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LE (DIS)GUSTOSE IDEE DEI NOSTRI SPENTI POLITICHETTI LOCALI

 

di Piero Murineddu

Ed ora, a Sossu, viene partorita quest’altra “geniale e rivoluzionaria” idea dell’Università del Gusto. E dove verrebbero svolte le attività attinenti, oltre che nel posto deputato alla Cultura per eccellenza qual’è il Palazzo Baronale, dove per tanto tempo i signorotti dei tempi andati facevano subire ogni tipo di vessazione ai popolani sussinchi e e di tutta la zona? Precisamente nei locali che fino all’altro ieri servivano come Centro di Aggregazione Sociale, dove i ragazzi e i non più giovanissimi vi si recavano per stare insieme e per occupare nel miglior modo possibile il loro tempo, facendolo credo ottimamente. A parte qualche apertura sporadica nel periodo carnevalesco, questi spaziosi locali è gia da molto che rimangono desolatamente chiusi, dopo che per svariatissimo tempo hanno risuonato delle grida giocose della gioventù e l’aria si riempiva dei gustosi profumi ( questi si!) di dolci e altro preparato dalle mani esperte delle nostre anziane. Tutto finito. Tutto svanito nel nulla, e i nostri piccoli politici non sono riusciti finora a tentare di trovare un modo perchè il posto venisse restituito al legittimo uso dei proprietari, i cittadini. Adesso si parla addirittura di Università del Gusto. Guardate. Sarà questa una cosa intelligente e ispirata, ma a me tutti quei ragazzi che son stati impediti dal frequentare quel Centro di Aggregazione e tutte quelle donne che vi si ritrovavano insieme per sentirsi ancora vive e utili, provocano un grosso magone. Al contrario, questi pseudo politici che arrancano nel cercare di dare una parvenza di governo alla nostra cittadina di matti, fanno girare vortiginosamente i ……ciondoletti pendenti. Università del Gusto? Auguri di grandi successi e di grandi titoloni sui giornali. E cosi sia

 

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Una pasquetta particolare

di Piero Murineddu

Bellissima giornata quella trascorsa lunedì di “Pasquetta”, ospiti del vecchio e sempre amIco Tonino, chiamato “padre” dai locali cannigionesi. Infatti, insieme ad un altro confratello della famiglia di San Vincenzo De Paoli, Pietro Pigozzi, Tonino si occupa della locale parrocchia, sostituendo il sacerdote che per tanti anni ha svolto il ruolo di parroco in questa località nata agli inizi del Novecento come un villaggio di pescatori, nella parte più interna sinistra del profondo golfo di Arzachena, nella costa nordest della Sardegna. Col tempo il luogo sta acquistando sempre più sviluppo urbanistico, forse troppo, col rischio che l’antica naturalezza del territorio venga sacrificata alle sempre più pressanti esigenze di uno espansionistico sviluppo turistico non sempre rispettoso delle caratteristiche originarie del luogo Ovunque ti muovi, vedi sorgere nuovi insediamenti edilizi. Belle costruzioni, in verità, il più delle volte ben inserite nell’ambiente e probabilmente si considera anche “beato” chi se le può permettere, purtuttavia la sensazione di esagerazione a me personalmente è rimasta.

La temperatura primaverile ha permesso la buona riuscita della bella festa, con musica, molto movimento di gente,ristoranti e gelaterie frequentatissimi.Ma senza nulla togliere a tutto l’aspetto festaiolo, la cosa che sicuramente mi è rimasta più impressa e che non avevo per niente previsto, è stato l’incontro intenso e commovente fra due vecchi compagni di scuola e di seminario, dopo forse una cinquantina di anni che non si vedevano più: il parroco “emerito” don Gavino Denau e Giuseppe Murineddu, il nostro caro amico che ci ha fatto anche da instancabile e sicuro autista durante l’intera giornata e il tragitto, soprattutto per me che i lunghi viaggi iniziano a pesarmi. Nonostante la mano insicura e probabilmente emozionata di Tonino non abbia reso nitidi i contorni degli scatti delle due foto, si coglie tuttavia la pienezza e la gioia del felice abbraccio che inevitabilmente ha coinvolto piacevolmente tutti i presenti. Per discrezione, li abbiamo lasciati soli a ricordare fatti, persone e circostanze di quegli antichi anni di seminario vissuti insieme a Cuglieri. Un momento “sacro” che abbiamo lasciato che si vivessero giustamente da soli.

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Durante l’intera giornata abbiamo incontrato vari sennoresi e anche sorsesi che a Cannigione hanno deciso di andare a vivere, magari per portare avanti la loro attività lavorativa. Siamo stati contenti di questi incontri e di altre persone conosciute.

Ringraziamo il caro Tonino per la cordiale e l’amichevole ospitalità.

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Seminatori di grano

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di Gianmaria Testa ( (17/10/ 1958 – 30/3/2016)

Ho fatto in tempo, da bambino, a imparare la semina del grano a mano. Era praticata ormai soltanto nei campi piú piccoli e difficili da lavorare con un trattore e la macchina da semina. Ci si metteva il sacco di iuta a tracolla con l’apertura verso la mano destra e poi si partiva.

Al primo passo s’infilava la mano nel sacco cercando di prendere sempre la stessa quantità di grano, al secondo si faceva un largo gesto con il braccio e si apriva il pugno in maniera da spargere i semi in modo uniforme davanti e a lato del proprio corpo in movimento.

A dirlo così sembra facile, in realtà quello è stato forse il lavoro piú difficile che mi sia capitato di fare quando lavoravo con mio padre, e non credo di essere mai veramente riuscito a impararlo bene.

Richiedeva coordinazione, calma, attenzione, ritmo, passo regolare, mano ferma e testa sgombra da altri pensieri. Tutto doveva confluire in quel gesto ripetuto, in quel camminare dritto e senza esitazioni. C’era qualcosa di definitivo e fiero, e c’era anche un’intrinseca speranza di raccolto propizio.Mi rendo conto soltanto adesso che la semina del grano a mano assomigliava a una preghiera, una specie di rosario fatto di gesti invece che di Avemarie e Paternoster.

Era come una lunga e sudata giaculatoria. Ed era un lavoro da uomini adulti, gente che avesse masticato la fatica della terra, gente che nelle mani dure e nella schiena avesse memoria di quanto fosse costato portare quella terra a essere pronta a custodire, e poi a crescere, il grano.

Forse è per questo che mio padre, che in genere s’innervosiva in fretta, sul seminare a mano è stato piuttosto paziente. O forse semplicemente sapeva che quel mondo di passi e bracciate stava per finire e non sarebbe piú stato il mio.

Ho incontrato e riconosciuto nel passo e negli occhi di certi anziani contadini quel piglio da seminatori di grano e l’ho ritrovato anche nei personaggi di uno dei quadri simbolo del Novecento italiano, Il quarto stato di Pellizza da Volpedo.

