, cavalli e cani. I cronisti del tempo raccoglievano sempre la stessa versione: “Siamo egiziani, ma cristiani, dobbiamo espiare una penitenza per un peccato di apostasia che ci condanna a un pellegrinaggio di 7 anni. Per favore aiutateci”. Le lettere erano firmate da Sigismondo, imperatore del Sacro Romano Impero, dal papa o da altri grandi. Alcune erano vere, molte altre false. Risultato: molte città fecero cospicue donazioni ai sedicenti “egiziani”, da cui vengono alcuni nomi che oggi indicano i Rom, come gipsy o gitani. Ma un pellegrinaggio credibile non poteva durare in eterno.

Si diffusero così bandi per cacciare i Rom. Erano repressi di pari passo con la nascita dell’industria nell’Europa occidentale, che richiedeva mano d’opera salariata e non consentiva forme di accattonaggio o mestieri da girovaghi. Nonostante la repressione (in alcune fasi chi uccideva uno zingaro aveva diritto ai suoi beni), i Rom si legarono a vari territori, da cui presero il nome, come i Sinti piemontesi, i Sinti lombardi, i Kalè andalusi, i Manouche francesi, i Romanichals gallesi.

Il 50% della loro lingua rimase quella delle origini, per il resto acquisirono termini delle lingue locali. In questa parte d’Europa, dove tanti popoli avevano dovuto lottare per la loro identitá, i Rom si mossero molto cautamente. Non fecero mai guerre e per non essere cancellati, si sparpagliarono in piccole unità, famiglie allargate che ogni tanto si riunivano, ma dovevano essere mobili e sfuggenti ai controlli. Il nomadismo fu quindi un adattamento di fronte alla repressione, non una condizione etnica.

Poi arrivarono le persecuzioni di Hitler: 500 mila Rom eliminati nei campi di concentramento. Si occupò di loro anche il fascismo, deportandoli dalla Slovenia italiana nel campo di Tosci (Te) e rinchiudendo i Sinti abruzzesi a Boiano (Cb).

Alcune circostanze accomunano Rom ed ebrei: essere stati entrambi schiavi. I primi accusati di essere della stirpe maledetta di Caino, i secondi di deicidio. Ariani degradati gli uni, razza inferiore gli altri. Dai nazisti gli ebrei subirono la shoàh (distruzione), i Rom il porrajmos (divoramento). Ma se ai primi la Germania ha riconosciuto i danni, ai secondi nessun rimborso. Il motivo è che i Rom non sarebbero un popolo, un’unità culturale, ma una condizione. È vero?

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Un giornalista del National Geographic organizzò un lungo viaggio con un romanichal, Rom gallese, e dimostrò che egli poteva comunicare, a parole, a gesti e con le canzoni, con i Rom di diverse parti del mondo. Se gli ebrei hanno avuto la Bibbia, come scrigno d’identità culturale, i Rom hanno sempre avuto la musica. «Che ha influenzato e arricchito compositori come Johannes Brahms, Franz Schubert, Maurice Ravel, Igor Strawinsky, Peter Ciaikowski» spiega Santino Spinelli, rom abruzzese, 2 lauree (in musicologia, lingue e letterature moderne) e docente all’Università di Trieste. «Per arrivare a Goran Bregovic, che utilizza a piene mani la musica dei Rom macedoni. La musica rom ha fondato il jazz europeo. È un modo per comunicare. Nella musica c’è la lingua, l’etica, la filosofia di vita, la narrazione, la nostra memoria».

C’è poi un altro nocciolo duro della cultura rom: i riti funebri. A volte, quando una persona muore, vengono bruciati tutti i suoi beni, roulotte compresa, a garanzia che l’eredità non crei dissidi fra i parenti e dislivelli sociali nel gruppo. Soprattutto nei Paesi dell’Est, le sepolture sono ampie: trovano posto il letto, il comò, i quadri, modellini di moto e macchine di lusso. Ricordano quelle degli Egizi, per cui gli oggetti si animavano a beneficio del morto quando la tomba veniva chiusa.

Altra tradizione, la legge rom. Non si sovrappone a quella dello Stato, ma i Rom la rispettano alla lettera; regolamenta liti, danneggiamenti, controversie matrimoniali. Se il fatto è grave, i giudici vengono da altre comunità, a garanzia di equità. La pena è sempre un risarcimento. «Sia chi vince sia chi perde deve poi pagare una festa a tutta la comunità, una forma di riconciliazione collettiva.

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Altri tratti culturali dei Rom emergono dalle accuse loro rivolte. Sono sporchi? Quando non c’è elettricità o acqua calda è difficile lavarsi in 200, d’inverno, magari con un solo rubinetto. I Rom hanno paura dell’impurità, come gli indiani e gli ebrei. Hanno 14 contenitori diversi in cui lavare le loro cose: non devono entrare in contatto le pentole con piatti, i vestiti dei maschi con quelli delle femmine, gli indumenti intimi con gli altri e così via. Le nostre tradizioni di camping e barbecue sono copiate dai Rom. Ma loro trovano disgustoso tenere la toilette nella roulotte, come fanno i gagè…

Le donne rom sono disponibili? Favole. Evitano il contatto con i gagè, per paura delle impurità. Quasi sempre si sposano vergini e talvolta espongono il panno insanguinato come prova. Vivono in una società maschilista, dove però è severamente censurato l’uomo che non osserva i doveri familiari.

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I Rom predicono il futuro? «Noi per primi non ci crediamo» spiega il leader di un campo a Milano. Le donne confermano: «è un mestiere, facciamo finta». La chiaroveggenza è un modo di trasformare la loro diversità agli occhi dei gagè, insicuri e superstiziosi, a proprio vantaggio.

I Rom rubano, sono violenti? Nei processi interni le sentenze sono severe nei casi di violenza, anche verso un gagè. «Ma se un rom ha rubato con destrezza e per necessità» spiega un giudice rom «per noi non c’è reato».

Perché chiedono la carità? Erano commercianti porta a porta. Tornavano negli stessi luoghi a vendere oggetti per la casa e l’agricoltura. Se non vendevano, chiedevano da mangiare o qualche spicciolo. Il manghel, che significa sia vendere sia elemosinare, era accettato un tempo nelle campagne. Con il potenziamento della distribuzione commerciale, i Rom hanno perso questo ruolo. Rimane la questua. Inoltre, migliaia di Rom che lavoravano con le giostre e i circhi, a causa della crisi di questo settore, sono rimasti disoccupati senza gli aiuti sociali che spettano ai gagè.

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In Italia vive una percentuale più bassa dell’intera Europa. Metà dei Rom che abitano nel paese è di nazionalità italiana, solo il 3% è nomade, mentre la maggior parte della popolazione rom è stanziale.

Le regioni d’Italia dove la presenza Rom è più significativa sono il Lazio, la Campania, la Lombardia e la Calabria.

In Italia vivono due grandi gruppi “zingari”, i sinti e i rom. Il primo nome deriva da Sindh, una regione del Pakistan da dove provengono, il secondo significa “uomo libero” e viene usato per designare l’intera comunità nomade. I sinti sono di provenienza mitteleuropea mentre i rom abruzzesi, la più nutrita comunità italiana, arrivarono da Grecia e Albania. Dopo la guerra iugoslava abbiamo avuto una forte immigrazione di rom khorakhana (musulmani) e kanjarja (ortodossi), quelli che più ci capita di incontrare per strada mentre chiedono l’elemosina.

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Le 11 tribù principali presenti in Italia

 

■ ROM DEL MERIDIONE

In Italia dalla fine del 1300, si stabilirono in Abruzzo ma anche in Campania, Molise, Puglia, Basilicata e Calabria.

■ SINTI

Zingari di Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna: giostrai e proprietari di circhi.

■ ROM LOVARI E KALDERASA

In Italia dai primi del Novecento. I lovari (“lob”, cavallo in ungherese) allevano equini, mentre i kalderasa sono stagnini e doratori di rame. Vivono in roulotte.

■ ROM RUDARI

Romeni, in Italia dagli anni Sessanta. Musicanti e artisti di strada, lavorano anche il rame e vivono in accampamenti lungo la via Tiburtina, a Roma.

■ ROM KHORAKHANA E KANJARJA

Ultimi arrivati dopo la guerra in Iugoslavia. Musulmani e ortodossi, vivono in accampamenti.

■ KAULJA

Poverissimi, sono di origine algerina ma provengono dalla Francia e sono di religione musulmana.

■ SUFI

Piccola comunità derviscia del Pontonaccio (Firenze). Vengono dai Balcani, sono musulmani.

■ CÄRNER

Piccola comunità della Val Venosta. Vivono e si spostano sui carri, da cui prendono il nome.

■ CAMMINANTI

Risiedono a Noto, in Sicilia, si mantengono vendendo ceci abbrustoliti e palloncini.

 

 

 

ETICHETTEcheDIVIDONO

di Beppe Pavan

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Ho trovato molto stimolante la riflessione di Stefano Allievi su “Confronti” di febbraio 2020. É un pensiero che mi accompagna da molto tempo, insieme alle sue contraddizioni, come quella che mi fa tifare Italia nelle competizioni sportive. Ma anche questo tipo è in crisi, in verità.

Scrive Allievi: «Lo Stato-nazione è in crisi, come ogni cosa, vive dei cicli: nasce, cresce, si sviluppa, muore. Anche le istituzioni (…) Con la crisi dello Stato-nazione si è persa anche l’idea di patria come di una comunità-rifugio che identificherebbe il nostro noi di riferimento. (…) Probabilmente è un bene: si perde il suo aspetto burbero, severo, un po’ ottuso, minaccioso e talvolta impietoso – patriarcale, paternalistico e padronale a un tempo. Ma siamo rimasti orfani. (…) Non sappiano dove stiamo andando, né se stiamo veramente andando da qualche parte, o semplicemente le cose accadono, senza che alcuno le progetti o le persegua. (…) La patria è morta: pace all’anima di chi è morto per essa. Ora ci tocca trovare con cosa sostituirla (…)».

Gli Stati-nazione, con i loro egoismi intrinseci, sono quelli che impediscono all’Onu di realizzare l’ideale per il quale è stata pensata e creata: mettere pace tra le Nazioni, gestire pacificamente gli inevitabili conflitti, ecc.

Anche nelle Organizzazioni sovranazionali, come la Comunità Europea e l’Organizzazione degli Stati americani, continuano a dominare i “più uguali”, i prepotenti, come succede tra gli adolescenti ancora immaturi e tra gli animali della fattoria di Orwell. Anche dove sembrano regnare le migliori intenzioni, come nel cuore e nelle parole di Sergio Mattarella, persistono il culto e la retorica della Patria e i sovranisti hanno buon gioco (non sempre facile, in realtà) a proclamarsi difensori dei confini della Patria perchè cercano di impedirne l’invasione da parte dei disperati della Terra, delle vittime della nostra secolare occidentale prepotenza.

Io so dove voglio andare, con che cosa sostituirla: con la comunità umana, universale e meravigliosamente variegata, con l’amor di comunità. Quello che “ci tocca” fare è cominciare ciascuno e ciascuna di noi a parlare così, a cambiare linguaggio, formule, riti e celebrazioni; a praticare celebrazioni e ricorrenze alternative, ad esempio la “festa dell’Europa”, la “festa dell’Onu”… nelle giornate in cui ricorrono le date delle loro fondazioni. E, insieme, in ogni celebrazione nazionale riflettere e promuovere i passi avanti verso il superamento del nazionalismo.

La urgente necessità di avviare la “pianificazione ecologica” ci impone di pensare la politica e l’economia a livello davvero globale, planetario: persistere nei particolarismi è sempre più masochistico.

