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Antonio “Cittadino” e la sua ricerca storica sulla Romangia sarda

Premessa

di Piero Murineddu

Famiglia numerosa quella dei “Cittadino”, originata dall’indimenticato Angelo Spanu, vigile urbano e impiegato comunale che con questo appellativo si rivolgeva ai suoi compaesani, e da Agostina Cariga,  donna  di forte volontà e di grande generosità.

Settantatre anni lo scorso primo febbraio. Partito da Sorso nel lontano 1966 per vivere ad Imperia, dove il lavoro in un Patronato ha dato sostentamento alla sua famiglia. Purtroppo ha dovuto patire la perdita del secondo figlio, a causa di una improvvisa ed inaspettata malattia.

Ogni tanto la sua capatina a Sorso la fa, insieme alla sua gentilissima e discreta signora. Le sue radici non le ha per niente scordate, anzi.

Casualmente….. Anzi, lasciamo stare il “caso”. Meglio pensare ad una Volontà Misteriosa. Molto discreta anch’essa, ma che non fa mancare la sua presenza, almeno per chi ha il cuore per percepirla.

Grazie a questa Volontà Misteriosa, quindi, quest’oggi ho avuto l’opportunità di conoscere ANTONIO SPANU, pensate un po’, il primogenito della numerosa prole che Agostina Cariga, da poco venuta serenamente a mancare, e Angelo Spanu, “Cittadinu”, hanno dato alla vita.

Dicevo che Antonio non ha mai scordato le sue radici, fino a voler scrivere un libro, stampato in un numero limitato di copie, che parla delle antiche origini di Sorso, oltre che impegnatosi a ricostruire la genealogia della sua famiglia.

Un vero piacere quei quindici minuti trascorsi specialmente ad ascoltarlo, ed abbracciarlo mi è venuto quasi spontaneo, se non addirittura doveroso, come segno di gratitudine per l’impegno e il tempo che quest'”uomo dedica per aiutare tutti noi sussinchi a conoscere la nostra storia.

A breve non mancherò di farvi partecipi del suo lavoro di ricerca, e le sorprese non mancheranno di sicuro, come, ad esempio, il mettere in discussione l’origine del termine “Billellera” e del toponimo “Sorso”.

Non solo. Se la salute assisterà entrambi, la prossima estate potremo avere anche la registrazione video del suo raccontarsi e raccontare.

 

Primogenito è Antonio, emigrato ad Imperia. La sua non elevata scolarità non gli ha impedito, attraverso un paziente lavoro di ricerca, di ricostruire il passato della sua terra e

, Sorso,  che lo ha visto nascere e diventare giovanotto. La sua attenzione, come dall’autore precisato,  comprende l’ultimo scorcio del 900 fino agli albori del 1300. Come tanti altri e col futuro ancora tutto da scoprire davanti, con la moglie avevano deciso di trasferirsi nel “continente”, alla ricerca di condizioni di vita rispondenti alle loro aspettative. Nella ligure Imperia hanno mandato avanti la vita familiare.

Grande impegno e passione in Antonio per mettere insieme nomi, avvenimenti storici, circostanze, date, notizie che hanno portato la sua cittadina ad essere ciò che oggi conosciamo. Vedremo che la sua ricerca non si è limitata al solo territorio della Romangia, anche se ad esso ha dato particolare attenzione.

Giudicare l’attendibilità di quanto andremo a leggere rimane compito di ciascuno. Lo ripeto, e nell’introduzione è lui stesso a dirlo:  Antonio non ha mai avuto la pretesa di essere uno storico in senso stretto. Come tanti suoi coetanei, e ancor più nel suo caso, che sin da giovanissimo ha dovuto contribuire al bilancio della numerosa famiglia, non ha avuto la fortuna di fare alti studi accademici, ma l’interesse per la storia l’ha sempre avuto. Sicuramente l’utilità del suo lavoro rimane ed è innegabile, oltre che lodevole per il tempo e fatica profuso per ottenere un risultato al meglio, col principale obiettivo di omaggiare in questo modo la terra che gli ha dato i natali.

Periodicamente inserirò un nuovo capitolo del suo volume. Oltre che ringraziare l’autore per la pronta disponibilità nel permettermi di divulgare il suo lavoro, gli chiedo scusa per non esser stato in grado d’inserire  le tante immagini presenti nel libro.

Buona lettura

antonio spanu

Introduzione

di Antonio Spanu

Questo lavoro è stato prodotto dopo alcune ricerche che ho condotto per dare una qualche soddisfacente risposta alla mia curiosità di conoscere un poco di storia “vera” di Sorso, paese in cui ho avuto i natali nell’ormai lontano 01 febbraio 1945, nel mono vano distinto, sia allora sia ora, dal numero civico 46 in Via Umberto I, in pieno centro storico, ed in quel tempo ancor più distinto per essere abitato da 7 persone senza cucina, né bagno, né altro. Un letto a due piazze per 6 persone ed una brandina per mio zio Giovannino Cariga.

Il paese, ora Città di Sorso, è stato già da almeno 20 secoli, ed è tutt’oggi, il centro più popoloso in Romangia ed è stato sempre il più importante sia per gli aspetti economici, attorno ai quali si sono affaccendati da sempre gli appetiti dei potentati imperialistici estranei alla Sardegna, sia precipuamente, per l’importanza dei personaggi politici, originari del paese, che certamente hanno contribuito in massima parte a scrivere la Storia politica non solo di Romangia, ma dell’intero Locu Torres nei secoli IX – XII.

E’ ben noto: la Storia politica non nasce mai per caso; invece viene generata e sostenuta dalla potenzialità di valore economico dei beni attorno ai quali gli animi umani si agitano in continuazione. Ed in Romangia ve ne sono stati tanti e non ne sono mai venuti meno, in così tanti secoli, di beni economici e di animi agitati dall’ansia di possedere la ricchezza ed il dominio nell’economia e nella gestione del potere politico.

Sorso: il “mio” paese, è stato teatro di buona parte della mia esistenza e, in contemporanea, di una varia umanità dalla cultura la cui peculiarità era la ricchezza di aspetti di immediatezza nella battuta ilare, tanto perspicace quanto fantasiosa nei racconti della tradizione orale; tantè che innumerevoli sono state le storie o storielle, per lo più frutto delle fantasticherie dei Sorsinchi, da me udite raccontare nei tempo della mia fanciullezza e non solo.

Tutti, quasi come in una gara, si sono sempre prodigati nel raccontare che nei tempi antichi in Sorso era avvenuto che……. che vissero strani personaggi………… che la gente viveva nel modo tale…..ed anche in tal’altro…… o giù di lì; e poi una dovizia di particolari su cose, genti ed avvenimenti, ma sempre non suffragati da un qualche pezzo di documento.

Ho ascoltato anche le diatribe se sia sorta prima Sorso o Sassari, se si generò prima il dialetto di Sorso o quello di Sassari, se insomma una parlata sia generata dall’altra e viceversa..

Gli studiosi affermano, con cognizione di causa, che il toponimo Sorso, e relativo centro abitato, sono stati generati molti secoli prima della fondazione di Sassari e che la lingua scritta e parlata erano il sardo medievale, quello, per intenderci, che oggi possiamo leggere nei documenti conservati nei vari Archivi. Quello per, esempio, che possiamo leggere nei vari condaghes, da quello di San Pietro di Silki a quello di San Nicola di Trullas.

Invece il moderno idioma di Sorso e quello di Sassari si sono formati dopo la fine del Giudicato di Logudoro e durante un lungo periodo successivo fino alla fine del medioevo e subendo ancora qualche influsso durante la dominazione spagnola dopo il 1500.

Il Sassarese moderno si è formato a Sassari e Sorso contemporaneamente, come l’uovo e la gallina secondo le dimostrazioni delle leggi evoluzionistiche formulate da Darwin, essendo derivati dagli stessi ceppi linguistici introdotti in entrambe le località ed in tutta la Romangia in genere, specialmente verso la fine del medioevo ma anche all’inizio dell’epoca moderna.

Numerosi sono gli studi “seri” che attestano l’influenza prevalente del ceppo corso nella formazione dell’attuale idioma sassarese, che comprende ovviamente quello di Sorso, ma anche quello di Porto Torres, sebbene notevoli sono stati gli influssi toscani, liguri e spagnoli ed altrettanto notevoli sono i componenti residuati dal sardo medievale.

Negli anni di frequenza scolastica invece ho assistito al silenzio più assoluto su un qualsiasi pezzo di storia patria, di quella di Sorso intendo. Dei cosidetti ” tempi antichi” non si è mai precisato quali siano stati, nè quando i personaggi siano vissuti o che cosa avessero fatto o, molto più semplicemente, come vivessero.

Nel paese invece ognuno aveva da raccontare un frammento di storia, un avvenimento, annedotti che altro non erano se non pure dicerie che sapevano molto di leggendario, affascinanti si, ma solo leggende metropolitane. E così ho deciso di conoscerla bene la Storia scritta: ci sarà pure una maniera di conoscerla mi son detto!.

Perciò mi sono affacendato fra pubblicazioni di varia natura alla ricerca di luce: sia documenti messi in linea nel web sia quelli tradizionali cartacei. Naturalmente ci piacerebbe conoscerla tutta la storia di Sorso e dell’intera Romangia, fin dai primordi, e raccontarla esposta in maniera ben organizzata; si possono fare ricerche allo scopo ma…..capiamo bene …..le cose non sono così semplici!

Dunque ho optato per un’indagine limitata con interventi su un periodo ben preciso, non troppo lontano nel tempo. Si inizia dalla fine dell’anno 900 fino agli albori del 1300.

Si tratta, sostanzialmente, degli avvenimenti di quel medioevo sardo quando l’Isola era suddivisa nelle quattro entità Statuali corrispondenti ai Giudicati di Caralis, di Arborea, di Gallura e di Torres. Quano ancora non si parlava l’attuale dialetto sorsense ma il sardo medievale. In particolare mi sono dedicato, ovviamente, ad ricercare sulla storia del Giudicato di Torres, ossia Locu Torres, alias Logudoro.

La storia di quel periodo non è ancora del tutto emersa o posta in chiara luce; manca ancora buona parte della documentazione certa ed attendibile storicamente.

Molti avvenimenti sono desumibili dalla lettura dei documenti disponibili pervenuti fortunosamente e no fino ai giorni nostri; altre vicende sono un pò ipoteticamente fondate su intuizioni desumibili dalla lettura non solo dei documenti certi ma in quanto ragionevolmente non si può prescindere dalla verosimilitudinità di vita vissuta quotiodianamente nelle condizioni ambientali di quei giorni.

Molti documenti sono invece ancora conservati in segreti archivi ed altri sono sottratti purtroppo, per molteplici motivi, alla conoscenza dei più.

Molta documentazione è stata frammentata in Archivi di Stato di varie Città e l’indagine conoscitiva è alquanto ardua per mancanza di tempo e di disponibilità finanziaria.

Fra gli altri documenti che mancano per avere una conoscenza più vasta sulle condizioni di Romangia e Sorso di quel tempo, sono precipuamente i registri amministrativi (condaghe) della vita economica del monastero di San Michele di Plaianu (Santu Miali di li Plani).

L’attività di questo monastero si svolse dal 1082, anno in cui la chiesa e le sue fertili terre furono donate da Mariano I di Torres all’ Opera di Santa Maria di Pisa per mano dei monaci camaldolesi, (la Carta venne rogata nel marzo 1082 apud Curcasum, – ora la Crucca, frazione di Sassari).

L’attività del monastero di Plaianu si è protratta fino al 1279, anno in cui fu abbandonato, per vari motivi dai monaci vallombrosani. Con l’abbandono i documenti del monastero quasi certamente finirono negli archivi della Cattedrale di Pisa. Ne abbiamo qualche prova. (vedi fotocopia in appendice).

Si tenga presente, per quel che possa occorrere, che lo Statuto di Sassari, fu emanato nel 1276 e che Sassari, città pazionata, cioè convenzionata, dipendeva come Sorso, prima di tale anno, totalmente dai benedettini toscani e, successivamente, il potere dei toscani è stato sostituito, se non del tutto, largamemente dal potere dei Doria genovesi.