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I due uomini e la donna con il figlio in braccio che avanzano in testa a un corteo di braccianti, tutti hanno visto in quegli occhi la determinazione e la fierezza di chi sa di avere delle ragioni da difendere e sta andando a farle valere. Anch’io naturalmente, ma piú di ogni altra cosa mi ha sempre colpito il passo, quell’incedere che a me sembrava da seminatori di grano.

A Volpedo, nel luogo dove Giuseppe Pellizza ha dipinto il suo quadro, hanno messo delle grandi pietre piatte in mezzo ai sassi tondi dell’acciottolato, segno indelebile delle posizioni nelle quali si trovavano i modelli che il pittore aveva ritratto.

Di alcuni di loro, grazie agli appunti di Pellizza, si conoscono nomi e cognomi, la donna era sua moglie Teresa, l’uomo al centro si chiamava Giovanni Zarri e faceva il muratore, l’uomo a sinistra, Clemente Bidone, era un reduce della Terza guerra d’indipendenza.

I modelli, regolarmente pagati dal pittore, posarono per molti giorni sotto il sole nell’estate del 1898 in piazza Malaspina, scelta non a caso in quanto sede di un palazzo padronale verso il quale il corteo idealmente si dirigeva a rivendicare giustizia.Ma tutto questo l’ho scoperto dopo, anche grazie all’ausilio di un gentile e appassionato volontario del Museo Giuseppe Pellizza.

Quel quadro invece mi accompagna da sempre, da quando lo vidi per la prima volta riprodotto in un libro di testo alle medie. E sempre ci ho trovato qualcosa di familiare, addirittura un sentimento di déjà-vu, come mi è capitato soltanto leggendo certi romanzi di Fenoglio.

In questi ultimi anni, però, alla sensazione di familiarità se n’è aggiunta un’altra.

Il quarto stato è diventato per me un termine di paragone fra quella moltitudine in cammino e altre moltitudini contemporanee, anch’esse in cammino, ma senza quel passo e quello sguardo, perché a muoverle non è una volontà di giustizia, a muoverle è la disperazione di chi non ha piú niente da perdere, la piú forte delle energie.

MARIA CATERINA, PINA, ANTONIETTA e il “mistero” della donna con la brocca

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di Piero Murineddu

Bellissimi e molto istruttivi gli scambi di ricordi, di nomi e di fatti che una foto può provocare. Come in questo caso, in cui si vede su “Palatzu Etzu” a Sennori, conosciuto come palazzo di Rosa Gambella, anche se questa famiglia – com’è precisato dall’articolo che accompagna la foto – non vi ha mai abitato.

Nella piacevole conversazione che segue all’immagine, Maria Caterina Carboni ipotizza che la signora della foto possa essere la madre di un suo parente, Minnia Branca, che rimasta vedova molto presto, tra le altre cose, per poter campare i suoi tre figli, lavava i panni di altre famiglie, dato più che la sorella Rosa, senza figli, abitava proprio in quel punto.

Informata dalla madre, che comprensibilmente conserva maggior memoria di ciò che son stati i tempi passati, l’interlocutrice di Maria Caterina, Pina Pazzola, che è anche l’autrice della storia –leggenda che ricostruisce la vicenda di questa bella e ricca nobildonna morta in oscure circostanze, precisa che lì abitava Giovanna Rizzu, madre di “Pibarone su jogante”, mentre poco più in su abitava tata Pinna, madre di “Cagalufrescho”.

A questo proposito, interviene Antonietta Codrignani, precisando che Giovanna Ricci era la sua bisnonna, madre di Maria Satta, sua nonna paterna. “Pibarone” era invece suo nonno, arrivato da Imola al seguito del mitico circo Zanfretta. Ed ecco che al soprannome gia esistente se ne aggiunge un altro, “su jogante”, sicuramente per distinguerlo in modo più preciso da altri.

Intervenendo ancora Maria Caterina sulla zia Rosa, ricorda le sgridate ai bambini che uscivano dalla “sede” parrocchiale se si permettevano di sedersi sui suoi gradini.

Insomma, una breve conversazione che diventa una pagina di storia locale.

 

 

Due piccole considerazioni

La prima è a proposito del “Palatzu Etzu” (Pina Pazzola) e “Palatu Ezzu” (Antonietta Codrignani). Personalmente la presenza della “t” per rafforzare la zetta non riesco a farla mia. Ma è il vecchio problema dello scrivere nella parlata locale: in assenza di una grammatica ben definita, si rischia un “anarchico” soggettivismo. Magari in questo, il prezioso Tonino Rubattu può essere di valido aiuto.

La seconda considerazione riguarda i bambini che vengono sgridati, o meglio venivano, quando ancora si giocava per le strade. Non solo e non sempre, ma spesso sono (erano) le donne senza figli a farlo. In questo caso zia Rosa, la quale era sicuramente una bravissima persona. Probabilmente succedeva perché non abituate a dover contenere la giusta esuberanza dei ragazzi. Comunque, quanto mi mancano le allegre chiassate per le strade e i bisticci, spesso anche fra mamme per difendere il proprio figliolo che – guarda un po’ – aveva sempre ragione…..aveva!

(la foto e il post son tratti dalla pagina  FB “Sennori…e dintorni”)

ANDREA COSSU, l’uomo dallo spirito artistico arrivato da Ittiri

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di Piero Murineddu

Che altro poteva fare il giovane Andrea, ventenne di Ittiri, appena si trovò davanti quel bellissimo viso illuminato da quei fantastici occhi ed impreziosito da quel dolce sorriso di Luisa, allora poco più che quattordicenne, se non innamorarsene a primissima vista?

Lui faceva l’uomo di fiducia in quella campagna nei pressi dello stagno di Platamona, e lei si trovò a trascorrere quella giornata lì, ospite della proprietaria. Come succedeva una volta, il fidanzamento non fu per niente tirato alle lunghe, e l’anno 1961 li vide felicemente sposati.

È da qualche mese che Andrea non è più tra noi, ma andati a far visita alla moglie Luisa insieme alla mia Giovanna e alla piccola Adele che allieta molte ore delle nostre giornate, la presenza di Andrea l’abbiamo sentita molto viva, sopratutto con le tante sue pitture che tappezzano l’intera sua casa, Nessuna preparazione accademica per Andrea, come per molti altri che cercano di raffigurare il mondo esteriore e, attraverso di esso, il loro intimo e personalissimo sentire, servendosi dei pennelli e miscelando i colori a loro piacimento. Una passione che Andrea portava avanti da giovanissimo.

Era generoso Andrea. Molto generoso. Non sono pochi coloro a cui ha fatto dono di suoi quadri, risultato di ore e ore trascorse davanti alle tele per dar loro vita. Questa generosità Andrea la manifestava anche facendo partecipi amici e conoscenti dei prodotti della terra da lui coltivata e curata, anche questo fatto sempre con amore e con estrema passione.

In casa Cossu, l’arte ha preso la mano anche dei figli, ognuno nel suo campo, e specialmente della moglie, e con comprensibile e giusto orgoglio la cara Luisa non manca di farci vedere gli innumerevoli indumenti per bambini fatti a maglia con pazienza nel corso di lunghi anni, insieme ad altrettanti lavoretti fatti ad uncinetto.