Io non mi sento affatto “orfano”: mia madre è la Terra, fratelli e sorelle mi sono tutti gli uomini e tutte le donne che la abitano. Se resistiamo nel parlare così il nostro linguaggio sarà sempre più inclusivo e ci aiuterà a consolidare un nuovo simbolico, che darà vita e forma a una vera comunità umana.

In questo senso il “Regno di Dio” ci è vicino, ci accompagna nel nostro qui e ora di uomini e donne che cercano la felicità. Non è millenarismo… non è “vicino” nel senso che “presto verrà”, ma nel senso che ci “vive già accanto”, è “vicino” a noi: è nelle persone e nelle pratiche che promuovono l’amore universale, la solidarietà e la condivisione, la sobrietà di tutti e tutte come mezzo per garantire a ogni uomo e a ogni donna una vita dignitosa.

Ci sarà sempre vicino e ci accompagnerà nei nostri tentativi di abbandonare i muri, le discriminazioni, il sessismo, l’omotransfobia, le differenze tra ricchi e poveri, le gerarchie di stampo patriarcale… per imparare a vivere sempre in cerchio, come intorno alla mensa insieme a Gesù, imparando a spezzare tutti e tutte la nostra vita per vivere la reciprocità sempre, in gioia e semplicità.

Ancora uno spunto, suggerito dall’articolo di Pier Giorgio Ardeni che, su Il Manifesto del 15 luglio scorso, riflette sui recenti dati Istat relativi ai movimenti demografici in Italia, che lamenta ignorati dalle Istituzioni. Cito un dato solo, significativo: «Nell’ultimo quinquennio sono 766mila gli stranieri “naturalizzati” [che hanno, cioè, ottenuto la cittadinanza italiana], il che vuol dire che, se non fosse stato per loro, la popolazione residente in Italia sarebbe calata di 1milione e 600mila unità. (…) Ma le cifre non solo dovrebbero servire come base per il decisore politico, ma alimentarne la discussione, indicarne le priorità…».

«Ma il Palazzo – prosegue Ardeni – con la classe politica che lo abita, stabilisce le sue priorità guardando altrove… I media italiani guardano ai “social” – quelli sì che fanno notizia – e a come questi interagiscono con il Palazzo. L’Italia vera, quella di cui parla l’Istat nei suoi comunicati, sta altrove».

Allora – tornando al nostro tema – se abolissimo gli Stati-nazione e le relative frontiere il problema si risolverebbe da sé: l’umanità si dislocherebbe a vivere dove può, senza etichette identitarie. La Terra diventerebbe un vero villaggio globale.

Referendum del quale occorrerebbe occuparsi…

 

Ci sarebbe anche referendum costituzionale del quale occuparsi in questi giorni d’agosto. Tra qualche settimana gli italiani dovranno decidere se confermare o respingere il taglio di deputati (dagli attuali 630 a 400) e senatori (da 315 a 200) votato dal parlamento nell’ottobre del 2019 dopo un lungo e non sempre lineare iter politico e legislativo. Eppure, nella distrazione collettiva di questa strana estate, se ne sta discutendo – quando se ne discute – soltanto a rimorchio di altre questioni.

Ci si indigna per il bonus covid chiesto da alcuni parlamentari, e va bene. Ma inquietano certi toni che trascinano ogni cosa in un baratro di rabbia e recriminazioni, alimentando la recrudescenza di un clima antipolitico. E tutto ciò cammina in parallelo con il disinteresse che sembra accompagnare il paese verso il voto di settembre, quando potrebbe essere ridimensionato il parlamento non solo nei numeri ma anche nella sua capacità di rappresentare la volontà popolare.

Se infatti il taglio dei parlamentari fosse confermato, in Italia si passerebbe dai circa 96mila abitanti per deputato a circa 151mila per deputato, e il nostro paese finirebbe all’ultimo posto in Europa per quanto riguarda la rappresentatività della camera bassa, che in Italia è la camera dei deputati.

In mancanza di una riforma complessiva della rappresentanza, o almeno dei correttivi al taglio che facevano parre del governo tra M5S e Pd – che però, a partire dalla nuova legge elettorale, sono rimasti sinora lettera morta – il risultato sarebbe quello di sterilizzare in parte la capacità del parlamento di rappresentare il popolo. E il parlamento è l’unico organo dello stato che il popolo lo rappresenta direttamente poiché dal popolo è eletto. Se questo sia un bene o un male è uno dei temi sui quali si dovrebbe riflettere adesso. Ma ciò non accade.

Così non si può non notare che, di fronte a una evidente e ormai quasi strutturale incapacità della politica di dare risposte alle questioni aperte nel paese, quella stessa politica invece di migliorare se stessa – per esempio scegliendo meglio chi mandare in parlamento – decida di smantellare parzialmente il parlamento stesso.

Ciò che insomma succede è che, di fronte a una propria carenza, la politica reagisce diminuendo la capacità dell’istituzione che rappresenta il popolo, garantendosi di fatto ancor più potere di oggi. E ciò accade paradossalmente sull’onda di un sentimento antipolitico che in molti – inclusa una parte della stampa più influente – hanno alimentato in questi ultimi due decenni. Così, se il taglio fosse confermato dal voto popolare, sarebbe davvero un successo per quella che in altri tempi si sarebbe detta partitocrazia.

Tutto ciò non accade adesso e dal nulla, ma trova la sua radice all’inizio degli anni novanta. Fu allora che i grandi partiti popolari vennero spazzati via, alcuni dalle inchieste sulla corruzione e altri invece dalla storia. Si affermò allora un genere di organizzazione politica più liquida e legata alla figura del leader, per la quale la comunicazione ha avuto un ruolo fondamentale e che alle idee ha sostituito l’appartenenza a vere e proprie consorterie. È lì, nella chiamata diretta del leader al popolo, senza più la mediazione dei partiti, che sta l’origine dell’ondata populista che negli anni successivi si è andata ingrossando. Non a caso, negli stessi anni la democrazia parlamentare venne di fatto “presidenzializzata”, anche se la costituzione non era cambiata.

Tutto ciò, insieme a molti altri elementi come la progressiva devoluzione di porzioni della propria funzione verso l’Europa o verso le regioni, contribuì alla costante erosione del ruolo del parlamento come legislatore e come luogo della politica. Lo dimostrano il ricorso sempre più massiccio ai decreti da parte del governo e l’intervento, anch’esso sempre più frequente, della magistratura come legislatore indiretto attraverso l’interpretazione della legge. La via giudiziaria ai diritti civili rientra, in questa prospettiva, nel grande racconto del malfunzionamento della politica; malfunzionamento della politica, appunto, e non del parlamento, che però alla fine è stato colpito da questo processo.

Se è così, allora a preoccupare sono anche alcune conseguenze di natura strettamente politica che un eventuale taglio dei parlamentari potrebbe avere. Già adesso, per esempio, il potere delle leadership è politicamente enorme. E, al di là della scarsa capacità di autonomia intellettuale che è da tempo molto evidente nella pancia dei partiti, diminuendo il numero dei parlamentari quel potere crescerebbe ancor di più. Si ridurrebbe così a poca cosa la libertà dei singoli parlamentari, rendendo anche più difficile l’affermazione di una dissidenza interna e di un pensiero non allineato.

In questo modo si finirebbe sempre più per trasferire indebitamente sul parlamento un rapporto di forza che, pur legittimo all’interno dei singoli partiti, non lo è più quando riguarda soggetti, come i parlamentari, che dovrebbero rappresentare ciascuno l’intero paese. In termini costituzionali significa che c’è il rischio di realizzare nella sostanza, o quanto meno si rischia di rendere più facile, una elusione del divieto del vincolo di mandato. Un risultato che probabilmente non dispiacerebbe ai leader politici che, in forme diverse, lo hanno cercato in passato, da Berlusconi a Renzi fino a Grillo.

In termini assoluti, ciò potrebbe finire per incidere negativamente perfino sull’equilibrio, già manomesso da tempo, tra i poteri dello stato. Basti pensare al rapporto tra governo e parlamento che, come prevede la costituzione, si regge sulla fiducia che il secondo accorda al primo. In futuro i parlamentari potrebbero trovarsi a dover rispondere con sempre meno possibilità di dissentire agli ordini del presidente del consiglio, che di norma è anche il capo del partito di maggioranza. Si finirebbe insomma per consolidare un parziale rovesciamento di quel rapporto, pericolosamente già in corso da tempo.

Non sembra esserci una contropartita sufficiente per giustificare tutto questo. Non c’è dal punto di vista funzionale e neanche da quello del risparmio economico. Il risparmio, infatti, sarebbe risibile sia in termini assoluti sia in rapporto a ciò che si rischia di compromettere sul piano politico e istituzionale.

Quel che resta sul tappeto, alla fine, è il tentativo di conseguire un risultato squisitamente politico da parte del Movimento 5 stelle, che ha voluto quel taglio come provvedimento da sbandierare. E quel risultato si manifesta sin dall’origine come un segnale esemplare che si vorrebbe dare alla politica e che però colpisce ancora una volta soprattutto il parlamento. Questo anche perché restano ancora aperte alcune questioni, come la nuova legge elettorale che avrebbe dovuto accompagnare il taglio dei parlamentari o il rischio piuttosto grave che la diminuzione di un terzo del numero degli eletti lasci alcune aree del territorio nazionale prive di rappresentanza parlamentare.

Nei primi tre passaggi alle camere il Partito democratico si era espresso contro il taglio. Poi, al quarto e ultimo voto parlamentare, ha dato il via libera in cambio della promessa strappata al M5s dell’introduzione di una serie di correttivi per mitigare le distorsioni causate dalla riforma. Ma di tutto ciò non si è mai avuta traccia nella realtà, nonostante il forzato ammorbidimento del Pd in questi mesi su molte questioni care ai cinquestelle.

Si è arrivati così al referendum, con un M5s pronto a festeggiare e un Pd che, alla ormai conclamata incapacità di elaborazione politica, ha mostrato anche una punta di ingenuità sconcertante. Non è un caso se anche Goffredo Bettini, uno dei sostenitori dell’accordo col M5s all’interno del Pd, ha dovuto ammetere che, stando così le cose, il taglio dei parlamentari “può essere perfino pericoloso per il regime democratico”.

Ecco, sarebbe stato meglio pensarci prima.

Migrazioni. Quello che insegnano i bambini….

…. e gli adulti non imparano

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Io vengo da. Corale di voci straniere” è un viaggio appassionante alla scoperta delle storie dei nuovi italiani. È l’ultimo libro di Daniele Aristarco, autore di racconti e saggi rivolti soprattutto ai ragazzi, pubblicati sia in Italia, sia in Francia. Una raccolta di testimonianze di bambini stranieri che abitano il nostro Paese, attraverso cui scoprire in quanti modi si può essere stranieri, anche nella propria casa. Aristarco ci mostra che essere straniero è una possibilità, un dono, una scelta nostra o degli altri. Classe 1977, ex insegnante di lettere nella scuola media, oggi dedito anche alla scrittura per il cinema e la radio e regista teatrale, ideatore di laboratori di scrittura creativa per l’infanzia presso scuole e associazioni culturali.

Alcuni dei titoli di altri suoi libri sono uno straordinario biglietto da visita: “Lettere a una dodicenne sul fascismo di ieri e di oggi”, “Io dico NO! Storie di eroica disobbedienza”, “Io dico SI! Storie di sfide e di futuro”. Sono tutti libri che insegnano a pensare, ad essere differenti nel pensiero, a sviluppare una coscienza critica. Come è arrivato a scegliere il tema di questo libro?