Dunque tutta la tabella di marcia della mia ricerca poggia su molte certezze, molte intuizioni ed altrettante deduzioni verosimili. Molti reperti sono tutt’oggi sotto gli occhi di tutti e sono li a suffragare le intuizioni e le supposizioni e dare a queste una veste di attendibilità.

I documenti consultati sono veramente importanti: ad esempio il condaghe di San Pietro di Silki, periodo di riferimento 1065 – 1230 ed il condaghe di San Nicola di Trullas ( Semestene ), periodo di riferimento 1113 – 1196.

Tali documenti, redatti in lingua sarda medievale, sono stati tradotti da eminenti studiosi e pubblicati tradotti in italiano corrente. Nelle schede dei due kondaghes appare innumerevoli volte il nome di Sorso.

Prezioso supporto è stato anche lo pseudokondaghe di San Gavino (in Portu de Turres) nel testo, in terza ristampa sassarese del 1620.

I kondaghes altro non sono che una raccolta di registrazioni, relative a rilevanti operazioni economiche, quali atti di compravendita, donazioni, permute, divisioni, fissazione di termini fra proprietà (compuru, postura, permuta, parthitura etc.). Le registrazioni erano effettuate all’interno dei monasteri a cura dei Priori o Abbadesse o loro incaricati di fiducia.

Gli attori erano sempre i monaci benedettini inviati dal Papa e provenienti dalla Toscana ed i vari personaggi, pubblici e privati, viventi in quell’epoca non solo attorno al monastero ma anche lontano. I beni oggetto degli atti potevano trovarsi anche a centinaia di kilometri!

Tali registrazioni lasciano trasparire uno spaccato di vita che coinvolge un pò tutti: regnanti, grandi possidenti privati, i monasteri proprietari di

latifondi, i loro servi dei quali erano proprietari, oggetto anche questi di donazioni e spartizioni e di innumerevoli liti (kertus) che venivano dirimesse nelle Coronas (tribunali del tempo).

Lo pseudocondaghe di San Gavino, documento apocrifo del 1620, riferisce fantasiosamente sulle modalità con cui si sarebbe pervenuti alla fondazione della chiesa omonima in Porto Torres ed alla canonizzazione dei tre martiri turritani.

In effetti tale documento descrive in maniera surrealistica sia il ritrovamento dei corpi dei tre martiri turritani sia la fondazione della Cattedrale.

L’ennesimo solito artificio posto in essere dalla Chiesa per indurre il popolo credulone a prendere come vere realtà esposte artatamente in maniera distorta.

Altro documento basilare è, sia pure non integralmente attendibile trattandosi, anche in questo caso, di trascrizioni apocrife, il Libellum Judicum Turritanorum nonchè numerosi altre pubblicazioni di innumerevoli eminenti appassionati studiosi di cultura sarda.

Di tali documenti riporterò, nel corso del lavoro, ampi stralci così da dare completezza di informazione e soddisfare alcune curiosità intuibili nell’animo dei lettori. Dell’etimo del toponimo ” SORSO” mi cimenterò nell’esporre una mia supposizione.

Volendo meglio approffondire la conoscenza di storia di Sardegna mi sono avventurato anche fra le righe di quello straordinario documento, IL KONDAGHE DI SAN PIETRO DI SILKI, che, riemerso fortunosamente dal profondo buio, getta indirettamente un fascio imponente di luce sugli accadimenti storici-politici logudoresi neisecoli XI-XIII.

Il testo fù pubblicato dal Dr. Giuliano Bonazzi, bibliotecario dell’Università di Roma. Il Bonazzi, dotato di ampia e solida preparazione culturale, svolse lavori di erudizione storica, pubblicando con metodo esemplare testi documentari e narrativi di epoca medievale; primo fra essi fu, appunto, un cartolario volgare del monastero sardo di S. Pietro di Silki dei secoli XI-XIII, da lui acquistato per la Biblioteca Universitaria di Cagliari, ed edito con ampia introduzione storica e prezioso glossario linguistico (Il Condaghe di San Pietro di Silki. Testo logudorese inedito dei secoli XI-XIII, Sassari-Cagliari 1900);

Il testo è stato tradotto dal logudorese medievale all’ italiano moderno da Ignazio Delogu.

Tale kondaghe altro non è che una raccolta di trascrizioni di negozi giuridici intervenuti fra il monastero femminile benedettino di San Pietro ed innumerevoli soggetti viventi nel giudicato di Logudoro fra il 1064 ed il 1200.

Una sorta di “Archivio Notarile dei Distretti Riuniti” per lo più delle Curatorie di Flumenargia e di Romangia, ma anche di altre Curatorie del Logudoro, compresa la confinante Nurra.

Le schede sono state redatte dagli amministratori e scribani del monastero

che si sono succeduti negli anni in quella funzione.

E cosi ho potuto conoscere l’abbadessa Maria, Susanna Pinna, il prete Petru Iscarpis, prete Elias, prete Jorgi Maiule il quale, assurto poi alla cattedra della Diocesi di Plouake, ha continuato a mantenere la carica di amministratore del monastero senza avere problemi di incompatibilità.

Ed inoltre Petru Muthuru, Ithoccor de Fravile, Petru Canbella, l’abadessa Theodora e la terribile abadessa Massimilla che è stata una grande protagonista avendo anche avuto incarico, nel 1180, dal giudice donnu Barusone de Laccon-Gunale, dalla moglie di questi donna Prethiosa de Orrù e del loro figlio donnu Gosantine, di riordinare il kondaghe del monastero in quanto molte registrazioni non erano state effettuate a suo tempo.

Incarico questo che l’abadessa Massimilla svolse in collaborazione con suor Bullia Fave di nobile famiglia pisana con fortissimi interessi economici in Logudoro.

Chiaramente, per motivi di alti interessi economici, l’abadessa Massimilla non poteva da sola, cioè senza alcun controllo diretto, procedere in una operazione così di capitale importanza per i pisani e per i monasteri benedettini in genere.

Gli atti da registrare riguardavano compravendite, donazioni e lasciti, liti e controvversie per i più svariati motivi, descrizioni di confini delle proprietà terriere. I personaggi altri non erano che grandi proprietari terrieri ed i loro servi, ma anche i servi del monastero stesso che svolgevano la loro attività produttiva nelle diverse plaghe delle curatorie.

Dalla lettura attenta è stato possibile ricavare un vasto spaccato nella vita economica del monastero ma anche alcuni aspetti di vita in quelle plaghe che nessun altro documento ci ha tramandato.

Bisogna sapere che nulla è descritto in quelle schede, oltre, è ovvio, le mere parole per l’impianto dell’atto giuridico. Ma un esame introspettivo ci permette di far emergere gli aspetti anche umani, a volte anche crudi, della vita intima delle persone, la vita di relazione sociale, le sofferenze, le tribolazioni, ma anche aspetti politici che li coinvolgono.

Possiamo ricavare notizie circa la ricchezza in beni economici che il monastero poteva movimentare nel corso dell’anno. La vastità delle proprietà terriere, il numero immenso di schiavi posseduti, danno la dimensione di un impero economico vastissimo, un giro di affari immenso, una produzione di beni alimentari che andava esageratamente oltre il fabbisogno del monastero.

Beni alimentari d’ogni genere: granaglie cerealicole, fave secche, carni bovine, suine ed ovine, canne per la produzione di contenitori dei semi alimentari (le note “luscie”, silos granari di fattura artigianale di non tanto lontana memoria).

Ed inoltre formaggi, funi ricavate dalle palme nane e, nei luoghi d’acqua, specialmente in Flumenargia, fibre tessili: il pregiato lino!. E poi vini, ugualmente pregiati, ed il sale marino, tanto prezioso ed indispensabile per la conservazione degli alimenti.

Il tutto alimentava una forte esportazione verso il continente, a mezzo di ricchi mercanti pisani, e non solo, di cui non mancavano mai le loro capaci navi onerarie ormeggiate nel porto di Turris.

Il commercio alimentava, a favore dei sia dei pisani sia del convento, cospicui accumuli di denaro e materiali preziosi che venivano utilizzati negli scambi commerciali e, talora, tesaurizzati.

In Romangia, come sopra detto, era attivo anche il monastero di San Michele di Plaianu, ricchissimo anche questo tanto da contribuire, coi proventi del commercio delle produzioni agricole, anche alla costruzione della famosa cattedrale di Pisa, la Primaziale di Santa Maria; ma appare che questo sia stato niente in raffronto alla ricchezza prodotta nelle proprietà del monastero di San Pietro.

Ed i pisani ed i genovesi gli stavano con gli occhi addosso per loro tornaconto, come cagnacci pronti a mordere, non solo a questi due monasteri ma, in generale, guardavano alla classe politica del logudoro, con l’intento di farla decadere e così, mettere le mani addosso a tutta la ricchezza economica dello Stato.

Cose poi risultate riuscite dolorosamente.

Lo sappiamo come è finita per i quattro giudicati sardi. La storia è maestra. Non è nostro compito qui trattare di storia, non abbiamo neppure sufficiente conoscenza nè capacità di introdurci in un tale ambito, non ostico, ma complesso e tanto vasto e poi, in definitiva, non è questa la sede.

Qui mi limiterò solo ad una umile analisi ed un commento breve d’un paio di schede che, forse sono quelle che possono, più di altre, avere rilevanza per il fine di questo opuscolo.

Mi piace, fra le altre cose, se possibile, trascrivere una mia traduzione in italiano di quel pseudocondaghe che, stampato in Sassari nel 1620, vuole dare una descrizione fantasiosa della fondazione di quella che è stata cattedrale di Turres ed il ritrovamento dei corpi dei tre martiri turritani.

Oltre al testo apocrifo del 1620, e relativa traduzione da me fatta in italiano corrente, esporrò fra le altre cose, alcune immagini e foto di luoghi, magari non del tutto consoni con l’epoca degli antichi avvenimenti, ma sempre di persone che con Sorso hanno attinenza.

Un particolare spazio sarà dedicato all’origine del blasone “sussinchi macchi” che connota i sorsensi per via della nostra bella fontana ed all’origine del toponimo che la distingue: ” La Billellara”.

Ricordo ai lettori che avranno la bontà di leggere che non sono uno scrittore tale come si intende comunemente ma che, solo per puro diletto, mi voglio dedicare, fra le altre cose, ad assolvere un impegno così gravoso.

Chiedo venia in anticipo e assicuro che profonderò quanto più potrò del mio impegno per una discreta riuscita di questa che in definitiva altro non è, in massima parte, che una mera esposizione di avvenimenti ripresi da documenti e maldestramente o, piuttosto non professionalmente ed alquanto disorganicamente esposti.

Spero che l’iniziativa sia accolta gradevolmente e che, sia pure parzialmente, soddisfi alle curiosità della gente.

 

Capitolo primo

 

Storia della Sardegna giudicale

I Giudicati sardi furono entità statuali autonome che ebbero potere in Sardegna fra il 1000 ed il 1300. La loro organizzazione amministrativa si differenziava dalla forma feudale vigente nell’Europa medievale in quanto più prossima alle esperienze tipiche dei territori dell’Impero bizantino, con istituti giuridici romano-bizantini, sebbene con peculiarità locali che alcuni studiosi considerano di presumibile derivazione nuragica.

Furono Stati sovrani dotati di summa potestas (capacità di stipulare trattati internazionali) e governati da Re chiamati Giudici, in sardo Judiches. Nel contesto internazionale del Medioevo si contraddistinguevano per la modernità della loro organizzazione rispetto ai coevi regni europei di tradizione barbarico-feudale, trattandosi di stati non patrimoniali (non di proprietà del sovrano) ma super individuali, cioè del popolo che esprimeva la sovranità con forme semi-democratiche come le Coronas de curatorias le quali a loro volta eleggevano i propri rappresentanti alla massima assise parlamentare chiamata Corona de Logu. I Giudicati conobbero l’influsso dell’architettura romanica e, culturalmente mutarono in modo sostanziale – nel corso dei secoli – oscillando tra un sistema di tipo feudale ed un sistema giuridico che contemplava il progressivo affrancamento delle popolazioni rurali. Il Re o Giudice governava sulla base di un patto col popolo, il cosiddetto bannus-consensus, venuto meno il quale il sovrano poteva essere detronizzato ed anche legittimamente ucciso dal popolo medesimo, senza che questo incidesse sulla trasmissione ereditaria del titolo all’interno della dinastia regnante.