Questo pomeriggio è stata proprio una bella intuizione quella di andare a trovare Luisa Derosas: gustare la delicatezza con la quale ha parlato del marito scomparso, al quale mi legava un sincero rapporto di benevolenza e di stima reciproca, è stata per me, per mia moglie Giovanna e per la nostra cara nipotina Adele, un’ occasione di arricchimento in tutti i sensi.

Grazie Luisa

A DIOSA, nota come “Non poto reposare”

 
La poesia «A Diosa», meglio conosciuta con il suo primo verso «Non potho reposare», è opera di Salvatore Sini, noto come Badore Sini, avvocato affermatosi come scrittore e soprattutto come poeta. Viene musicata da Giuseppe Rachel, direttore della banda musicale di Nuoro.

Il brano  fa parte ormai del repertorio di tutti i cori polifonici della Sardegna, e probabilmente non solo  Sono tanti i musicisti che ne hanno fatto una personale interpretazione, in chiave lirica, jazz, rock, e se cercate nella rete, la scelta è molto  ricca. Maria Carta ne fu una delle maggiori interpreti, e sono sue queste due interpretazioni che vi presento di seguito. Nel primo video è accompagnata dalla sola chitarra,  coi suoi due o tre accordi arpeggiati. Nel secondo video, vi è la presenza anche di Andrea Parodi, che da solo o insieme ai suoi gruppi  ne ha fatto diverse versioni, con arrangiamenti vari. Nell’ultima parte del secondo video, è evidente l’affaticamento e lo sforzo per portare avanti l’esecuzione. Probabilmente, in quell’occasione Maria era già minata dalla malattia che l’avrebbe portata in seguito alla morte.

Nel 1974, in occasione dell’uscita  dell’album “Delirio”, Giuseppe Dessì scrisse di Maria:

“Il suo bel viso, la fierezza e insieme la grazia del suo portamento, più che un simbolo, sono una personificazione di quella Sardegna intangibile e indomita che ho sempre amato. Quando la sua voce calda e potente si alza e riempie lo spazio, si aprono infiniti orizzonti che scendono nella storia. Dopo aver conosciuto Maria Carta, ancora una volta affermo che i soli grandi uomini della Sardegna sono state donne “

 

(Pi.Mu.)

 

 

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1.
Non potho reposare amore e coro
pensende a tie soe donzi momentu.
No istes in tristura prenda e oro
né in dispiacere o pessamentu.
T’assicuro ch’a tie solu bramo,
ca t’amo forte t’amo, t’amo, t’amo.
2.
Amore meu prenda de istimare
s’affettu meu a tie solu est dau;
s’are iuttu sas alas a bolare,
milli bortas a s’ora ippo bolau;
pro benner nessi pro ti saludare,
s’attera cosa non a t’abbissare.
3.
Si m’esseret possibile d’anghelu
d’ispiritu invisibile piccabo
sas formas; che furabo dae chelu
su sole e sos isteddos e formabo
unu mundu bellissimu pro tene,
pro poder dispensare cada bene.
4.
Amore meu, rosa profumada,
amore meu, gravellu oletzante,
amore, coro, immagine adorada,
amore coro, so ispasimante,
amore, ses su sole relughente,
ch’ispuntat su manzanu in oriente.
5.
Ses su sole ch’illuminat a mie,
chi m’esaltat su coro ei sa mente;
lizu vroridu, candidu che nie,
semper in coro meu ses presente.
Amore meu, amore meu, amore,
vive senz’amargura nen dolore.

6.
Si sa luche d’isteddos e de sole,
si su bene chi v’est in s’universu
hare pothiu piccare in-d’una mole
commente palombaru m’ippo immersu
in fundu de su mare e regalare
a tie vida, sole, terra e mare.
7.
Unu ritrattu s’essere pintore
un’istatua ‘e marmu ti faghia
s’essere istadu eccellente iscultore
ma cun dolore naro “no nd’ischia”.
Ma non balet a nudda marmu e tela
in confrontu a s’amore, d’oro vela.
8.
Ti cherio abbratzare ego et vasare
pro ti versare s’anima in su coro,
ma dae lontanu ti deppo adorare.
Pessande chi m’istimmas mi ristoro,
chi de sa vida nostra tela e trammas
han sa matessi sorte pritte m’amas.
9.
Sa bellesa ‘e tramontos, de manzanu
s’alba, s’aurora, su sole lughente,
sos profumos, sos cantos de veranu
sos zefiros, sa bretza relughente
de su mare, s’azurru de su chelu,
sas menzus cosa do, a tie anzelu.

 

 
1. Non posso riposare, amore e cuore,
sto pensando a te ogni momento.
Non essere triste gioiello d’oro,
né in dispiacere o in pensiero.
Ti assicuro che bramo solo te,
che t’amo forte t’amo, t’amo, t’amo.
2. Amore mio, gioiello da stimare,
il mio affetto a te solo è dato;
se avessi avuto le ali per volare,
mille volte all’ora avrei volato;
per venire almeno a salutarti,
o solamente per vederti.
3. Se mi fosse possibile d’angelo
di spirito invisibile prenderei
le forme; ruberei dal cielo
il sole e le stelle e formerei
un mondo bellissimo per te,
per poter dispensare ogni bene.
4. Amore mio, rosa profumata,
amore mio, garofano olezzante,
amore, cuore, immagine adorata,
amore cuore, sto spasimando,
amore sei il sole lucente,
che sorge al mattino ad oriente.
5. Sei il sole che m’illumina,
che mi esalta nel cuore e nella mente,
giglio fiorito, candido come la neve,
sei sempre nel mio cuore.
amore mio, amor mio, amore
che tu viva senza amarezza né dolore.

6. Sei la luce delle stelle e del sole,
sei il bene che c’è nell’universo
avrei potuto appendermi ad una roccia
come un palombaro immergermi
in fondo al mare e regalarti
la vita, il sole, la terra, il mare.
7. Se fossi pittore un ritratto,
se fossi scultore una statua avrei fatto per te,
se fossi stato scultore eccellente…
ma con dolore dico non lo so fare.
ma non valgono nulla marmo e tela,
in confronto all’amore vela d’oro.
8. Ti vorrei abbracciare e baciare,
per riversarti la mia anima nel cuore,
invece devo adorarti da lontano.
Pensando che tieni a me io mi rinfranco,
che nella nostra vita,
tela e trame han origine dal tuo amarmi.
9. La bellezza dei tramonti,
al mattino l’alba e l’aurora, il sole lucente,
i profumi, i suoni della primavera,
i venti, la brezza scintillante del mare,
l’azzurro del cielo,
ogni miglior cosa dono a te, angelo.