I miei libri nascono dagli incontri nelle scuole, mi piace ascoltare e prestare particolare attenzione alle voci che vanno fuori tema. In questo caso mi sono sintonizzato sui cambiamenti che sta vivendo la nostra società, questa nuova composizione del nostro Paese. Come succede in libreria dove spesso sono i libri a sceglierci, così succede a me per la scrittura: a volte mi sembra di aver scelto un tema, ma in realtà è un momento particolare che si incrocia con il mio interesse e con quello die miei lettori, che nel mio caso sono ragazzi. Arthur Schopenhauer diceva che noi acquistiamo libri illudendoci di acquistare del tempo per leggerli; secondo me li scriviamo anche per illuderci di acquistare un tempo ulteriore, diverso. Quando scrivo un libro mi prendo un tempo differente per ragionare. E allora mi sono detto: spesso il racconto dei media in questi anni è stato un racconto catastrofico, quando invece girando per le scuole italiane spesso mi sono trovato davanti a realtà in cui la curiosità nei confronti dell’altro è uno stimolo. Mi sono chiesto: come mai i bambini vivono già in una società multietnica dove ogni differenza può essere un valore, e il racconto degli adulti è invece così negativo? La spiegazione forse è semplice: non viene data voce ai bambini, che invece raccontano spesso il racconto degli adulti. Così ho iniziato questo viaggio nelle scuole, nei centri di prima accoglienza, nelle associazioni culturali, ragionando con i nuovi e i vecchi italiani su come sta cambiando il nostro Paese e su che cos’è questa migrazione, facendomi portavoce delle storie dei ragazzi che difficilmente ottengono ascolto.

Molto spesso viene chiesto ai ragazzi cosa vorranno diventare. Lei ha scelto di raccontare invece chi sono e lo ha fatto ponendo una domanda diretta: Da dove vieni? In che modo ripercorrendo il cammino che ci ha condotti fino a qui possiamo delineare la nostra identità?

In genere i bambini, anche quelli che hanno vissuto esperienze drammatiche, che sono scappati da realtà complicate, difficilmente condividono il dolore, tendono a fare un racconto che ha più a che fare con il gioco, tendono a condividere lo stupore, la novità. Come dico nel libro, ogni società ha bisogno di uno sguardo straniero che la racconti, che la descriva e faccia anche da specchio, come un amico, un amore, che ti aiuta a comprendere meglio chi sei e cosa fai. Ecco, il racconto di una identità si muove secondo me sempre tra due punti: la nascita e la morte. Noi possiamo muoverci lungo questa linea guardandoci alle nostre spalle, raccontando da dove veniamo, oppure guardarci attorno con uno scopo. I ragazzi hanno sempre uno scopo. In generale, chi si muove da un Paese verso l’altro e intraprende in genere un viaggio anche pericoloso, ha uno scopo, anche se non delineato. I ragazzi hanno una curiosità che è un grande motore, e quindi la loro identità, ciò che raccontano nel libro, è la capacità di sognare e la consapevolezza che quel sogno si può realizzare.

In quanti modi si può essere stranieri?

Nel concetto di straniero c’è una duplice natura a mio parere. C’è una possibilità o una condanna. Se noi giocassimo a volte a sentirci stranieri attraversando le strade delle nostre città come se le vedessimo per la prima volta, lo sguardo che porteremmo si caricherebbe di odori e colori nuovi, come se non ci appartenessero. Quando invece veniamo definiti stranieri, ossia estranei a ciò che sta accadendo, quella è una condanna che può diventare molto pesante. Un ragazzo nordafricano che vive in Italia da qualche anno mi raccontava che ogni volta che rientrava a casa la sera indossava il cappuccio e i guanti per nascondere il colore della sua pelle, perché aveva paura. Ogni volta che bolliamo una persona per un dato così superficiale, come a volte succede anche nei confronti delle donne, non ci accorgiamo che quel dato è molto difficile da sconfiggere in una società costruita sul pregiudizio. Io gioco spesso con i ragazzi sul confine tra la parola “straniero” ed “estraneo”, perché spesso è una percezione. Noi riusciamo a sentirci estranei o stranieri anche all’interno del nucleo familiare, della classe, del contesto in cui lavoriamo: io credo che l’identità sia anche il desiderio di adesione ad un sogno, a un gruppo, a un progetto. Se sostituissimo l’identità con la dignità, forse vivemmo in un mondo dove tutti possono decidere dove si sentono a casa e cosa vogliono raccontare.

Il libro si apre con la storia di Mircea, un bambino rumeno, e muove i tassi dal ricordo di un racconto di suo nonno. Dice: “Mettersi in viaggio è l’unico modo che abbiamo per diventare umani, altrimenti si resta pupazzi di fango”. Il tema del viaggio è ricorrente in questi racconti: cosa sta a simboleggiare?

Ha detto bene: è un simbolo. Io sono un appassionato lettore di Mircea Eliade, uno storico delle religioni rumeno, che dice che il simbolo può rappresentare tutto, perché ciascuno proietta su questo simbolo dei significati. Io sono partito da questo, ossia che il viaggio è ciò che si desidera farne e spesso ce ne rendiamo conto solo a metà percorso. Molti di questi bambini hanno passato già metà della vita viaggiando, per loro il viaggio non è una parentesi come spesso invece è per noi, è una condizione quasi stabile seppure nell’instabilità. È il loro modo di stare al mondo, a me affascina molto. Bruce Chatwin, un noto autore di racconti di viaggio, dice che quando siamo in viaggio siamo felici, perché è il ricordo di una dimensione lontanissima. Quando sei in viaggio hai con te solo quello che ti serve, non sei appesantito fisicamente né dal ruolo sociale, e andando in un posto in cui nessuno ti conosce l’unica cosa che vale è la nostra capacità di raccontare storie. Per questi bambini il viaggio è un modo di stare al mondo che ha a che fare con il racconto.

Chang è un bambino cinese, ha 10 anni, una grande passione per le arti marziali e per i sorbetti al limone. Ogni mattina in classe prima dell’appello alza la mano e dice: “Voglio cambiare nome”. Qual è la sua storia?

Ho incontrato questo bambino in una scuola romana, in uno dei quartieri più multietnici della capitale. Nella sua classe c’erano 20 bambini che provenivano da 20 Paesi differenti e che comunicavano soprattutto facendo musica. Una mediatrice culturale mi ha raccontato di questo bambino che più volte aveva espresso il desiderio di cambiare nome, anche perché soprattuto nelle comunità cinesi è difficile e faticoso insegnare agli altri la giusta pronuncia. Nel suo caso però il desiderio non era legato al conformismo o ad una vita d’uscita da un imbarazzo perpetuo, ma dal desiderio di diventare invisibile, così come lo erano stati in tante classi dei ragazzi che si chiamavano Paolo e che nessuno aveva mai notato. Lui voleva cambiare nome per non dover chiedere un’autorizzazione, ogni giorno, per essere se stesso, per poter restare in silenzio e seguire il volo dei propri pensieri.

Leggendo le storie di questi bambini, figli di coloro che spesso sono appellati come “barbari invasori”, si scopre un fatto: tutte le persone che scappano hanno elaborato un sogno. Che cosa significa avere un progetto migratorio?

Questa è una delle scoperte che ho fatto ragionando con i ragazzi. Mi ha colpito moltissimo la storia di un ragazzo dell’Est-Europa che aveva 12 anni quando l’ho incontrato la prima volta. Era stato separato da suo fratello per molte ragioni, in nome di regolamenti mostruosi. Lui raccontava che avrebbe finito le medie, si sarebbe iscritto ad un professionale, avrebbe presto il diploma e a 18 anni lo avrebbe rivisto. Da una parte certamente quel racconto serve a quel ragazzo a stare con la schiena dritta e lavorare per uno scopo preciso, ma negli occhi di quel ragazzo c’era una determinazione incredibile. L’ho rincontrato anni dopo e sta andando su quella linea.

Questo cerco di raccontare ai bambini che spesso non lo sanno: una persona che fugge da un luogo si sta mettendo di fronte a dei rischi enormi. Ma se lo fa, quando lo fa, elabora un sogno, un progetto. Sono spesso progetti molto semplici, concreti e sono esattamente gli stessi progetti che hanno i ragazzi italiani, anche se questi ultimi quasi sempre posticipano, perché noi siamo abituati ad avere un appuntamento con il futuro eternamente rimandabile. Quello che voglio dire è che i sogni sono cose estremamente concrete e che i bambini me l’hanno insegnato, quindi un progetto migratorio ha a che fare con due elementi che vivono dentro di noi. Tutti desideriamo conoscere ciò che è diverso da noi, ma chi si trova a volte nell’obbligo di farlo riesce ad arrivare in fondo a quel sogno.

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“Odiose” cifre…..

  • ..e non è solo questione di “aria”!

    di Piero Murineddu

    Sembra inarrestabile la valanga d’odio che rischia di spazzare via definitivamente quel che’è rimasto d’umanitá collettiva. Un vivere sociale che appare caratterizzato dal Sospetto e dalla Diffidenza, un guardarsi in cagnesco per paura che qualunque prossimo possa e voglia fregarti l’osso, non raramente “rubato” a qualcun altro.

    Per quanto tempo ancora possiamo reggere a questo clima del chivalá e stressati per il dover mantenere continuamente la propria arma ben oleata e col proiettile quasi ansioso di partire?

    Nel leggere i numeri del Libro bianco sul razzismo in Italia, nell’articolo che segue, ci sarebbe da disperare che la tendenza possa cambiare: violenza espressa in parole che spesso si traducono in fatti, e quelli verso le persone inermi sono i più numerosi e che denotano il livello di vigliaccheria inarrestabilmente in salita.

    Personalmente mi sto sempre più convincendo che l’invenzione dei social abbiano contribuito molto a creare questo che é ben altro che un generico clima, ma purtroppo, uno stato di fatti tristemente reali. Credo sempre meno, come si sente dire e in parre é vero, che prima quesre cose succedevano ugualmenre, ma solo che non si venivano a sapere per la scarsa informazione.

    E poi c’é quell’altro aspetto, oltremodo inquitante, che gli artefici per esempio delle discriminazioni, una delle varie esplicitazioni di odio praticato, risultano essere coloro che dovrebbero al contrario dare l’esempio, in quanto rappresentanti e anche “guide” di gruppi di persone.

    É di queste ore l’incredibile vicenda del parroco pugliese che indìce la recita del rosario per chiedere l’intervento di chissá quale divinitá (evidentemente la sua!) che impedisca la promulgazione di una legge statale per combattere la cosidderltra omotransfobia, che secondo la periodica ipocrisia della CEI sarebbe una legge – udite udite…- liberticida. Ma guaaarda! Chissá perché questa “strana”  posizione mi fa ripensare a quell’aderente alla Putrida Lega che qualche giorno fa definiva legittima l’opinione di ritenersi razzisti, a patto che…. A patto un paio di palle! Se vivi in un contesto che si ritiene civile, DEVI rispettare il prossimo, IN PAROLE E OPERE, e se non lo fai, ti prendi le conseguenze anche penali.

    Basta così altrimenti mi rovino la giornata che ho davanti.

    Dicevo dei numeri da far rizzare tutto il rizzabile. Leggete, leggete…..

    Roma, ottobre 2018. - Stefano Montesi, Corbis/Getty Images

    Gli anni peggiori per gli attacchi razzisti e i discorsi di odio

     

    Tra il 1 gennaio 2008 e il 31 marzo 2020 i casi documentati di razzismo in Italia sono stati 7.426. Lo afferma l’ultimo Libro bianco sul razzismo in Italia, l’indagine pubblicata dall’associazione “Lunaria” insieme al sito Cronache di ordinario razzismo. Si tratta di 5.340 violenze verbali, 901 violenze fisiche contro la persona, 177 danneggiamenti alla proprietà, 1.008 casi di discriminazione.