Cause storiche dell’avvento dei Giudicati La Sardegna fu sino all’VIII secolo una provincia dell’Impero bizantino, da Giustiniano e Belisario riconquistata ai Vandali nel 535. Gli Arabi in poco più di ottanta anni conquistarono un vasto impero e gli Abbasidi di Baghdad svilupparono loro flotte e condussero un’imponente operazione di conquista delle isole più vicine a Bisanzio. In questo contesto dal 703 al 733 la Sardegna subì una serie di incessanti attacchi che tendevano a distruggere la potenza navale bizantina, mentre gli Omayyadi di Damasco, consapevoli dell’invincibilità araba in terraferma, condussero un’espansione di terra lungo le rive meridionali del Mar Mediterraneo

La nascita dei quattro Giudicati

La quasi totale assenza di fonti storiografiche non consente di avere certezza sul passaggio dall’autorità bizantina centrale alla nascita dei quattro giudicati autonomi. Restano larghe zone d’ombra. A fronte dell’unica fonte incontrovertibile costituita dalla epistola inviata da Papa Gregorio VII il 14 ottobre 1073 ai quattro Giudici (Orzocco, Torchitorio, Mariano, Costantino) che, citando i loro antiqui parentes palesa il radicamento storico delle generazioni giudicali, per quanto riguarda le nebulose fasi tra il IX e l’XI secolo si ritiene che vi sia stata una evoluzione graduale avvenuta in un contesto di rapporti sempre più rarefatti con Bisanzio a fronte di nuovi rapporti ed equilibri con altre entità statuali influenti nel bacino occidentale del Mediterraneo. Le fonti più importanti in merito sono le epistole papali del IX secolo: • prima dell’800 – le missive erano indirizzate ad un Ipatos, un

Consul che accorpava le funzioni del Praeses e del Dux militare; • 840 – il geografo arabo Ibn Khordadbeh relaziona sulla presenza in Sardegna di un batrìq, console di Sardegna, Baleari e Corsica; • 851 – papa Leone IV scrive allo Iudex Sardiniae per chiedere l’invio di un reparto militare a Roma e la fornitura di lana marina, il bisso, per la confezione degli indumenti pontifici; • 864 – papa Nicolò I stigmatizza le unioni di natura incestuosa (matrimoni fra consanguinei) che intercorrono da anni tra gli Iudices sardi (usa quindi il plurale); • 915 – l’imperatore Costantino VII Porfirogenito tra i vari ufficiali imperiali cita un arconte per la Sardegna.

Da questo sistema di informazioni si possono trarre alcuni ragionevoli spunti di riflessione: Bisanzio lasciò al governo di Sardegna, Corsica e Baleari un arconte con sede a Cagliari. La figura dell’arconte unificava i poteri civili del praeses con quelli militari del Dux. Nel 1990 è stato rinvenuto a Tharros (l’antica capitale arborense precedente alla fondazione di Oristano) un sigillo recante l’iscrizione in lingua greca Zerchis àrchon Arbor (Zerchis arconte d’Arborea), e questo significa forse che la figura dell’arconte venne moltiplicata per favorire il controllo e la risposta difensiva nei diversi territori soggetti alle incursioni moresche.

Nel corso del IX – X secolo le figure imperiali presenti in altri distretti dell’Impero bizantino assunsero una natura dinastica e familiare come avvenne ad esempio a Venezia e Napoli.

Si assistette quindi ad un processo di radicamento al potere di una stessa famiglia nei diversi giudicati, i Lacon Gunale (affiancata da altre famiglie aristocratiche).

Ciò lo si evince dall’appartenenza sin dalle origini di tutti i quattro giudici sardi, di cui si ha notizia, a questo ceppo originario e dalla pratica dei matrimoni tra consanguinei che denota la loro volontà di mantenere la purezza e la forza dei diritti di successione.

Le diverse tesi sulle casate regnanti

Sono state elaborate al riguardo alcune tesi sulle origini della casata dei Lacon Gunale:

tesi bizantina: I Lacon Gunale sarebbero della famiglia aristocratica dell’Arconte lasciato in carica dall’Imperatore. È verosimile che l’Arconte, tra l’851 e l’872 abbia diviso la Sardegna in quattro aree militari presiedute ciascuna da uno Iudex proveniente dalla propria famiglia.

Tuttavia si sentì il bisogno dell’investitura della Corona de Logu composta dai maggiorenti del regno. Tra la fine del IX e l’inizio

dell’XI secolo i quattro distretti assunsero autorità autonoma uno dall’altro divenendo Giudicati;

• tesi autoctona: recenti studi (Paulis, Bertolami) danno invece luogo ad una tesi sulla sardità della dinastia giudicale dei Lacon Gunale in forza soprattutto del fatto che Lacon e Gunale erano i nomi di alcuni villaggi della Sardegna centrale e che alcuni nomi di giudici, molto frequenti nelle genealogie, come: Zerchis, Torchitorio, Ithoccor, Salusio, Othoccor, Orzocco, sono, da un punto di vista linguistico, riconducibili ad un substrato sardo – pre latino – che probabilmente riuscì a sopravvivere alla romanizzazione e che riprese forza sin dai tempi del Dux Hospitone, capo dei barbaricini, oggetto delle epistole di Papa Gregorio Magno del VI secolo d.C.; • tesi esterna: i riferimenti culturali merovingi e carolingi presenti negli usi e sigilli della cancelleria giudicale turritana, utilizzati per segnare la fonte dell’autorità regnicola, potrebbero far riferimento a fatti a noi non più noti che determinarono l’investitura monarchica a favore di qualche

• dux turritano avvenuta ad opera dei franchi nel IX – X secolo, in occasione della difesa congiunta di Sardegna e Corsica dai Saraceni, con un Praeses cagliaritano libero dall’influenza carolingia.

Potrebbe essere comunque probabile anche una tesi mista che, compenetrando le tre precedenti, evidenzierebbe il rafforzamento di una dinastia di ceppo bizantino lasciata al potere dall’Impero, che si apparentò e legò alle principali famiglie latifondiste sarde le quali esercitavano una discreta influenza sul governo giudicale tramite lo strumento consiliare della Corona de Logu.

Ciò forse in un processo di distacco dall’autorità centrale cagliaritana di qualche gruppo aristocratico che, probabilmente, riuscì a ottenere una legittimazione imperiale franco durante l’isolamento e gli attacchi saraceni del IX-X secolo. In particolare è di estremo interesse il fatto che avvenne nel 1065 con Gonario-Comita giudice di Torres e Arborea (de ambos logos), della famiglia Lacon-Gunale, non si sa se a seguito di acquisizione matrimoniale o per un unico regno originario. Il figlio, Barisone I ebbe due eredi, Andrea Tanca e Mariano I, che divisero il regno tra Torres e Arborea, dando origine a due casate distinte (e forse alla nascita formale del Giudicato di Arborea), quella dei Lacon-Gunale giudici di Torres e quella dei Lacon-Zori giudici di Arborea. In Arborea si succedettero in particolare le dinastie dei Lacon-Serra prima e dei Serra-Bas dopo, a seguito dell’apparentamento con la casata catalana Bas-Cervera nel 1157.

Questo fatto potrebbe confermare che dal primo regno sardo con sede a Cagliari, gemmò quello di Torres (forse per investitura carolingia nel IX secolo) e, successivamente, quello di Arborea per gemmazione familiare.

Per la Gallura si rinnova l’ipotesi di gemmazione dal ceppo familiare Lacon-Gunale cagliaritano, tuttavia non va ignorato il nome del primo giudice storicamente documentato nel 1050, Manfredi, che lascerebbe presumere un controllo diretto dei Pisani subentrato a quello autoctono a seguito dello scontro vittorioso con i pirati saraceni. Una questione ancora irrisolta riguarda la Barbagia. I confini geografici dei quattro giudicati nella Sardegna centrale convergono verso le zone interne e, in particolare, la Barbagia viene divisa in quattro partes.

Ciò non è di facile comprensione ma forse denota la volontà di suddividere la gestione problematica delle libere popolazioni pastorali (conservative e poco urbanizzate) della Sardegna interna (autonoma da Bisanzio fino al VII secolo) o, in alternativa, se fosse valida la deduzione sull’origine autoctona delle dinastie giudicali precedentemente citata, questa zona sarebbe quella che darebbe in parte origine alle casate giudicali ed ai quattro regni

L’aristocrazia fondiaria e lo stato dei cittadini giudicali

La Sardegna medievale era una terra dove vigeva il sistema delle signorie fondiarie accompagnate da un sistema di fondi demaniali dati in libera concessione ai cittadini delle ville del giudicato. La popolazione servile – i servos – residente presso le tenute agricole padronali chiamate domus, prestava la propria opera al donnu (signore del distretto rurale) per 4 giorni lavorativi su 6 (tolta sa Dominica). Gli altri 2 giorni erano destinati al sostentamento della propria famiglia e, spesso, all’accumulazione di beni per l’acquisizione del proprio affrancamento dalla condizione servile per entrare nella classe dei livertados (liberi).

Le dure condizioni servili imponevano che le persone non si potessero spostare dalla curatoria di residenza e che il signore stabilisse anche i matrimoni all’interno del proprio territorio, finendo per campare i diritti di servitù verso la prole.

Le stesse condizioni vigevano presso i monasteri che basavano le proprie entrate anche sul lavoro dei servi esattamente come avveniva per i signori dell’aristocrazia fondiaria.

Le cessioni immobiliari delle aziende agricole e dei borghi rurali, trasferivano anche la proprietà delle genti asservite. Lo stato e le condizioni della popolazione rurale cambiò moltissimo nel corso di cinque secoli passando da una sorta di servitù della gleba alla quasi completa libertà di tutti i cittadini nel periodo di Eleonora d’Arborea (e ciò forse spiega l’appoggio popolare dei Sardi alla giudicessa per il timore che il successo dei Catalani avrebbe, come poi successe realmente, imposto un ritorno alle condizioni servili di tipo feudale).

In Sardegna si diffuse un ceto di cavalieri – piccoli proprietari terrieri – detti Lieros de Cavallu, che prestavano servizio militare verso il giudicato, sul solco forse della tradizionale figura bizantina dei Kaballarioi: cavalieri sovente esentati da tributi e dotati di un fondo rurale di proprietà per il sostentamento.

Ma sin dalle origini più remote dei giudicati si affermò una classe di famiglie latifondiste imparentate con i giudici chiamata dei Donnos majorales che, probabilmente, costituirono l’insieme dei membri che affiancavano il giudice nel controllo dei giudicati con le Corone de Logu, soggetti di autorità giurisdizionale ed attribuzione della legittimazione al governo dei Giudici.

Così avvenne, tra le altre, per le famiglie Lacon, Gunale, De Thori, Athen, Serra, Kerki, Gitil, Carbia. L’aristocrazia fondiaria assisteva inoltre il giudice nella predisposizione dell’esercito: i documenti citano oltre ai Lieros de cavallu anche le figure dei Buiachesos e dei Maiores de ianna, le guardie giudicali derivanti in tutta probabilità da quegli eskoubitores, guardie imperiali bizantine, che includevano contingenti di Sardi presso il palazzo imperiale di Costantino VII Porfirogenito.

Su Collectu ed il Bannus Consensus

La cerimonia di investitura detta su collectu era estremamente solenne. Nell’assemblea i maggiorenti che vi partecipavano si disponevano in circolo (Corona de Logu) e al centro si collocava colui che aveva il compito di presiederla.