 

QUELLO CHE LE DONNE DICONO …. in poesia

 

Da una selezione di Rita Clemente, autrice del volume “Evangelium Foemina”,  22 composizioni in versi su donne di cui si narra nei Vangeli, e collaboratrice  del periodioco “c.d.b. informa ” della Comunità di base di Chieri   (http://www.cdbchieri.it/),  città in cui è molto attiva nell’organizzazione di eventi per il rispetto delle minoranze e dei diritti civili

 

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LE POESIE DELLE DONNE

di Dacia Maraini

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“Le poesie delle donne sono spesso
piatte, ingenue, realistiche e ossessive”,
mi dice un critico gentile dagli occhi a palla.
“ Mancano di leggerezza, di fumo, di vanità,
sono tutte d’un pezzo come dei tubi,
non c’è garbo, scioltezza, estro;
sono prive dell’intelligenza maliziosa
dell’artificio, insomma non raggiungono
quell’aria da pomeriggio limpido dopo la pioggia.”
Forse è vero, gli dico. Ma tu non sai
cosa vuol dire essere donna. Dovresti
provare una volta per piacere anche se
è proibito dal tuo sesso di pane e ferro.
Ride, strabuzza gli occhi. “A me non importa
se sia donna o meno. Voglio vedere i risultati
poetici. C’è chi riesce a fare la ciambella
con il buco. Se è donna o uomo cosa cambia?”
Cambia, amico dagli occhi verdi, cambia;
perché una donna non può fare finta
di non essere donna. Ed essere donna
significa conoscere la propria soggezione,
significa vivere e respirare la degradazione
e il disprezzo di sé che si può superare
solo con fatiche dolorose e lagrime nere.

 

 

IL POSTO DI UNA DONNA

di Imtiaz Dharker, poetessa pakistana cresciuta in Scozia

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Devi stare attenta alla bocca, soprattutto
se sei una donna. Un sorriso
va soffocato con l’orlo del sari.
Nessuno deve vedere la tua serenità incrinata,
neppure dalla gioia.

Se ogni tanto hai bisogno di urlare, fallo
da sola, ma di fronte a uno specchio
dove puoi vedere la forma strana che prende la bocca
prima che la strofini via.

 

 

TIENI SEMPRE PRESENTE…

di Madre Teresa di Calcutta

 

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Tieni sempre presente che la pelle fa le rughe,
i capelli diventano bianchi,
i giorni si trasformano in anni.
Però ciò che è importante non cambia;
la tua forza e la tua convinzione non hanno età.
Il tuo spirito è la colla di qualsiasi tela di ragno.
Dietro ogni linea di arrivo c’è una linea di partenza.
Dietro ogni successo c’è un’altra delusione.
Fino a quando sei viva, sentiti viva.
Se ti manca ciò che facevi, torna a farlo.
Non vivere di foto ingiallite…
insisti anche se tutti si aspettano che abbandoni.
Non lasciare che si arrugginisca il ferro che c’è in te.
Fai in modo che invece che compassione, ti portino rispetto.
Quando a causa degli anni non potrai correre, cammina veloce.
Quando non potrai camminare veloce, cammina.
Quando non potrai camminare, usa il bastone.
Però non trattenerti mai!

 

LE DONNE FORTI

di Simona Oberhammer

 

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Le donne forti le riconosci, non passano inosservate.
Quando camminano senti la loro presenza, quando arrivano senti che qualcosa cambia.
Non sono donne facili, perché non si accontentano, perché vogliono e cercano qualcosa di più.
Non hanno paura delle sfide per trovare ciò che hanno nel cuore, non hanno paura nemmeno di soffrire per inseguire i loro ideali.
Non vogliono piacere a tutti le donne forti, vogliono piacere soprattutto a se stesse.
Quando le donne forti ti guardano non vedi solo i loro occhi. C’è qualcosa di più.
E’ la loro anima che scorgi, ha il colore del sole e la luce della luna.
Quando le donne forti si muovono non c’è solo il loro corpo ma ci sono anche
i loro sogni, le loro speranze, la fiducia che hanno in se stesse e negli altri.
Le donne forti non sono come tutti gli altri, ascoltano anche il loro lato più istintivo,
ridono e piangono senza vergognarsi e se ne hanno voglia si siedono per terra
o camminano scalze come se fosse la cosa più normale del mondo.
Le donne forti non sono donne che non sbagliano mai ma sono donne che affrontano i loro sbagli con la forza dell’anima.
I fallimenti e le sconfitte diventano terreno fertile per imparare, per migliorare.
Diventano il luogo dove l’anima trova gli spazi per crescere.
Le donne forti sono in grado di vestirsi di niente ma di sembrare tutto. È la
loro anima che le veste, è la forza di se stesse che le circonda.
Ed è proprio questa loro presenza, a volte difficile, che merita di averle conosciute.

 

 

 

SONO UNA DONNA

di Joumana Haddad, poetessa libanese

 

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Nessuno può immaginare
quel che dico quando me ne sto in silenzio
chi vedo quando chiudo gli occhi
come vengo sospinta quando vengo sospinta
cosa cerco quando lascio libere le mani.
Nessuno, nessuno sa
quando ho fame quando parto
quando cammino e quando mi perdo,
e nessuno sa
che per me andare è ritornare
e ritornare è indietreggiare,
che la mia debolezza è una maschera
e la mia forza è una maschera,
e quel che seguirà è una tempesta.
Credono di sapere
e io glielo lascio credere
e io avvengo.
Hanno costruito per me una gabbia affinché la mia libertà
fosse una loro concessione
e ringraziassi e obbedissi.
Ma io sono libera prima e dopo di loro,
con loro e senza loro
sono libera nella vittoria e nella sconfitta.
La mia prigione è la mia volontà!
La chiave della mia prigione è la loro lingua
ma la loro lingua si avvinghia intorno alle dita del mio desiderio
e il mio desiderio non riusciranno mai a domare.
Sono una donna.
Credono che la mia libertà sia loro proprietà
e io glielo lascio credere
e avvengo.

 

 

 

UN ATTIMO

di Fadwa Toqan (poetessa palestinese)

 

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Desidero solo silenzio e quiete,
non parlarmi di cose del passato e del futuro
non parlarmi di ieri e non andare
all’indomani.
Questo attimo, per me,
non ha nè prima nè dopo
non ha più senso
ieri è scomparso quali echi e ombre
e l’ignoto domani si dilaga lontano
e non si vede più
sarà forse diverso di quanto han disegnato
le mani dai sogni tuoi e miei,
diverso di quanto desideriamo?
Questo attimo, e non altri tempi,
è un fiore che si apre nelle nostre mani:
senza frutti senza radici
ma è solo un fiore di spontanea bellezza,
teniamolo bene prima che si trappi,
amore mio!

 

VORREI CHE DIO…

di Meg Newland

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Vorrei che Dio avesse volto di donna
Perché gusti lacrime di negata umanità.
Perché porti la croce di oppressioni familiari
Perché sappia cos’è la condanna del corpo.

Vorrei che Dio avesse voce di donna
Perché beva l’amaro calice di parole sprezzate
Perché soffochi il suo grido tra le mura domestiche
Perché, sulle sacre leggi, gli venga imposto il silenzio.