    Nel 2019 gli attacchi documentati dall’organizzazione sono diminuiti rispetto al 2018, tuttavia nel complesso il biennio 2018-2019 è stato il peggiore degli ultimi dieci anni, secondo l’organizzazione.

    I dati più preoccupanti riguardano le 901 violenze fisiche contro le persone e i 177 danneggiamenti di beni o proprietà connessi (o ricondotti) alla presenza di cittadini stranieri. “Sebbene i dati presentati non abbiano alcuna rappresentatività statistica, ci sembra che sia da guardare con grande attenzione l’anomala ricorrenza di aggressioni fisiche, effettuate individualmente o in gruppo, che abbiamo documentato nel biennio 2018-2019 rispetto agli anni 2012-2017. Gli anni 2009 e 2018 sono i peggiori nel periodo considerato, almeno attraverso la lente del nostro osservatorio. Forse non è irrilevante l’analogia tra i toni, i temi e gli argomenti che hanno attraversato il dibattito pubblico sulle migrazioni in entrambi gli anni”, spiega il rapporto.

    Tra le 1.008 discriminazioni registrate, 663 sono state commesse da politici o amministratori: “Anche questo è un dato da non sottovalutare: ci segnala quanto ci sia ancora da fare per prevenire la xenofobia e il razzismo perfino in quelle sedi che dovrebbero essere in prima fila nel prevenirli e nel combatterli”, continua il rapporto. Sono invece 345 le discriminazioni commesse da privati cittadini documentate dal rapporto.

    “7.426 casi di razzismo. È un numero alto. Eppure, sappiamo che è approssimato per difetto. La xenofobia, il razzismo, l’islamofobia, l’antisemitismo, la ziganofobia sono difficili da quantificare, perché la gran parte delle ingiustizie, delle discriminazioni e delle violenze razziste resta confinata nell’invisibilità del silenzio di coloro che le subiscono e nell’omertà dei molti che ne sono testimoni passivi e, dunque, anche complici”, spiega Grazia Naletto di Lunaria.

    In Italia – come nella maggior parte dei paesi occidentali – i crimini di odio motivati da ragioni etniche, religiose e razziali sono in aumento.

    “Il numero 7.426 ci serve, dunque, innanzitutto a questo: a ricordare che la xenofobia e il razzismo, lungi dall’essere fenomeni straordinari ed estemporanei, imputabili a individui solitari, sono radicati nel nostro paese da molto tempo e fanno parte di un contesto, sono cioè fenomeni sociali, strutturali, ordinari e sistemici, in cui giocano un ruolo centrale gli attori collettivi: le istituzioni, i partiti e gli operatori dei mezzi di comunicazione, innanzitutto. Il razzismo istituzionale è quello che da sempre attrae la nostra attenzione, nella convinzione che da esso discendano in gran parte le forme di razzismo mediatico e popolare”, conclude Naletto. Nel rapporto sono ripercorse le tappe dei dieci anni dell’osservatorio e i passaggi più importanti anche nella presa di coscienza del fenomeno.

    L’indagine pubblicata ogni anno da Lunaria si fonda sull’osservazione e sul monitoraggio quotidiano della stampa italiana e delle segnalazioni rilasciate online da parte delle vittime, dei testimoni o di altre associazioni. Come ricordano gli autori non ha valore statistico, ma è di fatto una delle poche fonti di informazione su questo tema in Italia e permette di osservare i cambiamenti in atto. In Italia – come nella maggior parte dei paesi occidentali – i crimini di odio motivati da ragioni etniche, religiose e razziali sono in aumento da anni, anche se le cause di questo incremento sono difficili da stabilire. Il problema principale è che in Italia non esiste una banca dati ufficiale che raccolga e pubblichi ciclicamente le statistiche su questo tipo di aggressioni, come avviene invece in altri paesi europei.

    Esistono diverse agenzie che raccolgono informazioni, ma non c’è un coordinamento centralizzato. Nel 2010 è stato creato l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), un’agenzia del ministero dell’interno che registra le segnalazioni alla polizia di crimini di odio. Ma i dati non sono molto aggiornati. Altre agenzie governative in possesso di informazioni utili sono il ministero della giustizia, che registra il numero dei procedimenti giudiziari avviati per questo tipo di crimini, mentre i dati delle discriminazioni li raccoglie anche l’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar), che dipende dalla presidenza del consiglio dei ministri. Uno dei problemi riguarda le definizioni dei reati, in quanto in Italia non esiste una definizione univoca di “crimine di odio” e di “discorso di odio”.

    L’Oscad segue la classificazione di “crimine di odio” fornita dall’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce), l’autorità internazionale che si occupa di questo tipo di reati. La classificazione di crimini di odio per l’Osce (e quindi per l’Oscad) è molto rigida e non contempla per esempio i discorsi d’odio (hate speech). Un altro problema è che in Italia non esiste comunicazione tra il ministero della giustizia e il ministero dell’interno su questo tema, per cui non si sa quante denunce presentate alle forze di polizia si tramutino in processi.

    Per tutte queste ragioni è molto difficile quantificare l’aumento delle aggressioni razziste in Italia e determinarne le cause, così come è molto complicato fare un paragone con gli altri paesi europei. In Italia nell’ottobre del 2019 è stata istituita una commissione parlamentare contro l’odio voluta dalla senatrice Liliana Segre, che dovrebbe avere proprio l’obiettivo di monitorare il razzismo e l’antisemitismo nel paese, ma la commissione formata da 25 senatori non si è ancora riunita. Nel frattempo in Italia si è formata una Rere nazionale per olil contrasto ai discorsi e ai fenomeni di odio con il contributo di diverse organizzazioni, tra cui la stessa Lunaria, Arci, Asgi e Amnesty international. La rete ha mandato una lettera alla commissione per chiedere di cominciare a lavorare il prima possibile.

    La legge Zan e i discorsi di odio

    In questo contesto e in questo momento storico, con il movimento antirazzista Black lives matter che sta scendendo in piazza in tutto il mondo dopo l’uccisione di George Floyd a Minneapolis, negli Stati Uniti, uno degli argomenti più controversi è quello sui discorsi di odio che prendono di mira le minoranze e sul contrasto a questo tipo di discorsi, che per alcuni potrebbe porre un limite alla libertà di espressione e di parola. Sulla rivista Harper’s ha fatto discutere la lettera firmata da 150 intellettuali contro quella forma di boicottaggio promossa online con cui ci si dissocia da aziende o celebrità che hanno manifestato comportamenti controversi o oltraggiosi.

    “Sappiamo che spesso questo tipo di iniziative contro l’omofobia sono accusate di voler porre un limite alla libertà di espressione e di parola”, spiega Federico Faloppa, docente di storia della lingua italiana e sociolinguistica all’università di Reading, nel Regno Unito, e autore del libro Manuale di resistenza alla violenza delle parole (Utet 2020). “Ma in realtà sono solo strumenti per capire meglio cosa sta succedendo nei nostri paesi in una situazione in cui anche la raccolta dei dati è complicata: quest’anno sembra che i discorsi di odio siano scomparsi, ma sappiamo che non è così, forse fanno solo meno notizia rispetto all’anno scorso. Sarebbe giusto quindi che esistesse un osservatorio di monitoraggio stabile su questi temi”.

    Ma che si intende per discorsi di odio? “Negli Stati Uniti la definizione è rigida. In molti paesi europei, invece, si fa molta attenzione a non far collidere i limiti che si vogliono porre al discorso di odio con la censura che intaccherebbe la libertà di espressione: la definizione di questo limite è un tema molto complesso e ogni paese cerca di legare la questione al proprio sistema giuridico”, spiega Faloppa. La European commission against racism and intolerance (Ecri) parla di “forme di espressione” che discriminano le persone per motivi di razza, di sesso, di religione. “Quella dell’Ecri è una definizione molto vaga che non tiene contro dell’uso di stereotipi o, per esempio, del body shaming “, continua Faloppa.

    Per il linguista tuttavia una delle questioni da tenere presente nel riflettere sulla definizione univoca per i discorsi di odio è che si tiene poco conto del punto di vista della vittima. “Bisognerebbe dare un po’ più di attenzione alle persone che subiscono le parole di odio: è necessario coinvolgerle nella definizione di quali linguaggi sono più discriminatori, altrimenti si rischia di non centrare il punto”. Sul piano del linguaggio, secondo Faloppa, sarebbe il caso di arricchire la definizione di hate speech dell’Ecri. “È necessario costruire questa discussione dal basso, per ragionare in maniera più complessa sulle parole che usiamo e sulle parole che feriscono, includendo il punto di vista di chi questa ferita la subisce”.

     

    Faloppa giudica positivamente la norma, perché “ci sono persone che sono attaccate più di altre sulla base di discriminazioni e che al momento sono meno tutelate”. La parola può già diventare reato come nel caso della calunnia o della diffamazione: “Infatti fino a ora sono state usate spesso le norme sulla calunnia per tutelare le persone lgbt che hanno subìto discorsi di odio”. Ma il limite è sempre quello della libertà di espressione: “Le corti valutano sempre i contesti in cui certe parole sono espresse e quali sono i danni che provocano nella persona che li riceve”, conclude Faloppa.

     

Brunetto&Aldilá

di Piero Murineddu

Leggere delle numerosissime iniziative culturali in cui Brunetto Salvarani ha messo e continua a mettere la testa e le mani, c’é veramente da perdersi.

Docente universirltario e collaboratore di diverse testate giornalistiche, e di qualcuna é stato  cofondatore e direttore. In qualitá di teologo, impegnato anche nel campo della nonviolenza attiva, continua a credere, pensate un po’, nella coesistenza pacifica tra ebrei e palestinesi, cosa che più passa il tempo, più diventa difficile concretizzare. I suoi concittadini di Carpi, dov’è nato esattamente sessantaquattro anni fa (auguri Brunetto!), lo hanno voluto per un periodo assessore, manco a dirlo della Cultura, e son certo ha lasciato delle tracce importanti del suo passaggio, a differenza di tanti altri che di Cultura dimostrano di non conoscerne il significato. E questo ovunque, compreso il paesotto dove io vivo.

Appassionato di musica e di fumetti, motivo che me lo rende simpatico e di cui ha scritto, si é occupato anche di lotta alla mafia. Ogni tanto mi capita di ascoltarlo  nella trasmissione radiofonica “Uomini e profeti”, compensando bene la mancanza della storica ottima conduttrice Gabriella Caramore.

Curata da Lorenzo Prezzi e tratta dal sito “Alzo gli occhi verso il cielo”, riporto un’intervista sulla sua ultima fatica letteraria, che tra l’altro si occupa di un tema intonatissimo al sito, cioé di come le religioni vedono l’Aldilá.

Naturalmente l’invito a leggere la lunga intervista é rivolto a chi non é frettoloso e a chi non ama gli slogans e le battute ad effetto.

Alla fine propongo un breve intervento filmato di Brunetto che dice qualcosa su un libro dedicato oltre un decennio fa al Francescone Nazionale, chiamato confidenzialmente da molti Guccio, “Su questa cosa che chiami vita”.

A proposito. Oggi o domani bisogna che mi ricordi di ordinarmelo a domicilio, anche perché di andare in cittá a cercarlo nelle librerie non ne ho per niente voglia…

Brunetto-Salvarani

Aldilá della morte

 

Lorenzo Prezzi
Una scena che ha lasciato il segno sono state le bare sui camion militari durante la pandemia. Cosa nasconde il disagio provocato da quella visione: una domanda di riti, di relazioni e di memoria?