La Corona circoscriveva e definiva le attribuzioni e l’ambito del potere del Giudice, ovvero la sua attività di governo, quella giuridica e quella militare. In un’epistola del 1216 al Papa, la Giudicessa (juyghissa) reggente Benedetta descrive la confirmatio del popolo, in cui lo Iudex diventa tale per boluntade de Donnu Deu ed è rappresentata materialmente dalla consegna del baculum regale (lo scettro), quod est signum confirmationis in regnum. La Giudicessa comunicava inoltre di aver dovuto giurare di regnum non alienare, neque minuere, et castellum alicui aliquo titulo non donare neque pactum aut societatem aliquam cum gente extranea inire aliqua tenus aut facere sine consensu eorundem.

Si evince quindi che il Giudice aveva una sovranità formalmente limitata dal rispetto del Consensus e che nulla poteva disporre senzal’approvazione della Corona de Logu. Il Giudice era pertanto il garante degli equilibri collettivi fondati sul diritto ed il capo dello Stato con l’esercizio dei tre poteri sovrani sul territorio: rennare-potestare-imperare.

Lo Iudex che si fosse macchiato del superamento di tale ordine condiviso, avrebbe tradito il fondamento stesso del proprio potere e, perso il consensus, avrebbe potuto essere destituito e legittimamente giustiziato (come qualche volta storicamente è provato che avvenne).

Organizzazione giudicale centrale

Fondendo tradizioni autoctone (usi e istituti di incerta e teorizzata derivazione nuragica) ed istituti giuridici romano-bizantini, i quattro giudicati si discostavano dai contemporanei regni medievali in quanto non sottoposti ad un regime privatistico, secondo la tradizione barbarico-feudale europea.

I Giudicati erano retti da una particolare forma di monarchia, mista tra quella ereditaria e quella elettiva, per cui i monarchi venivano generalmente scelti nella famiglia del defunto Giudice secondo le proprie regole di successione, ma la loro scelta veniva formalmente effettuata dalla Corona de Logu, il Parlamento giudicale. Le caratteristiche principali dei regni giudicali erano, come già detto, la loro natura superpersonale e la loro organizzazione amministrativa.

Lo Iudex sive rex nell’espletamento del suo regno giudicale era infatti assistito da una complessa organizzazione burocratica: una centrale e una periferica. Vi era, innanzitutto, una perfetta distinzione tra i beni privati dello Iudex e quelli statuali pubblici:

• il patrimonio pubblico del fisco, altrimenti detto Rennu, costituito dai terreni demaniali, dalle imposte e dalle multe, era curato dal sovrano in nome e per conto del consensus attribuito dalla Corona de Logu;

• il patrimonio posseduto da Giudice per diritto privato era detto peculiares o pegugiare ed era nella libera disponibilità dal Giudice.

L’attribuzione di un fondo demaniale ad un privato cittadino, mercanti o istituzioni religiose, era detta secatura de rennu (cioè stralcio dalla res statuale). In tal senso si può affermare che il sistema feudale in senso privatistico non fu presente nella Sardegna medievale ma si affermò solo nellaseconda metà del Quattrocento, ad opera della corona catalana prima, e spagnola dopo.

La Corona de Logu e il consiglio centrale

L’amministrazione centrale e l’intera società giudicale facevano naturalmente perno sostanziale sul Giudice, tuttavia il sovrano nonaveva il possesso del territorio né era il depositario della sovranità in quanto questa era formalmente della Corona de Logu, un Consiglio di maggiorenti (rappresentanti dei distretti amministrativi detti Curatorie) e alti prelati, che nominava il sovrano e gli attribuiva la somma potestà, mantenendo tuttavia il potere di ratificare gli atti e gli accordi che riguardassero l’intero regno (su Logu).

Durante su Collectu (il collegio) si riunivano nella capitale un rappresentante di ciascuna Curatoria, i membri dell’alto clero, i castellani, due rappresentanti della capitale eletti da jurados delegati dalla Coronas de Curadoria (precedentemente riunita nella principale villa distrettuale), quindi lo Judex sive rex era incoronato con un sistema misto elettivo-ereditario seguendo la linea diretta maschile e, solo in via alternativa, quella femminile.

Come detto il giudice governava sulla base di un patto col popolo (il bannus-consensus), venuto meno il quale il sovrano poteva essere detronizzato ed anche, nei casi di gravi atti di tirannide e di sopruso, legittimamente giustiziato dal popolo medesimo, senza che questo incidesse sulla trasmissione ereditaria del titolo all’interno della dinastia regnante: è storicamente attestato che ciò sia avvenuto nei Giudicati di Arborea e di Torres.

I Giudici

Nei sigilli in piombo facenti parte delle pergamene giudicali era scritto il nome del giudice seguito dal titolo di Rex, tuttavia il Giudice non era un sovrano assoluto di tipo feudale, almeno nella forma: egli non poteva dichiarare guerra, firmare trattati di pace o disporre del patrimonio del Giudicato senza l’assenso della Corona de Logu, tuttavia essendo questa composta prevalentemente dalle aristocrazie ad esso imparentate e, quindi, accomunate dagli stessi interessi di tipo fondiario, di fatto i giudici si qualificavano come Rex con autorità pubblica.

La successione al trono era di tipo dinastico (di diritto) ma vi era la possibilità di reggenze di fatto, con prevalenza del criterio elettivo ad opera della Corona De Logu. Quando era ancora in vita il Giudice veniva indicato il suo erede designato onde evitare scontri e problemi sulla successione.

I Giudici si distinsero per le rilevanti ricchezze patrimoniali di famiglia derivanti dalle grandi proprietà terriere direttamente gestite: le Donnicallie, derivanti in tutta probabilità dall’istituto delle dominicalie.

Ciò conferma che la nascita del potere dei giudici e delle aristocrazie ad essi imparentate avvenne su base fondiaria. Il giudice inoltre rese assai solido il proprio potere con la concessione della gestione di alcuni fondi demaniali ai funzionari e ai militari più fedeli.

Interessante anche il fatto che i giudici non avessero inizialmente una sede fissa in quanto le corti giudicali erano itineranti nei vari territori curatoriali (lasciando capire l’importanza del territorio rappresentato dalla Corona de Logu) anche se avevano comunque sedi di residenza privilegiata: Pluminos e successivamente Santa Igia per i giudici di Calaris; • Torres e poi Ardara per i giudici di Logudoro;

• Tharros e poi Oristano per i giudici di Arborea;

• Civita (Olbia) per i giudici di Gallura.

Inoltre vi era l’esigenza di avere altri luoghi distanti dal mare soggetto alle ostili incursioni saracene.

La Cancelleria giudicale

Nel governo del territorio, sempre a livello centrale, il Giudice era assistito da una Camera Scribaniae (Cancelleria Giudicale). L’autorità sovrana era infatti formalizzata con la stesura di atti ufficiali detti Carta bullata, scritti dal Cancelliere statale, in genere un vescovo o comunque un alto esponente del clero, coadiuvato da altri funzionari denominati majores (tra i quali il più importante era il majore de camera).

Il sistema di gestione della cancelleria giudicale innestava elementi indigeni e latini in un sistema avente matrice greco bizantina. Vi erano comunque differenze tra i giudicati dovute alle differenti vicissitudini politiche e commerciali dei giudicati. Così ad esempio:

• la cancelleria cagliaritana era attenta nel riportare l’origine bizantina del potere giudicale isolano, richiamandone in greco le origini e gli attributi. I primi giudici si fregiavano dei titoli prestigiosi di Arconte di Sardegna o Protospatario Imperiale, con nomi tipizzati tipo Torcotorio, Getite, Salusio, Costantino, Ortzocor, Nispella che evidenziavano una chiara derivazione dal mondo culturale orientale, spesso rilevabile anche nella decorazione architettonica ecclesiastica di alta scuola medio bizantina, di cui erano committenti.

• la cancelleria turritana utilizzava prevalentemente il latino e faceva riferimento a rapporti diplomatici con la Francia merovingia e carolingia, indipendente da Cagliari e con riferimenti imperiali e papali quali fonti di legittimazione del potere.

Le milizie giudicali

I giudicati sardi fondavano la propria forza militare su un esercito regolare e su truppe composte da soldati, liberi cittadini, soggetti arotazione periodica e, in caso di emergenza, all’arruolamento forzoso dei servi del regno. Il corpo scelto era costituito dai c.d. Bujakesos, cioè i guardiani del giudicato, cavalieri scelti e di professione che prestavano il servizio regolare sotto il comando del Majore de janna, il comandante addetto alla sicurezza del sovrano.

Corpi di bujakesos operavano in missione anche a livello di singola curatoria con funzione di vigilanza, scorta, controllo, e supporto alle truppe locali dette Iskolka, poste al servizio del Curatore. Il servizio come bujakesos era prestato a turno anche da liberi cavalieri (lieros de caballu) possidenti terrieri.

La c.d. Kita de bujakesos richiama infatti la rotazione settimanale dei cavalieri (kita in sardo significa ancora oggi “settimana”), al servizio della guardiania giudicale e della vigilanza dei confini del regno, anche per la tutela dei propri interessi e proprietà. Questo sistema consentiva ai giudici di risparmiare sulle spese militari e di mantenere l’addestramento di un buon numero di cittadini, sotto l’abile guida dei bujakesos di professione.

L’armamento principale, oltre alla spada, la cotta di maglia, lo scudo e l’elmo col nasale, era il temuto birrudu, arma sia da lancio che da taglio, discendente dall’antico verutum, il giavellotto romano.

Nella variante locale essa era dotata di lama ricurva e, nell’altra estremità, di un pesante puntale metallico capace di forare armature e scudi in caso di corpo a corpo. Le milizie di terra e i fanti (Birrudos) utilizzavano il questa stessa arma in una versione più corta, ancor più adatta alla mischia.

Oltre all’uso di comuni lance e scudi un’altra arma caratteristica era la leppa, sciabola con manico d’osso e lama ricurva, lunga tra i 50 e i 70 cm, ancora in uso, in una versione più contenuta, fino alla fine del XIX secolo ed oggi nella versione compatta a serra-manico.

In Sardegna veniva prodotto inoltre un ottimo arco lungo, in legno di tasso e si diffuse nel tempo anche l’uso della balestra, utilizzata dai c.d. Balisteris.

Durante i conflitti era abituale coscrivere forzosamente cittadini e servi maschi, dotandoli di archi, leppe o di un tipo di giavellotto pesante e rudimentale detto Virga Sardesca. Si formavano così contingenti di Lantzeris o, se muniti di cavallo, di Caddigatores (cavalleria leggera). In caso di conflitti di particolare rilevanza i giudici fecero sovente ricorso a contingenti di mercenari, come ad esempio i temuti balestrieri genovesi.

Organizzazione giudicale locale

 

Le Curatorie

Secondo tanti giuristi le curatorie sono il vero gioiello dell’organizzazione giudicale. La Sardegna giudicale aveva infatti un territorio (su logu) suddiviso in Curadorias, cioè in distretti amministrativi di varia estensione, formati da centri urbani e ville rurali, dipendenti da un capoluogo dove aveva sede il Curadore. Questi, coadiuvato soprattutto in materia giudiziaria da Jurados e da un consiglio detto Corona de Curadoria, rappresentava localmente l’autorità giudicale e curava il patrimonio pubblico della Corona.

Frutto di una lunga e precedente costruzione storica, quello delle Coronas fu un governo assembleare che si ipotizza facesse rivivere lo spirito del parlamento del villaggio nuragico, composto dalle persone maggiorenti e presieduto dal capo del cantone per discutere questioni riguardanti la comunità (o le comunità se erano confederate), e per amministrare la giustizia. Secondo lo studioso della storia sarda Giovanni Lilliu – fu quello uno degli aspetti più interessanti della civiltà nuragica.

Questo sistema di governo assembleare sopravvisse all’interno dell’isola e si ritrovò, dopo duemila anni, nello spirito delle Coronas giudicali con le curatorie – si pensa – che ricalcavano la grandezza e la forma di quelli che in epoca nuragica furono i cantoni.