Vorrei che Dio vivesse una vita di donna
Perché provi il terrore di essere giovane e bella
Perché senta tutte le spine dei giudizi crudeli
Perché soffra nel suo costato la ferita
Per il perfido inganno di un sogno d’amore deluso.

Vorrei che Dio avesse volto di donna
Perché tutte le donne ferite, le donne tradite,
le donne stuprate, le donne abbandonate,
le donne bruciate sui roghi,
le donne sepolte sotto rocce di veli
le donne vendute e comprate a pelle nuda
le donne insanguinate, e picchiate,
le donne senza sogni e senza diritti
le donne senza nome e senza destino
le donne senza volto
possano vederLa davvero, e adoraraLa
e riconoscersi in Lei.

 

 

 

 

Quaresima in tenda per 4 preti: «Accanto ai poveri contro le ingiustizie »

 

 

«In Quaresima noi sacerdoti abiteremo una tenda allestita sul sagrato della chiesa di Ambivere. Un po’ di cibo. Acqua da bere. Un bagno per lavarci. Un materasso per dormire. È più di quanto molti esseri umani possono permettersi. Naturalmente non sarà facile. Abituati ad avere più del necessario, il semplice necessario sembrerà insufficiente».

 

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(Articolo del 14 febbraio 2016 tratto dal quotidiano “L’Eco di Bergamo”)

 

I preti di Ambivere, Mapello e Valtrighe (don Gianluca De Ciantis, don Andrea Testa, don Alessandro Nava e don Emanuele Personeni) hanno deciso di prendere la Quaresima molto sul serio e non soltanto sul piano personale.

Hanno deciso di adottare uno stile di vita diverso, molto ben visibile. Quindi di diventare un esempio, o una provocazione, oppure di essere sottoposti a critiche, anche brucianti. Vivranno fino alla Pasqua in una tenda. Per un discorso di responsabilità, di presa di coscienza. Coscienza che «se Europa e Stati Uniti dovessero pagare equamente le risorse prelevate dal terzo mondo, i prezzi in casa nostra crescerebbero e dovremmo rinunciare a buona parte delle nostre abitudini consumistiche».

Dicono i preti che è fondamentale la presa di coscienza. E la coerenza. Hanno scritto nella loro lettera di spiegazioni: «Staremo in una tenda per dire che non siamo disposti ad accettare un sistema che procura benessere a noi provocando sofferenza a qualcun altro… con questo gesto vogliamo dire che riconosciamo le nostre responsabilità di fronte alla povertà del mondo. E che si può essere felici anche con meno».

In un documento don Emanuele, don Gianluca, don Andrea e don Alessandro, i preti coinvolti nella scelta, esaminano la situazione della povertà a livello mondiale, la politica economica del mondo occidentale, la grande crisi economica avviata nel 2007. E indicano precise responsabilità, a cominciare dall’avidità dei grandi gruppi finanziari che muovono enormi capitali e condizionano pesantemente quello che accade nel mondo, crollo dei regimi e guerre comprese.

Hanno scritto: «Noi sacerdoti non possiamo rovesciare le sorti dei poveri. Però possiamo stare dalla loro parte. Possiamo protestare e progettare azioni concrete nonviolente a favore della Verità e della Giustizia…». Se i profughi non hanno diritto a una casa, concludono i preti dei tre paesi – che accennano alla tendopoli di Calais -, allora «questo diritto non l’abbiamo neppure noi».

Infine i sacerdoti di Mapello, Ambivere e Valtrighe scrivono: «Nella tenda sarete i benvenuti». Sono previsti anche due incontri di riflessione che si terranno sul sagrato della chiesa di Ambivere, vicino alla tenda, a cominciare da stasera alle 20.30 con un incontro con Gianluca Solera sul tema del Medio Oriente; lunedì 22 febbraio si parlerà di armamenti con don Renato Sacco, coordinatore nazionale di Pax Christi.

 

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Qualche mia breve considerazione

Per la mia abitudine ogni tanto di staccare la spina dall’informazione, fino ad oggi non ero a conoscenza di questa iniziativa. L’ho vista pubblicata in diverse testate, ma di proposito l’ho presa da un giornale che sicuramente non può essere sospettato di nostalgie “comuniste” o di posizioni “disfattiste” a prescindere, nè tanto meno anticlericali per principio. L’Eco di Bergamo è in parte di proprietà della Curia locale e dalla sua fondazione, nel lontano 1880, diversi preti ne sono stati direttori. Non so come questo giornale abbia ripreso la notizia nei giorni seguenti, ammettendo che lo abbia fatto. In ogni caso sembrerebbe una di quelle iniziative prese da quelli che una volta venivano chiamati “preti operai”, sicuramente molto politicizzati e, va da sè, comunisti, se non addirittura …extraparlamentari. A me sembra un’iniziativa semplicemente evangelica, ovvero di condivisione con chi patisce soprusi e ingiustizie, oltre che di sensibilizzazione e di denuncia. Credo che siano aspetti e comportamenti doverosi di chi si ritiene seguace di Gesù Cristo, specialmente se si è fatta una scelta radicale come quella di essere prete. Certo, vi sono tanti (troppi) preti che si limitano all’ordinario servizio, specialmente quello liturgico, con la convinzione forse che delle cose “terrene” se ne debbano occupare altri, prendendo comodamente – molto comodamente ! –  alla lettera la risposta che Gesù dodicenne diede ai genitori quando  lo rimproverarono che li aveva fatti preoccupare (“perchè mi cercavate? Non sapete che devo occuparmi delle cose del Padre mio?“). So anche che ciascuno di noi ha una sensibilità personale e un conseguente giudizio riguardo a quelli che sono i suoi doveri, siano essi civili o morali. Non voglio andare neanche nello specifico delle motivazioni che hanno spinto questi preti a fare questa iniziativa, ma per me sono degli esempi da seguire, in quelle particolari situazioni in cui ciascuno si trova a vivere. Probabilmente, questi quattro sacerdoti saranno guardati con sospetto, di essere troppo, come detto,  “politicizzati”. Anzi, ne sono sicuro. Sia da molti  “praticanti” e sia anche da molti loro confratelli. Normale. Ripeto, per me sono degli esempi e li ringrazio per questo. (Pi.Mu.)