Brunetto Salvarani                                           Di fronte a un nemico invisibile ma pervasivo e potenzialmente onnipresente, in poco più di un attimo siamo stati tutti catapultati all’improvviso in una società mondiale del rischio, obbligati a ridefinire le agende e invitati dalle circostanze a rivedere radicalmente il nostro modus vivendi e le nostre priorità, scoprendoci – più di quanto già non sapessimo – indifesi, esposti, smarriti. Sul piano tanto esistenziale e psicologico quanto sociale ed economico.

Il contagio massiccio causato dal virus ci ha gettato in un panorama planetario in cui sono riemersi linguaggi sottratti all’immaginario medievale e paure di stampo apocalittico; ha favorito l’irruzione della morte nelle case e nelle famiglie, come presenza realissima o come spauracchio costantemente incombente; e, contestualmente, ci ha costretto a ridisegnare passaggi quanto mai delicati quali la gestione del lutto in assenza della salma del defunto e la pietas naturale verso i morenti.

In un quadro del genere, non c’è alcun dubbio che le colonne militari in partenza dalla bergamasca alla ricerca di uno spazio per sistemare le salme affidate loro siano assurte a immagine simbolo della pandemia vissuta nel nostro Paese: ha giocato un certo ruolo anche la reiterazione mediatizzata della notizia, in un periodo in cui eravamo tutti a casa, piuttosto attoniti davanti agli schermi, televisivi o dei nostri dispositivi.

Si è ripetuto, a buon diritto: defunti che se ne sono andati senza una stretta di mano, senza una preghiera, senza poter fruire di una rielaborazione collettiva del lutto. Tutto vero, ma mi chiedo se quanto accaduto non potrebbe risultare un’occasione preziosa per ripensare daccapo la nostra ritualità nell’arte, difficile, del congedo (e quando dico nostra, alludo sia a quella religiosa sia a quella civile), con l’obiettivo di renderla eloquente per Chiese, comunità di fede e società prive di memoria e incapaci di produrre germi di futuro, asserragliati come siamo nel nostro piccolo hic et nunc.

Ci ripetiamo: siamo sulla stessa barca, ma in realtà guardiamo con angoscia l’andare alla deriva della nostra personale minuscola zattera di salvataggio…

Il fatto è che, di fronte alla morte, ho l’impressione che il discorso pubblico sia sempre più afasico e impotente. È emblematico il caso del famoso borgo sardo di Porto Cervo, principale centro della Costa Smeralda, privo di cimitero: inaugurato negli anni Sessanta del secolo scorso come spazio di divertimento per eccellenza, non vi si prevede neppure l’eventualità di avere a che fare con la morte e con i morti.

Qui, negli ultimi anni, il monopolio religioso nella cultura delle esequie si va progressivamente erodendo, a favore di una professionalizzazione e una privatizzazione dei cerimoniali inerenti al fine vita, con l’allargamento a macchia d’olio delle case del commiato o funeral-home, mentre sulle tombe la classica simbologia cristiana è di frequente accompagnata o sostituita da altre, provenienti da una generica religiosità naturale.

Il funerale dovrebbe essere il momento in cui i morti evangelizzano quanti rimangono da questa parte; invece, durante i riti di commiato si applaude al defunto, scorrono le sue immagini in video, e ci scopriamo, una volta di più, incapaci di abitare il silenzio, la perdita e il vuoto.

Direi che la gestione della morte avrebbe un grande bisogno di un’inedita tradizione, di una nuova e rinnovata ars moriendi di cui oggi non si percepiscono per nulla i lavori in corso. Così, si fugge davanti agli stessi riti e simboli funerari, sostituiti da pratiche sempre più spersonalizzate, prodotte in serie addolcite dalla rappresentazione kitsch di una falsa personalizzazione: una rappresentazione sempre uguale, rassicurante, autoritaria nel lessico e nei gesti rituali spesso banalmente ripetuti senza riflettervi.

Lorenzo Prezzi                                             Qual è l’immagine del morire dopo il tramonto dei “novissimi”?

Brunetto Salvarani                               Secondo uno dei padri dell’antropologia culturale, il polacco Bronislaw Malinowski – era il 1925 – «fra tutte le fonti della religione, la morte, crisi suprema e finale della vita, riveste un’estrema importanza».

Egli la presentava come l’enigma che ha indotto esseri umani coscienti a divenire religiosi o animistici, a scorgere un’anima in tutte le cose esistenti e a ritenere che l’anima potesse essere emancipata dalla morte stessa, fino ad aggiungere: «La morte è l’ingresso nell’altro mondo, non solo in senso letterale. Secondo la maggioranza delle teorie sulla religione primitiva, gran parte dell’ispirazione religiosa, se non tutta, è derivata di lì; e in ciò le opinioni ortodosse sono del tutto corrette… La morte e la sua negazione, l’immortalità, hanno sempre costituito, e costituiscono tuttora, il tema centrale delle aspettative future dell’uomo».

Tra gli aspetti più scontati del cristianesimo, e tra quelli storicamente di maggiore presa popolare, c’è sempre stata la prospettiva di potersi procacciare una vita migliore nell’aldilà. Anzi, le generazioni meno giovani conservano viva la memoria di una predicazione cristiana quasi totalmente incentrata, da un lato, sulle realtà ultime e definitive e, dall’altro, sugli scenari perennemente incombenti sul vissuto quotidiano del post-mortem, detti alla latina Novissimi (il termine ha origine da Siracide 7,40). In latino, la parola novissimi non si riferisce, come si potrebbe intuire, alle cose più nuove, ma alle cose ultime, quelle finali e definitive.

Così, morte, giudizio, inferno, paradiso, ma anche il purgatorio che, in realtà, per il catechismo cattolico tecnicamente non ne fa parte – e rappresenta anzi una pietra d’inciampo in chiave ecumenica (le Chiese ortodosse, ad esempio, non credono nell’esistenza del purgatorio, e leggono severamente la scelta cattolica di inserirlo fra i possibili esiti del post-mortem) –, per lunghi secoli, sono stati posti costantemente (e dantescamente) davanti agli occhi e alle menti dei fedeli cristiani come luoghi veri e propri, situati di volta in volta realmente negli abissi sotto terra o in alto, fra le nuvole nei cieli, utilizzati come spauracchi sempre in grado di destare nei devoti pungenti preoccupazioni, sollecitudini e timori di ogni sorta.

Probabilmente anche in ragione di tali paure quotidianamente agitate nella catechesi per i bambini e nelle omelie per i loro genitori, il discorso sui Novissimi ha con il tempo finito per essere screditato, tanto che su di esso oggi sembra regnare il silenzio, un oblìo, se non persino una vera e propria rimozione, più o meno voluta e più o meno compresa nella sua portata.

Intendiamoci, il fenomeno travalica i confini di quelle che furono in passato le terre cristiane: sono le religioni nel loro complesso, un po’ tutte e un po’ dappertutto, che si trovano oggi in un discreto imbarazzo, quando sono costrette a farlo, a parlare dell’aldilà con qualche cognizione di causa.

Come scrive il filosofo Roberto Mancini: «Molti sono disposti a credere in un Dio immaginato come entità suprema, pochi credono nella felicità e nella salvezza. Molti temono l’inferno, pochi sperano la risurrezione. Così, invece di accogliere la vita vera, la costeggiamo dal di fuori, feriti dalla paradossale nostalgia per ciò che ancora non abbiamo mai scoperto». Evidentemente, si tratta di una questione molto seria, e da affrontare con la dovuta attenzione (e sensibilità).

Lorenzo Prezzi                                     Riguardo al morire, quali sono le differenze più significative fra tradizione ebraico-cristiana, islam e religioni orientali?

Brunetto Salvarani                                             È evidente che fra la cultura e le religioni occidentali (in cui è lecito inserire le cosiddette religioni monoteistiche) e quelle orientali si siano sviluppate visioni diversificate – e quasi speculari – del dolore e della morte.

Da una parte, nel cristianesimo e nella cultura occidentale, il morire è stato percepito come un dramma unico, una tragedia che non ha eguali. La morte è la fine dell’uomo, e anche se il cristianesimo invita a pensare alla risurrezione e alla vita nuova con Cristo oltre la morte, permane immancabilmente nel cristiano un senso di fallimento, di una perdita che produce angoscia e, talvolta, disperazione.

Non si è in grado di sopportare il pensiero della morte, e spesso si è rinviato al fatto che, se ha causato paura a Gesù stesso che ha pregato il Padre, se gli fosse stato possibile, di allontanarne il calice (Lc 22,42), non si vede perché esso non debba spaventare anche i suoi seguaci.

Dal punto di vista orientale, ciò che mancherebbe all’orizzonte cristiano – su tale versante – è una visione a più ampio respiro: nel pensiero del cristianesimo si sarebbe prodotta una simile situazione di sofferenza percependo la morte come male assoluto perché si è dato un eccessivo valore all’individuo, alla persona, fino a sfociare in un antropocentrismo assoluto che tende a sconfinare pericolosamente in un assoluto ego-centrismo (è degno di nota che lo stesso papa Francesco, nell’enciclica del 2015 Laudato si’, parli di un «eccesso di antropocentrismo» nella cultura attuale, al n.115).

Ora, se tutto si concentra sull’uomo, principe del creato, è logico che, nel momento in cui l’esistenza umana subisce uno scacco di così enormi proporzioni, un simile evento venga sentito in maniera tragica, come una catastrofe irreparabile. Più l’uomo viene enfatizzato come il punto di convergenza di tutto ciò che esiste nell’universo e più la sua scomparsa individuale apparirà come innaturale e drammatica.

Dall’altra parte, un secondo atteggiamento che il cristiano – ma più propriamente l’uomo occidentale – assume nei confronti della sofferenza e della morte è un comprensibile atteggiamento di rifiuto. La morte non la si può accettare: è un non-senso radicale, anzi, il non-senso per eccellenza, per cui si fa ricorso a stratagemmi in grado in un modo o nell’altro di far sembrare che la morte non esista, o sia appena un incidente fortuito nel corso di una malattia.

L’odierna, generalizzata ospedalizzazione della morte, da questo punto di vista, andrebbe considerata un espediente per eliminarne il mistero. Scrive Edgar Morin: «Il cristianesimo è l’ultima religione di salvezza, l’ultima che sarà la prima, quella che esprimerà con più forza, con più semplicità, con più universalismo, la chiamata all’immortalità individuale, l’odio della morte. Essa sarà determinata unicamente dalla morte: il Cristo illumina ciò che riguarda la morte, vive della morte…».

Le religioni orientali, e la maggior parte delle religioni tradizionali, vivono in un’altra dimensione. La sofferenza, la pena prodotta dal dolore, la morte sono rielaborate in un altro orizzonte. La visione cosmocentrica che vi predomina ha favorito infatti la nascita di una mentalità diversa, secondo cui l’uomo è parte dell’universo e va compreso nell’insieme di tutte le altre realtà esistenti.

Non c’è solo l’uomo sulla terra, e la sua tendenza a ergersi come individuo al di sopra di ogni altra realtà terrena è appunto il suo più grave errore, che lo conduce di necessità verso il vicolo cieco della sofferenza.

Le varie forme di buddhismo, in particolare, ritengono che il culmine del dolore per l’uomo derivi dal suo attaccamento alla vita, e che non si dia via di scampo per chi si illude di uscire dall’oceano delle sofferenze accentuando la propria individualità: la vita è puro male, nella misura in cui si manifesta come attaccamento al proprio io.