Il Curatore era di nomina regia o comunque approvato dal judike. Egli aveva un mandato a tempo determinato con autorità sull’esazione fiscale, sull’azione giudiziaria penale e civile, sugli organi di polizia, Iskolka, e sull’arruolamento dell’esercito. La sua attività era comunque incentrata sul controllo ed il potenziamento della gestione rurale, fonte della ricchezza giudicale.

Non erano ammesse dal Giudice inadempienze ed inerzie nella conduzione della Curatoria in quanto l’ordinamento giudicale riteneva il curatore responsabile in modo diretto del progresso o dei ritardi della Curatoria, soprattutto in tema di sicurezza e prevenzione degli incendi.

I confini di questi distretti venivano definiti per far sì che la popolazione residente in ogni curatoria fosse approssimativamente uguale; di conseguenza i confini erano fluidi e dipendevano dai diversi tassi locali di crescita demografica: pertanto le Curatorie erano probabilmente delle unità censuarie.

Le curatorie erano inoltre distretti elettorali: gli uomini liberi di ogni curatoria si riunivano periodicamente in assemblea al fine di eleggere il proprio rappresentante presso la Corona de Logu. Questo sistema amministrativo era radicato ed estremamente efficace per la gestione del territorio e venne meno con l’imposizione del sistema feudale da parte degli Aragonesi, nel corso del XIV e soprattutto del XV secolo.

Il Majore

Il Curatore nominava per ciascun villaggio facente parte della Curatoria un majore de Bidda (l’equivalente odierno di un sindaco) con competenze amministrative e di investigazione giudiziaria, con responsabilità diretta sul buon fine delle azioni di gestione del territorio.

I centri abitati e l’insediamento rurale

Nell’XI e nel XII secolo in Sardegna si assistette ad un aumento della popolazione (che successivamente crollò nel XIV secolo). Alcuni centri abitati come Sassari, favorita dal declino di Turris, crebbero per popolazione e importanza proprio a partire dalla prima metà del XII secolo.

La Sardegna giudicale era caratterizzata da un insediamento urbano costituito da Ville (biddas), i centri abitati più importanti (capoluogo di Curatoria e non) e da un insediamento rurale sparso, fatto di piccoli borghetti rurali, caratterizzati da autosufficienza e scambi commerciali spesso basati sul Baratto. Queste erano le principali tipologie insediative e rurali

• Centri cittadini – gli aggregati più grandi divennero sedi dei giudicati o dell’insediamento mercantile e religioso di maggiore importanza.

• Ville – Paesi di riferimento per ampi territori, le curatorie, sede di funzionari giudicali.

• Domus – Complesso di abitazioni rurali baricentro di un’azienda agricola coltivata a vigneti, orti, colture cerealicole, allevamento, dotata di servi legati al loro fondo.

• Domesti(c)a – Spesso si trattava di un frazionamento della Domus.

• Curtis – Piccola e recintata unità insediativa di poche abitazioni e persone addette al lavoro.

• Saltus – generalmente era un terreno di tipo latifondistico lasciato incolto al libero pascolo o alla gestione forestale.

Domus e Domestia erano spesso di proprietà privata di singoli Donnu (Domnus). I villaggi erano in origine 900 e più nell’intera isola poi ridottisi, dopo il XIV secolo a seguito della peste, della guerra giudicale-aragonese o dell’assorbimento urbano legato alla crescita dei centri principali, agli attuali 380 circa.

Su Fundamentu

Del territorio della villa, chiamato Fundamentu (i fondi rurali), solo la parte più vicina al villaggio veniva recintata e coltivata da singoli proprietari. Il resto del territorio era proprietà di tutta la collettività (una sorta di demanio) ed era diviso in due parti che venivano destinate ad anni alterni alla semina (era la parte chiamata biddatzone) e a pascolo (chiamato paberile).

Ma il Fundamentu dato in concessione dal giudicato, è un concetto sofisticato per i tempi in quanto indica non solo il fondo fisico ma anche una dotazione rurale definita dal giusto sostentamento e dai bisogni dei cittadini residenti nella villa o nel borgo. Anche la parte più lontana e periferica dello stesso villaggio era demaniale.

Questa gestione comune dei beni di interesse diffuso e la difesa collettiva del territorio può far ipotizzare un probabile influsso del substrato culturale nuragico, precedente alla romanizzazione dell’isola, ma ancora viva in alcune usanze e tradizioni comuni.

I Regni giudicali

Secondo le analisi più recenti gli Iudex dovevano coordinare la difesa territoriale in una Sardegna le cui comunità esprimevano un concreto bisogno di protezione dalle incursioni nemiche, le quali, essendo frequenti lungo tutte le coste, sarebbero di fatto il fattore determinante per la nascita di quattro distretti militari in luogo di quello unico lasciato dall’Impero, con sede a Cagliari.

I quattro Giudicati di Calaris, Arborea, Torres e Gallura divennero veri e propri Stati medievali costituiti da quattro fondamentali elementi: nazione, territorio, vincolo giuridico, sovranità. Stati dotati di summa potestas nazionale e internazionale, non recognoscentes superiorem.

I Giudicati si caratterizzarono fin dall’inizio come Stati super individuali in quanto la sovranità dello Iudex sovrano, benché ereditaria, non sorgeva da una legittimazione superiore (ad es.: diritto divino) ma dall’approvazione delle comunità aristocratiche giudicali: erano i donnos fondiari che attribuivano l’imperio allo Iudex sive rex, tramite la Corona de Logu (il Consiglio che rappresentava totu su logu cioè l’approvazione di tutti i cittadini dello Stato) e, solo a seguito di un giuramento – il bannus-consensus – espresso durante l’assemblea solenne di incoronazione.

La Corona de Logu sceglieva inoltre il successore qualora, alla morte del giudice senza eredi designati, vi fossero diverse opzioni dinastiche sussistenti in alternativa nella stessa famiglia al potere. Ciò che determinava l’attribuzione del Consensus erano prevalentemente due mandati vincolanti per lo Iudex:

• il coordinamento della difesa militare;

• la protezione degli ordinamenti giuridici medievali, radicati e condivisi.

Ognuno dei quattro Stati aveva confini incastellati a protezione degli interessi politici e commerciali, oltre ad avere proprie leggi, propria amministrazione e propri emblemi. Le poche fonti storiche tra 800 e 1050 non consentono, come visto, di effettuare affermazioni certe sullo sviluppo e l’organizzazione originaria di questi regni autoctoni, si sa invece che si affacciarono al nuovo millennio con una struttura territoriale e amministrativa già abbastanza definita e con un sistema giuridico completo e riconosciuto sul territorio.

Al sovrano spettava il supremo potere ed aveva la prerogativa di nominare i suoi amministratori locali (Majores de villa), si da creare una rete di funzionari a lui fedeli nel Giudicato.

Tutti e quattro furono retti da Giudici inizialmente appartenenti alla potente famiglia dei Lacon-Gunale la quale, secondo l’opinione di alcuni storici del Medioevo sardo come Francesco Cesare Casula, potrebbe essere stata la legittima titolare nell’ultimo periodo di dominazione bizantina della Sardegna, prima dell’abbandono dell’isola a sé stessa, con l’ufficio di Iudex Provinciae nei territori che poi sarebbero corrisposti alle ripartizioni Giudicali.

L’origine storica dei regni sardi medievali risiederebbe, quindi, nell’evoluzione delle antiche circoscrizioni bizantine in entità sovrane autonome.

Ma non è da scartare nemmeno la tesi di Sergio Atzeni, secondo cui i regni sardi nacquero non per evoluzione dalle entità amministrative bizantine, ma anzi da un’invasione e conquista militare delle stesse da parte dei Sardi autoctoni che, approfittando della debolezza militare di Bisanzio, avrebbero invaso i territori occupati dai Bizantini.

IL GIUDICATO DI TORRES

 

Nel nord dell’isola si trovava il Giudicato di Torres o del Logudoro, con capitale inizialmente Turris (odierna Porto Torres), poi Ardara e infine Sassari. Il giudicato si estendeva sul territorio corrispondente all’odierna provincia di Sassari ed alle parti più settentrionali delle attuali province di Oristano e Nuoro oltre alla parte a sud ovest di quella di Olbia-Tempio. Questo regno giudicale, di tradizione (e forse investitura) vicina a quella carolingia negli usi diplomatici e di cancelleria, promosse più di altri l’insediamento degli ordini monastici in particolare nel periodo del giudice Gonario II di Torres – XII secolo – e si scontrò spesso con pisani e genovesi contrapposti dalle mire commerciali sul Logudoro.

La sua autonomia statuale venne meno allorché la sua ultima regina, Adelasia, venne abbandonata dal legittimo consorte (Enzo di Sardegna, figlio di Federico II di Svevia) e lasciò il regno nelle mani rapaci dei suoi vassalli (1259). Il giudicato venne così suddiviso tra le potenti famiglie dei Doria e dei Malaspina, ma perse importanti territori anche a favore del confinante giudicato di Arborea, mentre l’ultima capitale Sassari divenne una Repubblica pazionata (confederata) con Genova, diventando il primo libero Comune dell’isola. A testimonianza del suo passato si trovano ad Ardara i resti del

castello del giudice e l’antica cappella palatina dei Giudici turritani santa Maria del Regno che ospita un grandioso retablo con sfondo dorato. I Giudicati segnarono l’affermazione di un sistema culturale che presentava diverse peculiarità rispetto ad altri stati medievali coevi.

I Giudici tuttavia non furono sovrani isolati e lontani dalle dinamiche internazionali. Furono infatti inseriti nelle dinamiche storiche medievali come le Crociate, l’avvento del monachesimo, la lotta tra impero e papato, tra guelfi e ghibellini, i traffici commerciali mediterranei.

Sia l’architettura che la cultura romanica prima, e quella di influsso catalano dopo, assunsero una caratterizzazione legata alla rielaborazione culturale locale, che si espresse anche nel campo del diritto, con l’equiparazione dei cittadini di fronte alla legge, sottratti al libero arbitrio dei signori locali, come invece era tipico di tanti altri sistemi di derivazione barbarico-medioevale.

Il Diritto e la Carta de Logu

« Poiché l’elevamento dei popoli e degli stati dipende dall’osservanza di quel diritto universale che è dettato dalla ragione, noi Eleonora, per grazia di Dio giudicessa d’Arborea, affinché la giustizia sia salva, i malvagi siano frenati dalla paura delle pene e i buoni possano vivere in pace, obbedendo alle leggi, facciamo questi ordinamenti. »

(Dall’introduzione alla Carta de Logu, Eleonora d’Arborea)

Le Cartas de Logu sono raccolte di norme penali, pubbliche, civili e fondiarie di grande importanza in vigore nei diversi Giudicati. Della Carta Caralitana si sono purtroppo conservate solo poche parti. La Carta de Logu del Giudicato di Arborea segna, verso la fine del Trecento, la nascita di uno Stato di diritto ad opera di Mariano IV prima e di sua figlia Eleonora dopo, la quale ha esteso la portata delle norme per adattarle ad una realtà mutata nelle condizioni sociali. La Carta è scritta in sardo (del ceppo logudorese) e da ciò si evince l’intento giudicale di renderla nota effettivamente ai cittadini in modo da renderli consapevoli sui comportamenti leciti e su quelli non leciti, con i conseguenti risvolti penali. Si definisce quindi una situazione di certezza del Diritto.

La Carta sopravvisse, sia pure con qualche difficoltà, al periodo giudicale e rimase in vigore in epoca spagnola e sabauda fino all’emanazione del Codice di Carlo Felice dell’aprile del 1827. Dallo studio della Carta si evince una grande attenzione della Giudichessa verso la tutela della sicurezza delle campagne e delle produzioni agricole, compreso l’allevamento dei cavalli e la produzione del cuoio, anche a scapito della pastorizia.

Ciò denota una grande attenzione verso la base produttiva che sosteneva gli sforzi degli eserciti nella lotta per l’indipendenza della Sardegna.