 

 

 

 

 

Miracoli: Fede si, ma con Ragione

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 di padre Alberto Maggi
“È che noi confondiamo il miracolo con la guarigione, i segni con i prodigi. Tentiamo di fare un po’ di ordine. Sono cose completamente diverse. Il miracolo è: non ho la mano, prego e mi spunta. Miracolo, mai successo. Guarigione: ho la mano rattrappita, in determinate circostanze di emotività e di preghiera, in tutte le religioni, la mano mi torna sana. Quindi guarigioni sì, e sono possibili, ma i miracoli no! Ci sono luoghi dove ci sono le guarigioni, tali e quali come succedono a Lourdes.
C’è, non so, in quale nazione dell’Africa, c’è un baobab dove si guariscono le fratture. Le fratture, le ossa fratturate, mettono queste persone sotto questo baobab e la frattura si unisce. Io non sto mettendo in dubbio, le ripeto le guarigioni; .. io credo profondamente alle guarigioni di Lourdes perché nell’individuo si può sviluppare un’energia di vita tale da arrestare o addirittura da annullare il male che ha dentro. Io non lo metto in dubbio.
Però attenzione, attenzione, ricordate che un’immagine errata di Dio può causare l’ateismo.
Attenzione a vedere in questo un’azione del divino che allora fa sorgere subito l’interrogativo “perché a questo e non all’altro?”… “Ah, …I disegni di Dio sono imperscrutabili!”.
Vicino dove abito c’è il santuario di Loreto. Due anni fa un’anziana, 95 anni, in carrozzella, si è alzata. “Miracolo, la Madonna ha fatto il miracolo” allora io ho detto “Madonnina mia, già che dovevi fare un miracolo, che ne fai tanto di rado, non era meglio una bambina di 2-3 anni paralizzata? Questa ha già 95 anni! Insomma … ormai … la vita sua l’ha fatta, poteva pure restarci … se sprecavi sto miracolo per una bambina di 3 anni forse sarebbe stato un po’ più adatto.
Bisogna stare attenti a parlare di miracoli da parte di Dio, perché un’immagine sbagliata di Dio non solo non induce la fede, ma induce la repulsa nei confronti di Dio. Io non metto in dubbio che in particolari situazioni di grande emotività religiosa, di grande preghiera, si possano suscitare in alcuni individui energie di vita che, non solo frenano il male, ma addirittura lo possono cancellare.
Il termine greco che significa miracolo non si trova mai nei vangeli. I vangeli naturalmente sono scritti in greco. I termini che distinguono le azioni di Gesù sono segno, opera e potenza; tutti segni e azioni che Gesù chiede alla comunità di perpetuare. Nel vangelo di Giovanni cap 14,12, Gesù dice: “Io vi assicuro che chi crede in me non solo compirà le mie opere, ma ne farà di più grandi”.
Quindi è compito della comunità dei credenti prolungare le azioni con le quali Gesù ha trasmesso vita; non solo, ma addirittura potenziarle. È Gesù stesso che ce lo chiede: noi siamo chiamati a compiere opere più grandi di quelle che Gesù ha compiuto. Allora questa è anche una chiave di lettura per queste azioni che Gesù ha fatto.
Il problema non è se credere o no ai miracoli, si tratta di sapere se esistono o no i miracoli. Gli avvenimenti che troviamo nei vangeli non appartengono al genere del miracolo. Per miracolo si intende un intervento straordinario operato nella natura e che va a favore dell’uomo. Nei vangeli non esiste né il termine, né il concetto di miracolo, un sovvertimento e un superamento delle leggi della natura in favore dell’uomo.
Nei vangeli, e all’inizio della predicazione di Gesù, c’è questa necessità: c’è bisogno di un cambiamento dei rapporti con gli altri, non di un cambiamento delle leggi della natura, ma un cambiamento nei rapporti con gli altri che permetta a Dio di trasmettere la sua linfa vitale agli uomini. Allora Gesù dice che i segni che lui ha compiuto, anche noi li dobbiamo compiere e dice che chi crederà nel suo nome, compirà quelle potenze e quei prodigi. Quelle opere, siamo chiamati tutti quanti a compierle. Questa è un’indicazione che gli evangelisti ci danno.
Allora, quelli che noi riteniamo i miracoli straordinari, di fronte ai quali c’è da rimanere sbalorditi, cosa significano?
Ecco l’opera che siamo chiamati tutti quanti a fare: a entrare nel testo evangelico e vedere quello che l’evangelista ci vuol dire attraverso immagini che appartengono alla sua cultura.
Vediamo ora un esempio dei segni, dei prodigi che dobbiamo compiere . Uno dei titoli più nefasti nel Nuovo Testamento è quello della “moltiplicazione dei pani”. Un po’ per il titolo, un po’ per i film alla Zeffirelli, Gesù è questo prestigiatore che prende il cesto e, voilà: pani e pesci, cento duecento. Ebbene, chi di voi può pensare di ripetere un’azione del genere? Se andiamo in dispensa a prendere del pane e dei pesci e stiamo a pregare tutta la notte, domani mattina troviamo il pane secco e il pesce marcio. Eppure Gesù dice: “chi crede in me, questi sono i segni che l’accompagneranno: risusciteranno i morti …”. Mai da quando c’è il cristianesimo è risuscitato un morto.
È stato fatto un corso di studi su questa frase, si è controllato e sì è visto che non c’è un santo che, in duemila anni di cristianesimo, abbia risuscitato un morto. E Gesù dice: “questi sono i segni che vi accompagneranno: risuscitate i morti”. Nessuno ci è riuscito.
Allora, non sarà che l’evangelista indica altre cose? Così in questo episodio non si parla di moltiplicazione dei pani ma c’è un conflitto tra due mentalità: quella di Gesù che attraverso le beatitudini invita i suoi a condividere generosamente con gli altri quello che hanno e quello che sono, e quella dei discepoli che sono vittime ancora della mentalità della società dell’accaparramento egoista. Allora c’è il problema della fame della gente e Gesù dice: “date!”. Usa il verbo dare: “date voi da mangiare”. Mentre i discepoli gli hanno detto: “mandali a comprare!”. Il conflitto è tra questi due verbi.
Comprare significa che se tu hai i soldi compri, mangi e vivi; se tu non hai i soldi non compri, non mangi, non vivi. I discepoli, di fronte alla fame, ricorrono ai metodi usuali della società, “mandali a comprare”. Gesù dice: “date voi quello che avete!”, e mettono insieme quello che hanno.
Si parla di cinque pani e due pesci: cinque più due fa sette. Sette, nel mondo ebraico significa tutto.
Allora l’evangelista vuol dire che hanno messo insieme tutto quello che avevano. Così egli vuol dire come si risolve la fame: con il verbo comprare si crea sempre disuguaglianza e aumenta la fame, con il verbo dare, con la condivisione, si sfama e si crea l’abbondanza. Ricordate quante ceste avanzano? Dodici. Perché proprio dodici? Perché dodici è il numero di Israele, delle dodici tribù di Israele, dei dodici discepoli. L’evangelista vuol dire: “con questo sistema si sfama tutto Israele”. Allora Gesù non chiede di moltiplicare pani e pesci, basta condividere quelli che ci sono già e si crea l’abbondanza. Quando la comunità dei credenti condivide quello che ha, questo è il miracolo, si crea l’abbondanza.”
Nota
La risposta a questa domanda è stata data in modo colloquiale da P. Alberto Maggi durante una conferenza. Il testo non è stato né riveduto, né corretto .