L’uomo orientale, al contrario di quello occidentale, ritiene che – fino a quando si dà importanza all’ego – non saremo in grado di uscire dalla spirale del dolore e del desiderio: e proprio tale differente visione della vita lo porta anche a una diversa visione della morte. Che non andrà letta, dunque, come una tragedia, ma al contrario come una liberazione, tanto che l’uomo religioso deve imparare a morire già in questo mondo.

Il distacco dalla vita, dunque, è il segno distintivo dell’uomo religioso e del santo nel buddhismo. Per questo la morte e il dolore non andranno intesi come momenti di shock, ma tappe fondamentali nel lungo dharma della salvezza. Il samnyàsin nell’hinduismo o il bodhisattva nel buddhismo sono figure emblematiche di questo distacco dalla vita che corrisponde già a una vera morte, ma in cui si gode altresì di una pacificazione totale, in quanto l’io è stato definitivamente superato e ora esiste solo la totalità, il cosmo, o Atman, cioè il respiro universale della vita.

Il dolore e la morte, in tale concezione, non sono altro che fatti naturali non da esorcizzare, ma quasi da invocare in vista della liberazione finale. Esemplare è una preghiera della tradizione hinduista, tratta dalle Upanishad e databile attorno al 700 a.C., che recita: «Dal non essere fammi giungere all’essere;/ dalla tenebra fammi giungere alla luce;/ dalla morte fammi giungere all’immortalità».

Non è raro rinvenire, nei testi dei Padri della Chiesa, riferimenti ai cristiani definiti come coloro che non hanno paura della morte (aphoberoi thanatou). Un argomento rilanciato, qualche anno fa, da papa Francesco, in una delle sue omelie mattutine a Santa Marta, il 22 novembre 2016, in questi termini: «Non piace pensare a queste cose… ma si tratta del tema-verità dell’esistenza umana: la morte e la paura di morire».

Timore che può svanire, aveva proseguito, se si resta fedeli a Dio, mettendo quindi in guardia dall’inganno dell’alienazione del vivere, cioè «come se mai si dovesse perire», esortando invece a pensare a quale «traccia lascia la nostra vita».

A ben vedere, secondo il biblista M.E. Boismard, «la rivelazione divina concernente la nostra vittoria sulla morte fu progressiva… Non ci si dovrà stupire constatando che Paolo ha potuto mutare le sue posizioni avendo meglio capito, illuminato dallo Spirito, i dati effettivi del problema. Sia detto di passaggio, Paolo mi è apparso più simpatico il giorno in cui mi sono reso conto che aveva paura della morte, pur essendo persuaso che lasciando il suo corpo avrebbe ritrovato Cristo. La morte non contempla forse, nonostante tutto, una lacerazione del nostro essere?».

Resta il fatto che non esiste tema più critico e lacerante per il primo movimento cristiano – ma potremmo allargare lo sguardo e ammetterlo, per il cristianesimo di sempre – del problema della morte e della risurrezione, in particolare della risurrezione della carne. «…ma se Cristo non è risorto, è vana la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati» (1Cor 15,17): in questa considerazione paolina risiede, in effetti, il fulcro del credo cristiano.

Se non si fosse data la risurrezione di Gesù, con ogni probabilità il cristianesimo non sarebbe mai nato: la fede cristiana ha origine da quella tomba vuota, che peraltro, di per sé, non dimostra alcunché. Peraltro, ha un sapore paradossale il fatto che simboli per eccellenza del cristiano siano quasi subito diventati la croce e il crocifisso: che rischiano di nascondere il cuore del messaggio di Gesù, la sua risurrezione dalla morte.

A differenza di tanti filosofi precedenti e coevi, nella sua predicazione Gesù non si propone di elaborare alcuna teoria sulla morte (né sull’aldilà), e neppure i vangeli hanno scelto di trasmetterci le sue reazioni di fronte alle morti che si potrebbero dire normali (con l’eccezione di quella del suo amico Lazzaro di Betania, il fratello di Marta e Maria, che gli provoca commozione e turbamento, Gv 11,33).

In lui, certo, non si riscontra alcun comportamento di tipo stoico, quello sguardo sulla realtà caratteristico di chi tende a sprezzare orgogliosamente l’evento della morte; e se, da una parte, egli non apprezza le espressioni rumorose di dolore, dall’altra, sembra abbia ceduto all’emozione della perdita di un amico fraterno, lo stesso Lazzaro. Tale emozione, però, ha una sorgente assai più profonda del puro e semplice sentimento, in quanto nasce là dove sgorga la stessa vita che è Dio: Gesù è quindi nella condizione di proclamare con le parole e i fatti il proprio sorprendente dominio sulla morte.

L’analisi dei dati neotestamentari conduce a un solo messaggio risolutivo: Dio è presente qui e ora, e non abbandona mai il popolo che in lui spende la propria fiducia. Gesù è presente alla terra, fino ad amarla teneramente e intensamente: se con le parabole egli si rivela poeta della creazione, non è perché sogni ingenuamente un mondo ideale che ignorerebbe le sofferenze e la morte, ma in quanto percepisce e intende annunciare ai suoi interlocutori l’irruzione costante della vita e di ciò che chiama, sulla scorta della tradizione di Israele, regno di Dio nel qui e adesso. Un regno che possiede un’estensione inedita e inattesa, e va dall’aldilà all’aldiqua, dal futuro all’ora, più come evento che come segno.

A proposito della risurrezione, va detto che la migliore teologia vi sta riflettendo a fondo, cercando coraggiosamente di rileggere quel grande mistero nelle coordinate del nostro tempo e della nostra sensibilità culturale: è quanto si propone, ad esempio, il teologo galiziano Andrés Torres Queiruga, al quale si può rimandare per verificare lo status quaestionis al riguardo (Ripensare la risurrezione, EDB 2007).

I primi cristiani colsero quell’evento come il sigillo che Dio – quel Dio che è amore (1Gv 4,16) – decise di porre definitivamente all’esistenza di Gesù, che, a sua volta, era stata segnata nel profondo dall’amore. Perché, come rileva Luciano Manicardi, «se Gesù è risorto non è perché di natura divina, ma anzitutto perché la sua vita umana, umanissima, limitata, che ha conosciuto sofferenze e infine la morte, è stata una vita di agape, di amore fino a dare la vita».

Lorenzo Prezzi                                                  Si può recuperare qualche traccia della riflessione teologica del secolo scorso avente per tema il morire?

Brunetto Salvarani                                            Si potrebbe parlarne come di un vero e proprio ritorno di fiamma, tanto da far dire che saremmo di fronte non più a una “morta gora”, come sembrava, ma, al contrario, al focolaio di disordini della teologia del Novecento (semmai, ci dovremmo domandare perché, a una teologia così movimentata e potenzialmente stimolante, non corrisponderà una parallela ripresa di interesse a livello popolare).

In realtà, posto che la riflessione cristiana sull’aldilà non può che essere – per motivi intuibili – un insistito work in progress a tutto campo e mai definitivamente esaurito, la prima novità al riguardo, sul versante teologico, è il passaggio da un’escatologia intesa come argomentazione sulle cose ultime (il tradizionale trattato De novissimis, posto di regola in conclusione agli studi teologici) a un’escatologia affrontata sistematicamente e collegata direttamente alla storia della salvezza.

La seconda sorpresa è che, insospettabilmente, nella stagione della modernità, della scienza e della tecnologia sempre più centrali nella vita quotidiana dell’umanità occidentale, di quanto si verificherà a ogni uomo nel post mortem, e di quanto accadrà al mondo intero alla fine dei tempi, si riprende a discutere con passione da parte della teologia accademica: fino a inaugurare una fase di riflessioni destinata a protrarsi a lungo, e a coinvolgere alcune delle menti migliori delle varie Chiese. Su due linee, fondamentalmente, su cui i teologi, alla fine, tendono a concordare.

Da una parte, il cristocentrismo assoluto dell’escatologia: è la risurrezione di Gesù Cristo l’evento storico per eccellenza, e la parusìa non sarà altro che il dispiegarsi definitivo della stessa risurrezione nell’umanità e nel cosmo; ma un’iniziale partecipazione a tale evento avviene sin d’ora, mediante l’azione dello Spirito.

Dall’altra, il suo antropocentrismo: l’escatologia non va intesa come una fisica o una topografia del futuro (i Novissimi non sono spazi né ambienti!), ma come l’incontro con Gesù risorto che, a tempo debito, coinvolgerà tutto l’uomo e tutta l’umanità. Il mutamento di sensibilità è evidente: dalla considerazione degli eventi finali, delle cose ultime considerate in se stesse, al privilegiare la realtà ultima in quanto tale, per cui l’intera storia umana è ora vista nella prospettiva del suo futuro finale.

Fra i tanti teologi qui citabili, mi limito a ricordare la poderosa riflessione dello svizzero Hans Urs von Balthasar, definito da Henri de Lubac «l’uomo più colto del nostro tempo», che tornerà più volte sulla questione escatologica. Ciò che lo muove nell’occuparsene è, in primo luogo, la convinzione secondo cui non sarebbe più differibile per la teologia il compito di liberare l’escatologia dalle rappresentazioni cosmologiche e dal dominio del figurativo, nella certezza che essa non abbia ancora esaurito di esplorare compiutamente la considerazione di Agostino per cui «il nostro luogo, dopo questa vita, è Dio stesso».

Ed è ancora lui a dichiarare apertamente, già nel 1960, che nell’ufficio escatologico, «nonostante le tendine ancora abbassate e l’insegna: Chiuso provvisoriamente a causa di ricostruzione, c’è un’intensa attività in sviluppo»; anzi, «fa le ore straordinarie».

Il piano scelto da von Balthasar per iniziare il suo (gravoso, indubbiamente) proposito è quello antropologico: nel senso che gli sembra necessario partire da Dio e dalla Trinità perché emerga saldamente il valore delle affermazioni sull’escatologia capaci di parlare all’uomo d’oggi e alla cultura attuale.

Infatti, sostiene in un passaggio decisamente ispirato: «È Dio il fine ultimo della sua creatura. Egli è il cielo per chi lo guadagna, l’inferno per chi lo perde, il giudizio per chi è esaminato da Lui, il purgatorio per chi è purificato da Lui. Egli è Colui per il quale muore tutto ciò che è mortale e che risuscita per Lui e in Lui».

Ogni elemento dei Novissimi, secondo von Balthasar, non è uno spazio né un luogo, bensì una situazione antropologica, una dimensione specifica del rapporto fra Dio e l’uomo.

Vale la pena di segnalare che, negli ultimi anni di vita, von Balthasar sarà coinvolto – dopo la pubblicazione nel 1984 di un suo articolo comparso sull’Osservatore Romano, quotidiano della Santa Sede, intitolato Piccola catechesi sull’inferno – in una discussione piuttosto aspra che vedrà protagonisti tanto riviste specializzate quanto singoli teologi.

Qui von Balthasar sceglie di ribadire con convinzione che, alla fine, è legittimo sperare per tutti: «L’amore non può che sperare la riconciliazione di tutti gli uomini in Cristo. Una simile speranza illimitata è cristianamente non solo permessa, ma comandata».

Lorenzo Prezzi                                            Come comporre il sogno moderno dell’eternità e il “dire la morte” delle fedi per capire la vita?

Brunetto Salvarani                                      Negli ultimi decenni, la cultura occidentale ha elaborato una serie di teorie che, in sintesi, si potrebbero ricondurre all’ipotesi di lavoro di un uomo post-mortale.