Per lo studio del periodo giudicale fra l’XI e il XIII secolo rivestono grande importanza anche i Condaghi. Termine di origine bizantina (kontakion – bastone su cui verrivano arrotolate delle schede cucite l’una sull’altra) che definisce il registro su cui venivano trascritte le pergamene degli atti di donazione ai monasteri o ad altri enti ecclesiastici.

In essi venivano riportate con dovizia di dettagli le somme di denaro, i servi, le ancelle, le terre coltivate, le vigne, le aree boschive (i saltos), i pascoli e il bestiame donati dalla nobiltà locale.

Dai Condaghes è stato possibile ricostruire gran parte delle dinamiche giudicali a noi note oltre ad essere le più antiche testimonianze del sardo volgare antico.

Le lingue dei Giudicati Dopo l’abbandono del greco bizantino, nei Giudicati oltre all’uso del latino medievale si sviluppò il sardo che diventò la lingua ufficiale nazionale nelle sue varianti, venendo impiegato anche nella redazione dei documenti giuridici e amministrativi, come i condaghe, gli statuti comunali e le leggi dei Regni quali ad esempio la Carta de Logu.

Il sardo veniva considerato e impiegato come lingua colta anche dalle popolazioni dell’isola parlanti altre lingue, come nel caso del sassarese. Altri documenti della stessa epoca, come il Breve di Villa di Chiesa, iniziarono a essere redatti in toscano, mentre a partire dal 1324 si assistette a una forte penetrazione prima del catalano e poi dello spagnolo, che esercitarono una forte influenza linguistica sulle lingue parlate nell’isola e diventarono lingue ufficiali fino alla metà del XVIII secolo. Il Cristianesimo si diffuse in buona parte dell’isola già dai primi secoli, esclusa la gran parte della Barbagia, fino alla fine del VI secolo quando alcuni inviati del papa Gregorio Magno raggiunsero un accordo con Ospitone capo dei barbaricini che garantì la conversione del suo popolo al Cristianesimo.

Essendo la Sardegna nella sfera politica dell’Impero bizantino, essa sviluppò un Cristianesimo di matrice greca e orientale grazie all’opera di evangelizzazione dei monaci basiliani (da cui derivano

alcune feste popolari ad oggi vissute, che esaltano ad esempio la memoria dell’imperatore Costantino, santo per la chiesa orientale). La Chiesa sarda fu per cinque secoli una istituzione autocefala, cioè indipendente sia dalla Curia romana che da quella bizantina. Roma e Bisanzio non avevano voce nell’ordinazione dei vescovi isolani i quali continuavano a seguire culti e riti greci. Nell’XI secolo, dopo lo scisma del 1054, gli Judikes, in accordo con Papa Alessandro II, iniziarono una politica a favore dello sviluppo del monachesimo occidentale nell’isola, con la finalità di una maggiore diffusione della cultura ma anche delle nuove tecniche di coltivazione delle terre.

L’immigrazione monastica nell’isola fu alimentata con la donazione di fondi, servi e chiese fatte costruire dall’aristocrazia locale.

Tuttavia permanevano forti legami con la liturgia orientale, infatti Papa Gregorio VII chiese espressamente che i sacerdoti tagliassero la barba per assumere un aspetto meno orientale e che adottassero la messa latina riformata. Nel 1092 una Bolla papale soppresse espressamente l’autonomia e l’autocefalia della Chiesa sarda, la quale venne posta sotto la primazia dell’arcivescovo di Pisa. Il primo atto di donazione a noi noto fu fatto compilare nel 1064 da Barisone I di Torres allorché donò ai monaci benedettini di Montecassino, una vasta area del suo territorio con chiese (compresa la chiesa bizantina di Mesumundu), non distante dall’allora capitale del giudicato Ardara. Da allora in poi per diversi secoli arrivarono nell’isola rappresentanti di numerosi ordini religiosi fra i quali: i monaci dell’Abbazia di Montecassino, i camaldolesi, i vallombrosani, i vittorini di Marsiglia, i cistercensi di San Bernardo.

A seguito di questo fenomeno, tramite il notevole impegno finanziario dell’aristocrazia locale ed all’apporto di maestranze lombarde, pisane e francesi furono fondate numerose chiese, si ebbe così lo sviluppo dell’architettura romanica che, nell’isola, assunse dei caratteri originali e molto interessanti.

Si rafforzarono le professioni dei mastros de pedra e de muru (scalpellini e muratori) locali e, dal condaghe di S. Maria di Bonarcado, si apprende che spesso erano gli stessi monaci che avevano il compito di edificare.

L’avvento del monachesimo benedettino

 

La fondazione di monasteri e abbazie benedettine, camaldolesi e vittorine nei territori giudicali fu favorita da papa Gregorio VII  e voluta dai giudici sardi che capirono l’importanza di introdurre le nuove metodiche agricole come la rotazione delle colture e le bonifiche in una Sardegna con uno sviluppo agricolo non ancora sufficiente a supportare una crescita demografica utile alle finalità politiche giudicali.

I monasteri benedettini vennero costruiti in luoghi isolati (secondo la regola di San Benedetto ) e vicini a corsi d’acqua, in un’ottica di colonizzazione di territori deserti come del resto avvenne in tutta Europa. I monaci ed i servi che ivi arrivarono in donazione dalla nobiltà locale, disboscarono e conquistarono spazi fertili, coltivarono orti, costruirono mulini, officine artigiane, ecc. I monasteri diventarono soggetti economici importanti anche grazie alle decime fiscali.

Tuttavia l’avvento dei Cistercensi  nell’ambito dei Benedettini  pose in tutta evidenza il contrasto tra decime, lavori servili e donazioni, con i più autentici principi cristiani.

Questi monaci crearono le più avanzate aziende agricole del tempo, la grangia, ed impiegarono persone libere facenti parte della comunità, dette conversi.

Fu soprattutto Gonario II di Torres che, capendo l’importanza dei Cistercensi per lo sviluppo economico e, non meno, per la cristianizzazione più autentica, favorì il loro insediamento nel proprio giudicato.

Interventi di Pisa, Genova, Papato e Impero

 

All’inizio dell’ XI secolo  ripresero gli attacchi degli Arabi i di al-Andalus che nel 1015, condotti da Mujāhid al-Āmirī (detto nelle fonti occidentali Museto o Mugetto), signore di Denia, nelle Baleari, sconfissero la resistenza sarda e, secondo alcuni storici, conquistarono Cagliari, anche se dalle fonti pisane si evince che Mujāhid sbarcò presumibilmente in territorio del Giudicato di Torres, nella Sardegna nord-occidentale, cioè in una parte dell’isola raramente sotto attacco, e non ebbe perciò difficoltà a saccheggiare gli sguarniti centri costieri.

Sollecitate dal papa preoccupato anche per le incursioni lungo le coste tirreniche continentali, le repubbliche marinare di Pisa e Genova si allearono ma solo nel 1044 (ma per alcuni nel 1035 ), dopo aver più volte inviato occulti ricognitori e preparato il tutto con decisiva accuratezza, toscani, liguri e sardi uniti sferrarono un mortale attacco congiunto a Bona , la roccaforte dove si era rifugiato il pirata, sconfiggendo l’esercito di Mujāhid e preservando l’isola come parte della cristianità.

La Sardegna liberata dalle incursioni moresche vide però lo sviluppo dell’interesse commerciale e politico delle due Repubbliche marinare le quali iniziarono ad interferire nei vari governi giudicali. L’ingerenza politica pisana sui re giudici di Gallura e di Calari durò dall’XI al XIX secolo XIV, trasformandosi lentamente prima in protettorato, poi in dominazione.

Lo scontro tra Genova e Pisa per la Sardegna e la Corsica venne influenzato dalle politiche papali e dal posizionamento delle due città tra le fazioni guelfe e ghibelline con frequenti cambi di fronte.

Il Giudicato di Arborea e di Torres coltivarono una politica di alleanza con Pisa e Genova a seconda delle convenienze politico militari ma fu solo quello di Arborea a riuscire a mantenere una concreta autonomia.

Già dal 1167 papa Alessandro III rivendicava esplicitamente una giurisdizione sulla Sardegna e, scrivendo all’arcivescovo di Genova, rivelava una forte preoccupazione per il tentativo pisano di sottrarre la Sardegna al dominio et iurisdictioni Sancti Petri.

Ma tra il 1150 e il 1250 anche il Sacro Romano Impero si interessò alla Sardegna con Federico Barbarossa prima e Federico II dopo, il quale fece sposare nel 1238 Adelasia di Torres, vedova senza eredi di Ubaldo Visconti con il tredicenne figlio naturale Enzo di Hohenstaufen, nominandolo subito dopo Rex Sardiniae.

A partire dalla seconda metà del duecento i tre giudicati di Torres, Gallura e Calari terminarono la loro esistenza autonoma grazie alle manovre diplomatiche e matrimoniali di Genova e Pisa sul territorio, sui commerci, sulle curie vescovili e sulle cancellerie giudicali. Il Giudicato di Torres terminò di fatto con la gestione diretta di buona parte dei territori ad opera delle famiglie Doria e Malaspina.

La Gallura andò alla famiglia Visconti di Pisa. A Cagliari si insediarono i marchesi di Massa prima e i Visconti dopo. Queste famiglie riuscirono a sfruttare il meccanismo della reggenza femminile dei giudicati e, a seguito di un’oculata politica matrimoniale, riuscirono anche a far eleggere giudice un membro della propria famiglia ad opera della Corona de Logu.

In questo contesto la Chiesa riuscì a interferire pesantemente con la nomina di vescovi genovesi o pisani che spesso facevano l’interesse delle due Repubbliche Marinare quando chiamati a svolgere la funzione di Legati Pontifici.

Il Giudicato di Arborea, che mantenne oltre il 1250 il legame di vassallaggio con il papato, dovette opporsi allo strapotere di Pisa con le proprie forze e riuscì a conservare l’indipendenza.

Nel corso del XIV secolo strappò gradualmente la Sardegna ai potenti signori di origine genovese e pisana prima ed agli aragonesi dopo, arrivando all’unificazione dell’Isola nel 1391 ad esclusione della città di Alghero e della rocca di Castello a Cagliari. Fu infatti papa Bonifacio VIII che, creando nel 1297 il Regno di Sardegna e

Corsica e infeudandolo alla Corona d’Aragona, aveva dato una licentia invadendi che avviò uno stato di belligeranza quasi centenario, dovuto al fatto che tale investitura, legata alla volontà del Papa di ricevere censi annuali dai sovrani catalani, si scontrava con la presenza effettiva e militare del Giudicato di Arborea il quale viveva una fase di ascesa economica, politica e di piena sovranità.

La Corona d’Aragona, forte dell’infeudazione pontificia, avviò la campagna militare solo 26 anni dopo, quando nel 132324 con l’aiuto dei loro parenti, alleati e vassalli degli Arborea riuscì a concretizzare grazie alla vittoria nella battaglia di Lucocisterna la nascita del Regno di Sardegna.

Dopo le terribili epidemie di peste nera che decimarono la popolazione, mentre i Doria ancora resistevano agli aragonesi (la città da loro fondata di Castelsardo cadde solo nel 1448) gli Arborea ruppero l’alleanza schierandosi con questi ultimi, e combattendo per decenni i catalano-aragonesi arrivarono già dal 1354 a controllare quasi l’intera isola.

La Corona d’Aragona dovette lottare per quasi 90 anni, con tutte le proprie energie e perdendo sul campo molti dei migliori rampolli delle famiglie catalane a causa di cocenti sconfitte militari, prima di domare, grazie anche a frequenti epidemia di peste, una guerra che fra mediazioni, trattati di pace e tentativi di assimilazioni dinastiche divise i due regni e si prolungò fino al 1420, quando l’ultimo re di Arborea, Guglielmo III di Narbona, cedette quel che rimaneva dell’antico regno alla Corona aragonese per 100.000 fiorini d’oro.

Quelli che i re aragonesi consideravano solo vassalli-ribelli ma che, secondo la Giudicessa di Arborea Eleonora, erano una delle casate più antiche d’Europa, forti di oltre cinquecento anni di sovranità legittima.