Padre Pio e Bisogno e Desiderio, nella religione e nella vita

Padre_Pio

 

di Antonio Vigilante,

docente di Filosofia e Scienze Umane al Liceo “Santa Caterina” di Siena

 

Una teca di vetro. Nella teca il cadavere di un monaco cappuccino, con il volto di cera. Sulla teca molti fiori. Davanti alla teca una donna scatta una foto con il cellulare: un selfie, per la precisione.
Il monaco è, naturalmente, padre Pio, anzi San Pio. Il contesto è quello del Giubileo Straordinario della Misericordia, proclamato da papa Francesco II con la bolla Misericordiae Vultus, “come tempo favorevole per la Chiesa, perché renda più forte ed efficace la testimonianza dei credenti”.
La religione comprende una molteplicità di cose, spesso contraddittorie, che è possibile ordinare in uno spettro che va dal bisogno al desiderio. Il bisogno è mancanza, il desiderio è slancio. Bisogno è mangiare, bere, vestire, avere un tetto. Bisogno è avere un lavoro, riconoscimento sociale, sicurezza. Il desiderio è altro. Per dirla con il Lévinas di Totalità e Infinito: “Al di fuori della fame che può essere soddisfatta, della sete che può essere estinta e dei sensi che possono essere appagati, la metafisica desidera l’Altro al di là delle soddisfazioni, senza che il corpo possa inventarsi un gesto per diminuire la aspirazione, senza che sia possibile abbozzare una qualche carezza conosciuta o inventarne una nuova”. Questo altro del desiderio può assumere forme diverse. Nella mistica, che considero il momento più alto e puro del fenomeno religioso (e che – ma il discorso sarebbe lungo – non implica alcuna fede in Dio), l’altro è l’altro dell’io: la religione è il movimento che spinge l’io oltre sé stesso, in uno slancio che è al tempo stesso terribile e gioioso. Ma l’altro può essere anche l’io dell’altro, e la religione essere amore puro, appassionato, esigente dell’altro, apertura intensa al tu, etica rigorosa. E da questa apertura, che rifiuta la riduzione dell’altro a cosa, nasce l’esigenza di un mondo altro, di una realtà liberata dalla sofferenza, dallo sfruttamento, dall’ingiustizia. Un’etica che si fa al tempo stesso politica ed escatologia.
Il cattolicesimo di Padre Pio è il cattolicesimo del bisogno. Il cattolicesimo dell’uomo e della donna che, di fronte alle difficoltà della vita, avvertono la necessità – facile, semplice – di una figura divina di riferimento, che offra una protezione pronta e sicura. Larga parte del mondo cattolico trae alimento da questo bisogno di rassicurazione. Esiste, nel cattolicesimo, una vera e propria industria della rassicurazione, fatta di polverine di Santa Rita, acque di Lourdes, coroncine benedette, eccetera. Si tratta di un fenomeno che naturalmente confina con la superstizione e con la magia, e che il padrepiismo (o sanpiismo) rappresenta alla perfezione. Il mondo nel quale nasce e si afferma la figura di Padre Pio è un mondo rurale estremamente arretrato, quel mondo contadino pugliese nel quale la figura del santone era ordinaria non meno di quella del parroco, ma al tempo stesso è una figura che sa inserirsi nel mondo e nelle sue logiche anche politiche ed economiche con straordinaria scaltrezza.

Chi era, davvero, padre Pio?

Scelgo solo tre episodi da Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento di Sergio Luzzatto (Einaudi). Primo. 1911-1913. Dopo essere stato ordinato sacerdote, il giovane fra’ Pio passa quasi tutto il tempo nella sua casa di Pietrelcina, perché malanni non meglio precisati gli rendono impossibile la vita in convento. E da casa sua scrive lettere ai suoi direttori spirituali, fra’ Benedetto e padre Agostino, entrambi di San Marco in Lamis. Lettere nelle quali descrive con trasporto il suo travaglio spirituale, le sue estasi, il suo rapporto personale con Cristo. Ma le lettere sono copiate, per la precisione riprese parola per parola dell’epistolario di Gemma Galgani, una donna di Lucca che aveva ricevuto le stimmate nel 1899, e il cui libro era tra le letture del giovane frate. Due. 15 agosto 1920. San Giovanni Rotondo. Un’automobile esce dal convento dei cappuccini per giungere nella piazza principale del paese. A bordo padre Pio, acclamato dalla folla. Giunto in piazza, il frate benedice la bandiera dei reduci, che nella zona hanno organizzato le prime squadre fasciste. Due mesi dopo, in quella stessa piazza, undici contadini socialisti saranno massacrati dai soldati. All’indomani dell’eccidio, il frate accoglierà con grande cordialità nel suo convento Giuseppe Caradonna, figura di primo piano del nascente fascismo in Capitanata. Tre. 1921. Il Santo Uffizio manda a San Giovanni Rotondo monsignor Raffaele Carlo Rossi, per interrogare il frate. Tra le altre cose, monsignor Rossi gli chiede conto di una certa sostanza da lui ordinata in gran segreto in una farmacia locale, che poteva servire a procurare le stimmate. Il frate si difende sostenendo che intendeva usarla per fare uno scherzo ai confratelli, mischiandola al tabacco in modo da farli starnutire.
Il profilo che emerge è quello di un fascista un po’ imbroglione, privo di qualsiasi spessore umano e culturale, che, a voler essere buoni e prendere per vera la sua deposizione, acquista sostanze pericolose per fare uno scherzo da prete ai suoi confratelli mentre si fa fotografare in pose mistiche con le stimmate in bella evidenza.
Qualche anno fa sulla facciata della chiesa di San Pietro al Cep, a Foggia, comparve una macchia di umidità. Le macchie di umidità, come le nuvole e le venature del marmo o del legno, hanno questa caratteristica: con un po’ di fantasia vi si può scorgere quello che si vuole. Soprattutto la figura tozza di un padre cappuccino. E dunque si gridò al miracolo, come succede. E come succede talmente spesso, anzi, che non varrebbe nemmeno la pena di citare la faccenda, se non fosse che in quel caso dopo qualche giorno partirono già i primi autobus di fedeli, primi segni di un promettente business o, se si preferisce, di una esaltante esperienza di fede. Per fortuna quelle macchie di umidità ebbero il buon senso di scomparire al cambiare del tempo.
La figura di padre Pio, anzi di San Pio, è una calamita che in modo irresistibile attira il peggio del cattolicesimo: la superstizione, il fanatismo, il miracolismo, l’esteriorità dei riti, la rinuncia al pensiero. E l’affarismo, la furbizia, l’abuso della credulità popolare. Se non vi fosse quest’ultimo aspetto – ma è mai separabile dal resto? – si potrebbe provare qualche indulgenza e vedere in una simile ridicola accozzaglia di assurdità e cattivo gusto una risposta al bisogno umanissimo di protezione. Il padrepiismo è una delle malattie del cattolicesimo. Una malattia che, se la Chiesa avesse buon senso, cercherebbe di contrastare, e che invece alimenta, incoraggia, esalta, inseguendo un facile consenso e successo presso masse sempre più distratte, sempre meno religiose. Resasi conto della difficoltà di una evangelizzazione, la Chiesa sembra perseguire l’obiettivo più abbordabile della padrepiizzazione delle masse.
“Il cattolicesimo deve alla sua antichità e alla sua avversione per ogni violenta formazione di massa, la quiete e l’estensione che esercitano una fortissima attrazione su molti”, scriveva Elias Canetti in Massa e potere (1960). Queste parole, valide quando furono scritte, non sono più vere dopo il pontificato di Giovanni Paolo II, il papa dei raduni oceanici, che prima di allora si erano visti soltanto nei regimi totalitari. E non è un caso che sia stato lui a volere fortemente la santificazione di padre Pio. Il santo di Pietrelcina è la figura-chiave per il passaggio del cattolicesimo dal mondo pre-moderno della società contadina al mondo post-moderno della massa anonima. Espressione architettonica di questo passaggio è il nuovo santuario di San Giovanni Rotondo progettato da Renzo Piano: un non-luogo nel quale è impossibile qualsiasi esperienza che non sia, appunto, quella della immersione in una massa anonima.