È quanto sostiene, fra gli altri, in un libro di vari anni fa, lo storico Aldo Schiavone, a partire dagli eccezionali progressi fatti dalla tecnica, Storia e destino (Einaudi 2007). La sua tesi è che la civiltà occidentale ci avrebbe condotto, attraverso l’estremo, vertiginoso tratto del suo cammino, sul bordo finale di una soglia oltre la quale ci attende un passaggio sì denso di rischi, ma anche di straordinarie opportunità.

Da quell’orlo, l’esperienza del rapporto fra passato e futuro – l’implacabile freccia del tempo – si manifesterebbe all’improvviso sotto una forma del tutto inedita, che richiede un esercizio di ragione e di realismo, capace di separare previsione e apocalisse, e di rivoluzionare completamente noi stessi.

L’irradiamento della tecnica, infatti, è ormai totale e generalizzato, e coinvolge al massimo l’insieme del nostro vissuto: dalla politica al lavoro, fino alla costruzione delle personalità individuali. Uno scenario nel quale è assai probabile che le nostre generazioni, e ancor più quelle dei nostri figli e nipoti, potrebbero addirittura essere le ultime a fare i conti in modo generalizzato con l’esperienza della morte, nei termini in cui la nostra specie l’ha incontrata finora, culturalmente elaborati mediante uno sforzo durato migliaia di anni: «Voglio dire la morte come un evento inevitabile, spontaneo e indeterminato, che si produce sempre in modo (relativamente) imprevisto e repentino – anche se a volte lungamente e tormentosamente preparato e atteso. La morte, insomma, come fatto naturale assoluto, enigmaticamente simmetrico all’opposta naturalità del nascere del tutto sottratto al nostro controllo e al nostro potere di valutazione e di scelta».

Di società post-mortale, in realtà, dunque, si sta discutendo da tempo. Uno dei contributi chiave al dibattito in corso è offerto dalla sociologa canadese Céline Lafontaine, significativamente intitolato, nella traduzione italiana, Il sogno dell’eternità (Medusa 2009).

È Lafontaine che ha coniato l’espressione post-mortale, in riferimento alla nostra società. Dal suo punto di vista, senza dubbio suggestivo, la nozione di post-mortalità riguarderebbe la volontà ostentata di vincere – grazie agli avanzamenti della tecnica, appunto – la morte, di vivere senza invecchiare, prolungando indefinitamente l’esistenza.

Uno scenario in cui si mescolano l’aumentata speranza di vita media concessa a donne e uomini del tempo presente (soprattutto occidentali) e i successi di una ricerca medico-scientifica che affronta sempre più spesso la morte come una malattia da rimuovere e debellare, e che rende attualmente l’ascolto della parola della morte sempre più raro e difficile.

Così, emblematicamente, lo stesso termine morte sembra espulso dal linguaggio comune: chi muore, oggi, è scomparso, o volato in cielo, o si è spento, oppure ci ha lasciato e non è più tra noi, è mancato o passato a miglior vita, e così via.

Eufemismi in cui, da una parte, traspare evidente il tentativo di esorcizzare collettivamente un’esperienza che spaventa e che – come già accennato – non sappiamo più affrontare con la ritualità e la gestione familiare e comunitaria che fino a un paio di generazioni fa erano la risposta comune a una situazione percepita come altrettanto normale; mentre, dall’altra, verosimilmente, si tratta appunto dell’effetto della società post-mortale, per cui la morte non è più una vicenda eloquente, in grado di far pensare e riflettere (neppure sul versante, banale ma così innegabilmente vero, del detto popolare «oggi a me, domani a te»…).

L’impressione è che non abbiamo più nessuna disponibilità ad ascoltarne il richiamo a fare i conti con la nostra naturale finitezza; con l’irripetibilità e definitività delle nostre scelte e azioni.

L’obiettivo del mio libro – Dopo – è in questa chiave: denunciare la carenza di riflessione su quella che tradizionalmente viene definita escatologia all’altezza dei tempi, nel quadro di una cultura della postmodernità e per un cristianesimo ormai post-metafisico.

Siamo – ritengo – all’inizio di un cammino inedito anche per le diverse religioni, in quello che papa Francesco ama definire un cambio d’epoca, ancor più che un’epoca di cambiamenti.

Tra le piste possibili, mi affascina l’ipotesi di lavoro suggerita, tre quarti di secolo fa, dal teologo luterano Dietrich Bonhoeffer che, dal luogo di prigionia in cui era stato costretto dal nazismo, trovò il coraggio di mettere il dito sulla piaga, inaugurando in tal modo un capitolo inedito nella riflessione cristiana sull’aldilà.

Dietro il suo epistolario contenuto in Resistenza e resa, scritto in un momento drammatico della crisi europea del Novecento, affiorano domande radicali che dovremmo fare nostre. Ha ancora senso il cristianesimo in una situazione in cui gli antichi novissimi sembrano assenti? Quale messaggio rimane? Può darsi un cristianesimo non religioso proponibile all’uomo moderno?

A ben vedere, siamo nel cuore di un paradosso: a dispetto del fatto che sulla base delle parole e dei gesti di Gesù è nata la religione cristiana, è sempre più evidente che il suo messaggio non propone necessariamente una lettura religiosa della realtà. Anzi, i vangeli non narrano la fondazione di una nuova religione, ma la generazione di una nuova umanità. Nell’aldiquà, e non nell’aldilà. Nella fedeltà alla terra, prima ancora che al cielo…

Come scriveva lo stesso Bonhoeffer, in una lettera del 30 aprile 1944 rivolta all’amico Bethge: «Per me il discorso sui limiti umani è diventato assolutamente problematico… Io vorrei parlare di Dio non ai limiti, ma al centro, non nelle debolezze, ma nella forza, non dunque in relazione alla morte e alla colpa, ma nella vita e nel bene dell’uomo. Raggiunti i limiti, mi pare meglio tacere e lasciare irrisolto l’irrisolvibile… La Chiesa non sta lì dove vengono meno le capacità umane, ai limiti, ma sta al centro del villaggio».

 

Umiltá e libertá

Premessa

di Piero Murineddu

Dopo la nota recente vicenda legata al monastero piemontese di Bose, tentativo innovativo ma “problematico” , come inevitabilmente lo sono tutte le esperienze coraggiose, in questo caso di far convivere monaci di entrambi i sessi e di diversa tradizione religiosa, é il primo articolo che leggo di Enzo Bianchi, che del monastero ne é stato fondatore e animatore. Non voglio soffermarmi a nessuna considerazione in merito, se non dire che sono lieto che ci sia stato un accordo per il bene di tutti, per chi nel monastero ci vive e per i tantissimi che lo considerano un importante punto di riferimento, e non solo per l’aspetto spirituale.

La libertá é l’argomento trattato in questo articolo, pubblicato all’inizio del mese in corso, e come sempre é degno di grande considerazione il pensiero di colui che nel passato, prima di decidere d’intraprendere la vita eremitica divenuta man mano vita monastica e comunitaria, ha avuto una militanza politica.

“Nel processo di scelta la nostra libertà non è mai totale”, afferma Enzo.

La libertá quindi, un primario desiderio covato nell’intimo probabilmente di ogni essere pensante, ma così difficile da vedere realizzato.

Non rimane che leggere con estrema attenzione. La conseguente riflessione individuale andrá sicuramente ad edificazione personale, umana in tutti i suoi aspetti.

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Quell’umiltà che agevola la libertá

di Enzo Bianchi

Se vogliamo vivere una vita umana degna di questo nome, ogni giorno dobbiamo trovare tempo per riflettere, per assumere interiormente le esperienze che viviamo.

In questo cammino alla scoperta di ciò che abita il nostro cuore, non si deve avere paura di scoprire in sé lati enigmatici, limiti e fragilità sul piano affettivo, morale, psicologico… Tutto questo, insieme alle ricchezze e ai doni che ci sono propri, fa parte dell’eredità umana ricevuta da ciascuno di noi.

Le debolezze, gli enigmi, le ferite che ci abitano, non sono ostacoli a un’esistenza felice, ma spesso nel corso degli anni si rivelano una grande ricchezza. Ci aiutano a entrare in relazione con gli altri e a conoscerli; ci aiutano a essere umili, cioè ad aderire all’humus, alla terra, assumendo con realismo la nostra verità intima e la nostra povertà fondamentale.

Questo sforzo di consapevolezza ha uno scopo fondamentale: l’acquisizione della libertà. E l’esercizio della libertà implica la capacità di assumere scelte che siano pienamente nostre, al momento opportuno.

Occorre però sgomberare il campo da un equivoco: nel processo di scelta la nostra libertà non è mai totale. Su ognuno di noi, infatti, influiscono forze complesse e diverse: la famiglia, l’ambiente, la cultura, ecc. Possiamo però parlare di una libertà di azione, di una libertà di scelta che compete a ciascuno e che esprime il suo grado di soggettività. E la libertà non coincide sempre con ciò che sembra più facile o immediato: l’animale è se stesso seguendo semplicemente l’istinto; l’essere umano, invece, è chiamato a un vero e proprio compito di umanizzazione.

Ancora, le scelte non si possono lasciare ad altri, ma non possono nemmeno essere prese sotto l’impulso emotivo passeggero. Esse richiedono l’esercizio della riflessione e del discernimento, plasmati dalla libertà: solo così possiamo evitare il rischio di restare degli eterni indecisi, in balìa degli eventi. Certo, scegliere è doloroso: de-cidere (alla lettera, “tagliare”) presuppone dei “no”, richiede di lasciare da parte alcune possibilità, di riconoscere che non “tutto” è alla nostra portata. Quando però si prende una decisione importante per la propria vita, non lo si fa pensando ai tanti “no” che essa comporta, ma piuttosto al “sì” che ci spinge a privilegiare una cosa rispetto ad altre.

In ogni caso, giunge sempre un’ora in cui si deve scegliere, e le spinte della vita sono tali che non ci si può sottrarre: anche non scegliere e accettare passivamente una situazione è di fatto una scelta. Ma se la scelta è fatta con intelligenza e amore, allora è molto più ciò che si guadagna rispetto a ciò cui si rinuncia.

Fatta la scelta, infine, occorre assumerla e perseguirla con lucidità e fedeltà. In qualche misura, occorre rinnovare la scelta di fronte alle difficoltà e alle tentazioni di lasciar perdere o smentire la scelta stessa. Bisogna avere il coraggio di dire: “Ho scelto di conseguire questa priorità, e a ciò dedico tutto me stesso”. Solo così nascono responsabilità e capacità di costruire una vita come storia d’amore e opera d’arte.