Ancora verso la fine del XV secolo un discendente dei giudici, Leonardo Alagon, tentò di difendere i propri diritti sul Marchesato di Oristano contro il viceré Nicola Carros, anch’esso discendente degli Arborea, scatenando una vasta ribellione fra i sardi al grido Arborea, Arborea che si concluse nel 1478 con la sconfitta, la morte di circa diecimila uomini, e la definitiva pacificazione del Regno sotto la Corona d’Aragona.

La conquista e l’introduzione del sistema feudale portarono all’arresto del processo di rinnovamento economico e culturale che Pisa e Genova, e la Chiesa stessa con i suoi ordini monastici avevano portato avanti, con l’isola si avviava verso un chiaro progresso sociale.

 

 

Principali accadimenti cronologici

IX secolo

 

  • 840 – il geografo arabo Ibn Khurdadhbih relaziona sulla presenza in Sardegna di un batrìq, console di Sardegna, Baleari e Corsica;

  • 851papa Leone IV scrive allo Iudex Sardiniae per chiedere l’invio di un reparto militare a Roma e la fornitura di lana marina, il bisso, per la confezione degli indumenti pontifici;

  • 864papa Niccolò I stigmatizza le unioni di natura incestuosa (matrimoni fra consanguinei) che intercorrono da anni tra gli Iudices sardi (il plurale lascia intendere una molteplicità di signori locali);

  • 915 – l’imperatore Costantino VII Porfirogenito tra i vari ufficiali imperiali cita un Arconte per la Sardegna.

  • 1073 – Papa Gregorio VII scrive ai giudici sardi invitandoli all’obbedienza verso la Chiesa di Roma

  • XI secolo

  • 1015Mujāhid al-ʿĀmirī, signore di Denia, invade la Sardegna settentrionale con lo scopo di creare una testa di ponte per l’attacco della penisola italiana.

  • 1016papa Benedetto VIII chiede alle repubbliche di Pisa e Genova di intervenire in difesa dell’isola, congiuntamente ai regni giudicali.

  • 1054 – Scisma d’Oriente, la Chiesa di Roma avvia relazioni con i giudici sardi per sottrarre la Sardegna all’orbita religiosa greco ortodossa.

  • 1065 – Torcotorio-Barisone I di Torres chiede a Desiderio di Montecassino l’invio di monaci Benedettini.

  • 1066 – iniziano le donazioni nel giudicato di Cagliari ad opera di Orzocco-Torcotorio I de Lacon Gunale.

  • 1073papa Gregorio VII invita i giudici sardi all’obbedienza politica e spirituale verso Santa Romana Chiesa.

  • 1091papa Urbano II concede temporaneamente la legazia pontificia sulla Sardegna all’Arcivescovo di Pisa.

1149 – Gonario II di Torres favorisce i primi insediamenti di cistercensi in Sardegna.

XII secolo

 

  • 1114 – I Pisani guidano una missione armata contro gli Arabi delle Baleari a cui partecipano Saltaro (figliastro di Costantino I di Torres) e Torbeno di Cagliari.

  • 1146 – L’Arcivescovo di Pisa Villano convoca in un incontro tutti i giudici sardi a Bonarcado: Barisone I di Arborea, Gonario II di Torres, Costantino-Salusio III di Cagliari, Costantino III di Gallura.

  • 1149Gonario II di Torres, di ritorno dalla seconda crociata,

  • concorda con San Bernardo di Clairvaux il primo insediamento dei cistercensi in Sardegna.

  • 1164 – Barisone I viene incoronato Re di Sardegna il 10 agosto, a Pavia, dall’Imperatore Federico Barbarossa.

  • 1232 – Muore Benedetta di Lacon Massa. Sua sorella Agnese di Massa sposa Ranieri della Gherardesca in contrapposizione ai Visconti. Nel giudicato di Torres Barisone e il tutore Orzocco de Serra vengono uccisi durante una rivolta nobiliare che porta alla nascita dell’autonomo Comune di Sassari.

  • 1238Adelasia di Torres sposa Enzo di Hohenstaufen il quale viene incoronato “Re di Sardegna” dal padre Federico II.

    1246 – Adelasia di Torres ottiene da Innocenzo IV l’annullamento delle nozze con Enzo di Hohenstaufen.

  • Termina formalmente il Giudicato di Torres che va in parte ai Doria, ai Malaspina, all’Arborea ed al libero Comune di Sassari.

  • 1297papa Bonifacio VIII crea il Regnum Sardiniae et Corsicae e lo infeuda a Giacomo II di Aragona, in cambio della sua rinuncia al trono di Sicilia.

 

Continua………..

 

 

 

“Eccome se la conosco!”

di Piero Murineddu

Ma avete idea di cosa si prova nell’assistere all’incontro tra dei vecchi  che sono anni, decenni, praticamente una vita  che non si vedono?

Piccola parentesi a proposito di “vecchio”. Ma chi ha stabilito che  non è elegante definire in tale modo una persona avanti negli anni? A me il termine piace e non lo trovo per niente offensivo, anzi, l’usarlo mi riempie di tenerezza e mi porta ad avere uno spontaneo atteggiamento di massimo rispetto. Quell’altro più usato, “anziano”, lo trovo leggermente ipocrita. Chiusa parentesi e pensatela come volete.

Dicevo dunque sull’assistere a dei vecchi che s’incontrano. Per capirlo bene, l’esperienza bisogna farla, e per me la cosa non è impossibile, dal momento che di tanto in tanto, ne carico in macchina qualcuno/a, e con la  scusa di fargli fare un giretto per far vedere com’è cambiato il posto nel quale si è consumata la sua vita e dove inevitabilmente si sta consumando la mia, facciamo qualche tappa a casa di un suo vecchio amico o amica.

E’ quanto è avvenuto questa mattina. Durante il tragitto è un continuo meravigliarsi di come il tempo trasforma, in questo caso le strade, le piazze le abitazioni….. Le persone specialmente, ma questo non è argomento d’affrontare  durante un’uscita per svagarsi dalla ripetitività di giorni che trascorrono, praticamente sempre uguali, per i nostri cari vecchi.

“Guarda, lì abitavo insieme alla mia famiglia. Ma guarda com’è diventata! E pensare che quando ero piccola c’era una vecchia porta d’ingresso con diverse fessure da dove entrava una corrente che non ti dico…. Appena dietro c’era il buco che si collegava con la fogna. Ma questo in seguito, perchè ancora prima non c’era neanche quello. Il “crocco” non mancava, una robusta asta di ferro attaccata al muro che s’infilava in un piccolo cerchio anch’esso di ferro che rinforzava la chiusura…”

E li a descrivere tutti i particolari di com’era l’abitazione, piccola ma estremamente dignitosa e ordinata. Nel cortiletto interno c’era anche l’immancabile forno e vicino, bella spaziosa e scavata dal nonno molti, molti anni prima, una buca che, oltre che per tenere il vino in fresco, all’occorrenza serviva anche per nascondere parte del grano per non essere costretti a consegnarlo tutto nella casa  dell’Ammasso, quando il poco che si possedeva veniva persino razionato dalle autorità.

Rallentando un po’, vedo che dalla porta della casa adiacente spunta il vestito nero di una donna, e per un attimo appare anche il suo viso. ” E quella signora la conosce?” – ” Eccome se la conosco! Giocavamo sempre insieme ed eravamo molto amiche….”. – ” Aspetti un attimino che provo a chiedere se si ricorda di lei….

Meno di cinque minuti dopo eravamo dentro casa, seduti davanti alla stufetta accesa e chiacchierando dei tempi passati. Loro almeno. Io ero beatamente lì ad ascoltarle, dopo aver provato grande emozione nell’aver visto con quale calore si erano abbracciate appena si son riconosciute. La mia attenzione l’ho riservata principalmente all’altra sorella, costretta all’immobilismo fisico ma con una memoria che magari ce l’avessi io.

“Ti ricordi quando tornavi dal paese dove andavi a stare con tua madrina per qualche tempo e ci cantavi tutte le nuove canzoni che imparavi? Era una meraviglia ascoltarti……”

” E di quella storia di quel parroco che la popolazione aveva mandato via cosa si ricorda?” 

” Eh, lui faceva il suo dovere, ma in quel tempo c’erano quei….come si chiamano…ah, si….c’erano i comunisti c’erano. A lui questi comunisti non piacevano tanto, e lui non piaceva a loro….fatto sta che ad un certo punto sembrava quasi una guerra sembrava….. tutto pieno di carabinieri ….la gente per strada …Ohia, che cosa brutta….. Mio padre, che faceva il commerciante di formaggio, a me e alle mie sorelle ci aveva fatto ritirare a casa perchè non si sa mai cosa poteva capitare……”

In casa è presente anche un’altra sorella,la maggiore, costretta in carrozzina ed esclusa dalla conversazione perchè due gradini separano le due stanze, quella dove staziona lei e l’altra dove la sorella rimane sdraiata nel letto.

“A ti ricordi quando era nato tuo nipote e da su, dove tenevamo la legnaia, vi buttavamo delle fascine per il fuoco?Che inverno freddo quell’anno! Sembrava non volesse mai finire…”

Una famiglia benestante grazie all’attività di commercio, e la mamma era colei che amministrava il tutto, come solitamente capitava e continua spesso ancora oggi. Quando potevano, non mancavano di dare una mano ai meno sfortunati di loro. Come quasi tutte le famiglie che ai tempi non pativano disagi economici, al contrario della maggior parte  della popolazione, i “comunisti” non erano ben visti, incoraggiati in questa poco “simpatia” dal clero che in un paese ha avuto sempre grande influenza. Ma non tutti i “ricchi” erano uguali, e ad un certo punto, al diavolo la politica: l’importante è conservare atteggiamenti di attenzione nei confronti di chi non se la passa bene.

La conversazione è andata avanti per un bel po’ e il clima è stato sempre di reciproco ascolto. Argomento? Quello che è stato e non è più, la giovinezza  e la salute sopra tutte le altre cose. Sembrava quasi che i tanti dolori fisici e di altra natura, per un’oretta buona siano stati se non dimenticati, messi sicuramente in secondo piano.

L’abbraccio finale ha suggellato l’inaspettato e non previsto incontro. E’ molto particolare il saluto fra persone che sanno che con molte poche probabilità avranno occasione di rivedersi ancora. Ed è per questo che ho colto in quell’abbraccio un valore del tutto particolare, una “vicinanza”  difficile da riscontrare nei nostri spesso distratti e sfuggevoli normali saluti.

“Schiavitù” (Mauro Magini)

S C H I A V I T Ù

di Mauro Magini
(1974)

Ho visto la schiavitù
nei tuoi occhi, uomo.

L’ho vista quando mendicavi
l’appoggio del potente
e godevi delle briciole
del suo potere.

L’ho vista quando vendevi
per un piatto di lenticchie
la tua primizia:
il tuo diritto di affermare
di essere un uomo
che cerca la libertà.

L’ho vista quando opprimevi
il tuo simile
e traevi vantaggio dal suo lavoro
per salire di più e lasciarlo solo;
più in basso.

L’ho sentita nelle
ore di sciopero
nelle dimostrazioni
nelle occupazioni
dei posti di lavoro
quando tu, uomo, non c’eri.

La tua schiavitù
è rabbia e pena
profonda nel mio cuore.
La tua schiavitù è l’immagine
delle schiavitù di ogni uomo
che opprime l’uomo.

La tua schiavitù è anche la mia
tutte le volte
che vedo un oppresso
e non lo aiuto, tutte le volte
che incontro un volto
e non riconosco l’uomo.

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Anarchia non è solo sinonimo di far ciò che salta in testa

“L’ ANARCHIA È L’ORDINE SENZA IL POTERE”

Anarchia (dal greco antico: ἀναρχία, ἀν, assenza + ἀρχή, governo o principio) è basata sull’ideale libertario di un ordine fondato sull’autonomia e la libertà degli individui, contrapposto ad ogni forma di potere costituito.