Con il Vaticano II, la Chiesa aveva fatto un tentativo generoso di confronto con la modernità (ed è appena il caso di ricordare l’insofferenza di Giovanni XXIII verso padre Pio). Con Giovanni Paolo II, archiviato il Concilio, la Chiesa si è lanciata nella post-modernità. Tutta o quasi la cultura moderna viene rigettata come relativismo, si condanna la teologia della speranza, si instaura il culto della persona del papa e si esalta la santità di un frate che politicamente offre molte certezze: nessuno troverà mai, nei suoi scritti o nella sua biografia, il minimo appiglio per una interpretazione del cattolicesimo che minacci il buon ordine sociale.
Torniamo all’immagine da cui siamo partiti. Il selfie è l’espressione dell’attuale narcisismo di massa. In primo piano ci sono io, sullo sfondo tutto il resto: santo compreso. La società dei consumi, che è una società di massa, si regge al tempo stesso sul narcisismo più sfrenato. E’ una società che dice io, ed è un dire io sempre più disperato, perché l’io è puntellato dal possesso di cose, più che dalla sostanza viva delle relazioni sociali e spirituali. Un io solo, che più dice io più si smarrisce nella massa, più acquista più perde. In questo contesto economico e culturale, anche la fede – la fede cattolica – diventa narcisismo. “Dio ti ama, ti ama talmente tanto che è morto per te”: questo è il messaggio attraverso il quale le parrocchie vendono oggi il prodotto-Dio. Superate le inquietudini del passato, la fede è oggi una cosa semplice: in definitiva una questione di gratitudine. Dio ti ama ed è morto per te, e tu gli giri le spalle? Un gesto insensato, come spegnere la televisione o rifiutare l’offerta prendi tre e paghi due. Padre Pio, alter Christus, è il protagonista di questo cattolicesimo facile, consumistico, narcisistico. Di questo cattolicesimo disperato.

Lo scorso anno è scomparso, in silenzio ed umiltà come è sempre vissuto, Arturo Paoli, per tutti fratel Arturo. Nei suoi più di cento anni di vita questo uomo straordinario ha fatto la resistenza, ha salvato la vita di molti ebrei durante il fascismo (per questo è stato dichiarato Giusto delle nazioni) e poi, ordinato sacerdote, ha passato tutta la vita accanto ai poveri ed ai lavoratori, non retoricamente, ma faticando e lottando con loro: al porto di Orano, nelle miniere della Sardegna, nei boschi dell’Argentina. Non aveva le stimmate, non faceva miracoli. Metteva semplicemente in pratica il Vangelo. E’ lui il rappresentante più autentico e profondo, nel cattolicesimo italiano dell’ultimo secolo, di quella che ho chiamato religione del desiderio. Il suo è un cattolicesimo purissimo, al tempo stesso semplice e raffinato, capace di dialogare con gli umili senza corromperli con il fanatismo e la superstizione, che non stringe la mano ai fascisti ma attacca il potere esigendo giustizia. Ha indicato un’altra via, la via del desiderio. Una via che è, oggi, un sentiero non segnato sulla mappa, lungo il quale è sempre più raro che qualcuno si avventuri.

A ciascuno la sua sensibilità

di Piero Murineddu

Avevo già intravisto questo articolo nel Blog di Franco Barbero, ma non avevo voglia di leggerlo, cosa che mi ha obbligato a fare, condividendomelo nel mio spazio FB, il mio amico Giuseppe (o la moglie Irene?), probabilmente per il riferimento ad Arturo Paoli che c’è alla fine di questo lungo scritto, e i pochi che frequentano questo mio spazio, sanno della stima e dell’affetto che mi hanno legato e tutt’ora continuano a legarmi al caro Arturo, “giovanissimo” vegliardo che ha speso la sua vita per confermare a se stesso e mostrare agli altri, che il Messaggio Evangelico non è pia (!) consolazione davanti alle brutture del mondo, ma è impegno concreto per cambiarlo. Per la mia sensibilità non sono stato mai attratto nè da padre Pio, nè dalle apparizioni mariane, nè da veggenti sparsi qua e là, supposti portavoce della Volontà Superiore….Ripeto: questo è il mio sentire. Il mio carattere, e non solo esso,mi porta anche a stare lontano dalle grandi folle che ascoltano estasiate qualche oratore illuminato. Preferisco la riflessione personale e il dialogo interpersonale o in un piccolo gruppo.  Comunque, a differenza di come facevo negli anni giovanili e anche fino a qualche anno fa, non mi sento però di giudicare chi da questi aspetti della vita religiosa sono attratti e, da quel che dicono, traggono giovamento. Quando mi capita di parlare con qualcuno di loro, chiedo semplicemente se questa loro sensibilità di fede ha incidenza nella vita concreta, se si sentono motivati di più ad essere accoglienti verso gli altri, ad avere il coraggio della denuncia, a far prevalere sempre la giustizia, a smascherare i sepolcri imbiancati, a non scendere a compromessi con la loro coscienza, a far partecipi altri delle loro possibilità economiche…….. L’idea di esporre a Roma il corpo alla venerazione pubblica non mi ha entusiasmato granchè, ma nello stesso tempo non ho provato delusione nei confronti di Papa Francesco (a proposito, perchè Vigilante parla di un Francesco II?). Continuo a credere che questo Papa sta’ cercando di dare una svolta, e lo sta’ facendo nonostante i tanti che all’interno della stessa Chiesa lo stanno avversando, certi apertamente, la maggior parte ….facendo finta di applaudire. Non dubito che i fatti su padre Pio riportati da Antonio Vigilante siano veritieri, ma sicuramente ne fa una lettura personale, come del tutto personale e soggettivo è il suo giudizio sul vastissimo popolo dei credenti, dove convivono diverse (e a volte diversissime) realtà e sensibilità. In ogni caso, ho avuto lo stimolo per conoscere meglio la vita di Francesco Forgione, noto Padre Pio da Pietrelcina