(altro…)

Il Tatto, arte che illumina le giornate

di Enzo Bianchi. fondatore del monastero di Bose

Qual è stata la rinuncia più grande nei mesi di “clausura” e di distanza richieste per fermare il contagio? Nel conversare con amici, al telefono o sui social, fin dall’inizio è emerso che la fatica maggiore era il non poter più neppure dare la mano a chi si incontrava, tantomeno un abbraccio.
Già nei giorni precedenti la “clausura” questa distanza veniva richiesta e, anche se di malavoglia, ci sorridevamo di lontano, alzavamo la voce per farci sentire, senza avvicinarci. Non è stato facile imparare di colpo la regola della non-prossimità. Anche nella mia convivenza-comunità abbiamo obbedito a queste norme: posti a tavola distanziati, nessun abbraccio nella liturgia, niente segni di attenzione e di confidenza che mettessero in funzione il senso del tatto.
Per spontanea reazione, siamo diventati più che mai digitali per comunicare, per non sentirci soli, in una sorta di bulimia di contatti, pur virtuali. Paradossale: negazione del contatto corporeo e folle bisogno di essere sempre “in contatto”, molto più di quanto facevamo prima (che già non era poco!).
L’ho verificato anch’io: molti che non sentivo o vedevo da tempo sono tornati a cercarmi in questo modo. Abbiamo dunque vissuto senza contatti fisici, reprimendo l’affezione e l’empatia che solo l’incontro personale può dare. E siamo stati feriti dal sapere che i malati andavano verso la morte isolati e privati della possibilità di contatti fisici, quando più ne avrebbero avuto bisogno.
Tutto ciò mi ha fatto riflettere sul tatto, il senso più “antico”, attivo in ciascuno di noi fin dalla condizione di feto nel grembo materno. Il tatto è sempre in esercizio per ogni animale vivente. Ogni giorno della nostra vita, fino a quello della morte, quando qualcuno, toccandoci, dirà: “Non respira più!”.
Il tatto è reciproco, si accende grazie al con-tatto. È mediante il tatto che realizziamo la relazione del corpo con il mondo: il nostro corpo tocca e prende qualcosa dal mondo che, a sua volta, è tangibile. Ed è il tatto che, più degli altri sensi, attesta l’esperienza certa, secondo l’espressione comune: “Toccare per credere”.
Il tatto ci dice in particolare dove l’altro si situa, vicino o lontano, appena sfiorato o stretto, abbracciato; è il senso che più ci accende di gioia e piacere nelle relazioni, fino all’esultanza. Per questo abbiamo bisogno non solo di scambiare parole o sguardi ma di sentire reciprocamente i corpi accanto, di accarezzare o imprimere un bacio. Nell’esercizio del tatto le mani sono il linguaggio comune, ben oltre le parole. Quale ineffabile arte la carezza!
Quando – speriamo presto – torneremo a stringerci la mano, ad abbracciarci e a baciarci, cerchiamo di essere consapevoli di questo senso e della sua qualità decisiva per la nostra vita. Senza demonizzare la comunicazione virtuale, così utile in questo tempo di pandemia, torniamo a usare le mani e il corpo per vivere la comunicazione come opera d’arte. E il cuore accompagni il tatto, affinché l’epidermide viva e vibri grazie all’arte consapevole del toccare, capace di illuminare le nostre giornate.
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La Musica, ah la musica !

di Ezio Bosso

(da “MicroMega” del 5/2019)

Ho iniziato lo studio della disciplina musicale all’età di quattro anni, ma alla musica mi sono avvicinato anche prima. Praticamente, ho imparato a leggere le note prima delle parole. E questo studio è la base di quello che sono oggi. È la conferma di come quella disciplina, che a volte può essere complessa e faticosa per un bambino, sia stata per me un’esperienza fondante, meravigliosa. La musica è stata di fatto tutta la mia vita. E devo ringraziare quella zia che mi vietava di suonare il pianoforte prima di studiare le note: «Se non impari a leggere la musica», mi diceva, «non lo tocchi». Perché educazione è anche questo: ottenere qualcosa con il lavoro e non per capriccio. E la musica è una forma educativa molto ampia, sempre basata sul merito. Un concetto importante, da non sottovalutare.
Data anche la mia esperienza personale, ritengo che la musica sia un elemento formativo indispensabile fin dalla scuola materna. E questo perché noi siamo naturalmente composti della materia dei suoni: abbiamo il senso del ritmo fin da quando siamo molto piccoli, fin dall’età di uno o due anni. E l’aspetto ludico del ritmo, per i bambini, è di fondamentale importanza, fa la differenza anche dal punto di vista fisico. Come dimostrano studi scientifici, la capacità di convogliare il ritmo aiuta anche a camminare meglio. Nell’età evolutiva è un aspetto fondamentale per l’equilibrio della crescita. E ugualmente importante è coltivare l’ascolto e lo stupore.
L’associazione “Diamo il La” di Milano, di cui sostengo l’attività, ha il merito di portare tutto questo nelle periferie urbane. Perché, a differenza delle scuole dei ricchi, che possono contare anche sulla presenza di musicoterapeuti, nelle periferie mancano spesso gli strumenti per realizzare questo lavoro. Tuttavia, che si utilizzi un registratore o uno xilofono, l’accesso al suono, alla produzione del suono associata all’ascolto complesso, è un aspetto fondamentale della formazione e della cultura, lungo tutta la nostra esistenza.
Del resto io sostengo tutti i progetti miranti a promuovere l’accesso alla musica come strumento di benessere sociale, come valore fondante di una società migliore. In particolare, sono il testimonial dell’associazione Mozart 14, fondata da Claudio Abbado, impegnata a portare il canto corale e la musicoterapia nei reparti di terapia intensiva, tra i bambini che hanno problemi di salute, e nelle carceri, tra i detenuti. È la dimostrazione di come la musica possa e debba essere un modo per migliorare la vita, per cambiarla e anche per salvarla.
Il potere della vibrazione, non a caso, è ben noto alle neuroscienze, essendo noi fatti proprio di vibrazioni. E non mi riferisco a teorie come quella della frequenza a 432 Hz 1, ma proprio al fatto che la musica, al di là del benessere consolatorio che produce, svolge una funzione vera e propria nell’attivazione delle cellule neuronali.
La prima fase dell’insegnamento della musica nelle scuole dovrebbe consistere nell’accesso all’ascolto e poi nella produzione del suono e del ritmo. È come insegnare una lingua: è per questo che i bambini e i ragazzi devono apprendere come sono le note e come funzionano. Dovrebbe essere più facile insegnare la musica che le parole ed esistono anche alcuni esperimenti in tal senso. E invece mi capita di sentire cose aberranti, tipo l’idea di far cantare al saggio musicale l’ultima canzone di Sanremo. Questa, in realtà, è diseducazione alla musica, perché la musica esige sempre la meritocrazia, la capacità di impegnarsi per sentirsi felici, non per soddisfare le voglie della zia.
Ben venga il flautino, allora – malgrado le polemiche sollevate da grandi musicisti – perché mette tutti sullo stesso piano, annulla le differenze sociali, consentendo anche a chi non ha i soldi di ricevere una prima educazione al suono. Non tutte le famiglie, infatti, possono permettersi di comprare un pianoforte.
L’ho suonato anch’io il flautino, proprio perché avevo bisogno di uno strumento a portata di mano e a basso costo. E penso che il fatto che tutti possano avere nelle proprie mani uno strumento musicale sia meraviglioso. E non impedisce a un bravo maestro di suggerire alla famiglia di un bambino particolarmente dotato di fargli continuare lo studio della musica.
Prima di pontificare sui flautini, peraltro, bisognerebbe riflettere sul ruolo fondamentale che dovrebbe avere la formazione degli insegnanti… Io poi introdurrei per legge l’educazione musicale perlomeno in tutta la scuola dell’obbligo, dunque fino ai 16 anni. Penso che dovrebbe essere vista come una materia che collega in un unico percorso qualunque indirizzo si voglia poi seguire. Una costante che potrebbe anche far sì che non ci si perda di vista nei cambi di istituto.
Del resto, poiché la musica, essendo un grande collante sociale, è associabile a tutto, persino al cibo, potrebbe rappresentare un collegamento tra una materia e l’altra, rendendole meno avulse ed evitando il rischio di cadere in nozionismi privi di senso. Rischio che oggi, peraltro, riguarda l’educazione nel suo complesso perché, nel momento in cui metto una crocetta sulla base del 33,3ˉ per cento di possibilità di indovinare la risposta giusta, l’educazione è morta. Io sono un umanista, continuo a sognare un mondo che guarda alle cose, non che tenta la sorte.
Anche se è solo da un paio d’anni che passo un po’ più di tempo in Italia, sono convinto che, in questo paese, il principale ruolo educativo in materia, a partire dagli anni Cinquanta, lo abbia svolto la televisione. E certo, se per musica si intende soltanto un genere, è evidente che non potremo fare molta strada.
Ritengo invece che, nell’insegnamento musicale, la priorità vada assegnata alla musica classica, che è quella in cui affondano le nostre radici, il fondamento della nostra identità. È soprattutto attraverso di essa che si sviluppa quell’insieme di curiosità e di approfondimento che può valere poi per qualsiasi altro genere, impedendoci di restare schiavi dell’ultima moda o dei gusti di pochi. Ecco, l’educazione non è questione di gusto, ma è sviluppo della curiosità.
Le note le abbiamo inventate in questo paese grazie a un signore che si chiamava Guido d’Arezzo. Ed è da qui che possiamo partire, considerando che da quelle note è nata tutta la musica a cui ci riferiamo. Certo, noi pecchiamo sempre un po’ di egocentrismo, perché in realtà siamo solo una parte del mondo: in India, in Pakistan, per esempio, il sistema di notazione è completamente diverso. Ed è importante che ciò venga detto, perché chi lo sa che poi un bambino non ci si appassioni… Penso che utilizzare la storia insieme alla musica, e la musica insieme alla storia, possa costituire un percorso formativo fondamentale per la formazione di un adolescente. E in questo percorso renderei obbligatorio in tutte le scuole lo studio di Pierino e il lupo di Prokof’ev, un testo determinante per la crescita di un bambino. E anche di un adulto.
Rispetto al metodo di insegnamento, penso sarebbe presuntuoso da parte mia dare indicazioni, non essendo un pedagogista e non occupandomi di educazione musicale in senso stretto. L’Italia, però, vanta una pedagogia musicale avanzatissima. Torino, per esempio, è all’avanguardia in questo campo. In ogni caso, esistono metodi assai efficaci, come il meraviglioso e inclusivo metodo Orff, grazie a cui qualsiasi bambino può imparare le note attraverso una partecipazione attiva, anche solo con un piattino, e condivisa con gli altri. Perché lo stare insieme è di fondamentale importanza. E tutto ciò serve anche a superare le proprie difficoltà, le proprie paure. Ma questo, per quel che mi riguarda, vale a qualsiasi età.
Ai miei studi aperti vengono anche bambini dai tre-quattro anni ai dieci, che spesso la sanno più lunga dei trentenni, mostrando una maggiore capacità di risolvere i problemi. Alla fine quello che ha luogo è uno scambio tra bambini, adolescenti, professionisti. Si tratta in fondo di una questione di linguaggio, di vocabolario. Io sono attento a non trattare i bambini da deficienti. Sono piccole persone, che imparano anche in fretta, ed è così che mi rapporto con loro.
Continuo a vedere la società come una multiformità di differenti età, di differenti esistenze, di differenti singolarità. È ovvio che a un bambino piccolo non farò ascoltare tutto Wagner. Di musica ce n’è tanta: Bach, Monteverdi, Palestrina… Se io fossi un bambino, per esempio, vorrei che mi raccontassero storie. Una cosa che peraltro mi piace anche oggi.
La musica classica è una forma oggettivamente meritocratica nel senso più alto del termine: se uno non arriva significa che non è ancora arrivato. Spinge alla cooperazione, non all’esclusione, e spesso cura anche il dolore e riappiana le differenze sociali. Più ancora che uno strumento di inclusione, è uno strumento di parificazione. E invece è stata resa qualcosa di elitario. È sbagliato. È una cosa con cui mi scontro ancora oggi.
La musica è fondamentale, perché elimina pregiudizi e difetti (persino fisici), cancella le età e lenisce i dolori di qualsiasi forma siano. Lo dico per esperienza personale: malgrado le mie debolezze, fragilità, stranezze non venivo denigrato, ma suscitavo curiosità perché emettevo un suono che affascinava chi mi stava intorno. E di fronte al potere così grande della musica, è evidente che ci voglia una grande responsabilità. La musica non è un linguaggio universale, ma un patrimonio universale. Non un bene comune, ma una necessità comune. E dunque se ne deve garantire l’accesso a tutti.

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