Utopia? Per adesso ce la cantiamo….LA e MI fino in fondo, con seconde, triple e quadruple voci a piacere, facendo attenzione a non stonare, altrimenti c’è il rischio che la mia chitarra arrivi in testa a qualcuno…..

ADDIO LUGANO BELLA

Addio, Lugano bella,
o dolce terra pia,
scacciati senza colpa
gli anarchici van via
e partono cantando
colla speranza in cor,
e partono cantando
colla speranza in cor.

Ed è per voi sfruttati,
per voi lavoratori,
che siamo ammanettati
al par dei malfattori;
eppur la nostra idea
è solo idea d’amor,
eppur la nostra idea
è solo idea d’amor.

Anonimi compagni,
amici che restate,
le verità sociali
da forti propagate:
e questa è la vendetta.
che noi vi domandiam,
e questa è la vendetta
che noi vi domandiam.

Ma tu che ci discacci
con una vil menzogna,
repubblica borghese,
un dì ne avrai vergogna
ed ora t’accusiamo
in faccia all’avvenir,
ed ora t’accusiamo
in faccia all’avvenir.

Scacciati senza tregua,
andrem di terra in terra
a predicar la pace
ed a bandir la guerra:
la pace tra gli oppressi,
la guerra agli oppressor,
la pace tra gli oppressi,
la guerra agli oppressor.

Elvezia, il tuo governo
schiavo d’altrui si rende,
di un popolo gagliardo
le tradizioni offende
e insulta la leggenda
del tuo Guglielmo Tell,
e insulta la leggenda
del tuo Guglielmo Tell.

Addio, cari compagni,
amici luganesi,
addio, bianche di neve
montagne ticinesi,
i cavalieri erranti
son trascinati al nord,
e partono cantando
con la speranza in cor.

 

Per conoscere le origini di questa canzone vai su

A Cracovia sorgerà il primo quartiere soltanto per cattolici

 

di Piero Murineddu

Faccio l’esempio di Nomadelfia. Una comunità – villaggio dove chi vuole farne parte deve accettarne liberamente la Costituzione e condividerne lo spirito. E questo dopo un comprensibile periodo di “prova”. Essendoci stato, so bene che vi sono persone fortemente motivate, aperte al dialogo e all’accoglienza. Il vivere in comunità è per loro una scelta per sostenersi vicendevolmente a vivere quotidianamente il Messaggio cristiano, esplicicato nella condivisione, principalmente dei beni materiali e naturalmente spirituali. Sappiamo che è cosa tutt’altro che facile.

Di altre intenzioni mi sembra il voler edificare un quartiere cittadino esclusivamente per cattolici. Mi pare in sintonia con la tendenza di mantenere pura e “incontaminata” la propria appartenenza religiosa, chiudendosi a riccio, con “torri ben armate” per tenere sotto controllo eventuali attacchi di….nemici.

Due cose agli antipodi, almeno secondo me…..

Di seguito l’articolo apparso su La Repubblica dello scorso 25 marzo, a firma

di Andrea Tarquini

A Cracovia, da secoli simbolo del cattolicesimo liberale, specie negli anni in cui Karol Wojtyla ne fu arcivescovo, sorgerà il primo quartiere solo per cattolici. E il progetto la dice lunga sul clima oggi in Polonia. L’iniziativa di costruire “il Quartiere di Fatima” è del produttore cinematografico ed editore cattolico Andrzej Sobczyk: «Abbiamo consegnato questo investimento nelle mani di Dio e speriamo che si sviluppi in conformità con cuori di uomini uniti da simili valori». Tutte le case, in fase di costruzione, sono già state vendute. È uno strappo storico con la tradizione di Cracovia, dove, specie sotto la dittatura comunista, la Chiesa era centro motore e difensore di libertà. Come funzionerà l’apartheid di fede: sarà richiesto un certificato di battesimo o altra attestazione?

PIRAPARAPAPERAPARAPAPERA…

 

(P.Muri.)

Ma guardalo il Roberto professore….conosce tutto il testo a memoria conosce.

Lucio, seppur completamente brillo, i suoi vocalizzi non li sgarra neanche un po’.

Francescone mi sembra quello più sobrio, oltre che quasi impassibile nello strimpellarsi i suoi due accordi due.

Piuttosto mi sfugge quante barbe e baffi son presenti e, ancor di più, se in quelle tante bottiglie sui tavoli è rimasto qualche goccio, aspettando pazientemente di finire nel gargarozzo del più lesto.

Mondo sconvolto

Dalla Premessa di

                              “Un dolore infinito

di Rita Clemente

“….madri negli ospedali, tutte intabarrate di nero, piangevano sui corpi squarciati dei figli. Una madre irachena, rattrappita nel suo dolore, senza più lacrime sul corpicino della figlioletta uccisa mi è rimasta inchiodata nella memoria……”

 

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Piccole cose che contribuiscono ad abbellire il mondo

di Piero Murineddu

Alla fine, ciò che conta è il proprio piccolo contributo per rendere il mondo migliore e anche più bello.

Pasquetta. Una bellissima giornata che ha permesso la tradizionale uscita all’aria aperta, con lo scopo e la speranza di attenuare almeno un po’ i normali malumori che, per chi più o più meno e disparati motivi, i tempi che viviamo provocano.

Di questa giornata sono quattro le cose che l’hanno resa particolarmente bella:

1) Principalmente il ritorno della mia amata figlia da uno dei suoi sempre più frequenti viaggi fuori dall’isola per motivi che a voi non interessano. È sempre una grande gioia per un genitore riabbracciare la propria creatura che, arrivata ad una certa età, non manca ormai molto per intraprendere la sua vita fuori dal “controllo” di babbo e mammà, presumibilmente in luoghi lontani da dove è cresciuta.

2) L’altra cosa è ancora legata all’essere genitori, ovvero poter trascorrere delle liete ore con tuo figlio, ormai adulto e residente solitamente lontano dal nido dove è cresciuto, contento della vita che si è scelto.

3) Terza cosa. Trascorrere delle lietissime ore insieme a tua moglie, compagnia indissolubile di una vita, condivisa tra tante gioie e altrettante fatiche.

4) L’ultimo motivo che hanno abbellito questa giornata è una cosettina che per molti può apparire persino banale, e forse lo è, almeno per chi ha dei metri di giudizio completamente diversi dai miei. Mi fa pensare e fa ben sperare che ancora c’è qualcuno che cerca, nella propria limitata possibilità, di far gioire altri delle proprie piccole iniziative e intuizioni.

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A me, il vedere queste bici ormai in disuso, ripitturate alla benemeglio e usate come porta fiori, nella loro estrema semplicità ha provocato una grande gioia, quasi tutta interiore. Di quelle sensazioni che provi solo tu ed è unutile farne partecipi altri in quel momento, che magari hanno la “testa” altrove e non possono capire.
Spero che adesso, leggendo, qualcun altro capisca quanto ho provato io con questa bellissima e semplicissima visione.

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Sul dissentire

 

di Piero Murineddu

Era un po’ che non compravo “La Repubblica”. Motivo? Più di uno, compreso l’atteggiamento politicamente cerchiobottista di comodo del 94enne fondatore Eugenio, arrivato in questi giorni a virgolettare parole di Francesco che tali non sarebbero, facendo dire al triste Socci Antonio che Bergoglio dovrebbe ormai fare le valige (!). Anto’, ma perché non te ne stai bonino e pensi alla tua candid’animaccia?

Ma lasciamo stare. Dico piuttosto perché oggi l’ho comprata ‘sta Repubblica: l’intervista ad Alberto Maggi, motivo validissimo per passare in edicola.

Non sai chi è Alberto Maggi e sei interessato a saperlo? Hai internet a portata di dito. Vacci e cerca.

Ho letto con grande piacere e qualche cosa la voglio mettere in rilievo.

Impiegato al Comune e pure fidanzato. Prima ancora in una fabbrica di cravatte: normali, lusso ed extralusso. Cambiava solo la confezione. Qui capisce l’idolatria e l’opera di persuasione della pubblicità, che ci rende tutti degli imbecillotti.

Ad un certo punto: paffette….decide di farsi frate. Non l’avesse mai detto in casa! Il padre gli da’ una busta contenente dei soldi e gli dice di non farsi più vedere, mentre la mamma pensa che sia uscito fuori di testa.

Da subito i suoi superiori si accorgono che Alberto avrebbe creato problemi, e il padre provinciale dei “Servi di Maria”, lo stesso Ordine di David Maria Turoldo di cui era grande estimatore e che il giovanotto aveva scelto perché è l’unica congregazione a non aver avuto un fondatore (“ho sempre pensato che la figura del fondatore mettesse in ombra quella di Gesù”) fu mandato praticamente in un posto per renderlo innocuo e impossibilitato a diffondere le sue “eresie” e, come spesso fa il Potere, impedirgli di disturbare il manovratore. Inevitabilmente il pensiero va a don Milani, ma anche allo stesso Turoldo, “invitato” a girovagare per il mondo perché troppo “disturbatore” dell’insegnamento ortodosso dottrinale.

Montefano, nelle Marche, in un vecchio convento dove vi era un frate in attesa d’intraprendere la vita eterna ( nessun “aldilà”, dice Maggi. In altra forma, ma tutto “quaggiù”. Vita e morte, due aspetti dello stesso “Dono”: una Vita che non avrà mai fine).

Col tempo, con l’aiuto di amici e dei proventi della vendita dei suoi libri, il convento si rinnova, diventando un Centro Studi biblici che è un piacere vederlo e frequentarlo.

Proprio rompiballe Alberto! Arriva a dire – pensate un po’ – che anche la figura del direttore spirituale è una forma di potere. Tutto parte dalla Misericordia (ricordate quella “strana” cosa di cui parlava Gesù?), e la risposta per continuare a fare il prete Alberto l’ha trovata nel rapporto con gli altri, sopratutto se emarginati. L’altro, qualunque altro, bisogna servirlo con il cuore.

Continuo con una esperienza personale.

Si capisce quanto possano dare fastidio coloro che non sono perfettamente “inquadrati” e difficilmente, se non addirittura impossibile, inquadrabili. In qualsiasi campo. In questo caso per quanto riguardo questioni legate ad un credo e ad una visione della vita. Eterni scontenti. Sempre qualcosa da ridire su tutto. Di quelli che la maggior parte dei preti (e dei “bravi fedeli”) guardano con diffidenza e bisognosi di ricondurre nell’ovile.

Personalmente io mi considero tra questi. O meglio, altri mi considerano tale. “Cani sciolti”, insomma.

Bau bau bau…… Oh, quanto da’ fastidio, specialmente ai benpensanti e beninquadrati !

Un mese fa circa, stimolato dalle parole di Francesco riguardo alle Messe di suffragio (che non si pagano), avevo rilanciato la vicenda attraverso uno scritto, provocando normali reazioni. Dopo ben venti giorni, interviene una mia “amica” feisbuchina, che tra l’altro, essendoci stata la possibilità di conoscerci di persona, vivendo nel paese vicino al mio, non mi aveva minimamente c…… Ecco, questa amica sifaperdire, dopo un argomentare pieno di contraddizioni, mi aveva definito “fomentatore di odio”, perché, evidentemente ai suoi occhi, certe cose non bisognerebbe dirle e minimamente toccarle. Ho tentato un minimo di dialogo. Tutto inutile.

Voglio dire, con l’esempio fatto, che per certi, troppi, bisogna abbassare la testa e seguire ciò che l’Autorità Costituita indica, senza permettersi di obiettare, e se lo fai, non sei più un “buon cattolico”.

Che c’entra con Maggi? Vedi tu.

Intanto, visto che siamo a Pasqua e chissà quanto cibo si è ingozzato, a questi e ad altri che sono convinti che “non bisogna discutere, ma solo obbedire” dico, naturalmente con tutta la cordialità possibile:
andate a c….. e fattene una bella grossa. Auguri

 

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Questo é l’ articolo su Repubblica. É illeggibile, ma giusto come prova che non mi sono inventato niente