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Ricordi indelebili di una drammatica esperienza nel Cile del golpe militare

Premessa

Riporto quanto scrivevo nel maggio 2014 sulla pagina FB che tempo fa decisi di aprire e curare per tentare di dare un piccolo contributo al recupero della Memoria storica del posto dove vivo, al nord ovest della Sardegna:

Lettere dal Cile”, pubblicato nel 1977, raccoglie la fitta corrispondenza che Tore Ruzzu e Giuseppe Murineddu tennero con le loro rispettive comunità, Ittiri e Sennori, durante la loro permanenza di due anni in Cile, Paese dove decisero di andare per fare un’esperienza di Missione come preti e coincisa col colpo di stato dell’esercito, guidato da Augusto Pinochet. L’evento causò la morte e la sparizione d’innumerevoli innocenti.La stretta vicinanza alle problematiche della gente fu la causa dell’arresto e del conseguente imprigionamento dei due sacerdoti sardi, accusati falsamente di essere fiancheggiatori dei “terroristi”. Grazie all’intervento della diplomazia vaticana, furono in seguito liberati e fatti rimpatriare. Inevitabilmente, la particolare esperienza fatta era destinata a segnare profondamente e per sempre i due. Tore continua a “fare” il prete, mentre il mio amico Giuseppe diversi anni fa scelse di portare avanti da laico il suo impegno civile, fortemente coinvolto per la costruzione di una società Pacifica e Giusta.

Di seguito, riprendendo in parte alcuni passaggi, approfondisco l’ argomento, ripensando anche a un incontro pubblico che Giuseppe e Tore ebbero qualche anno prima di quanto vado a scrivere, in occasione della visita di alcuni loro amici venuti dal Cile.

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Segni indelebili

di Piero Murineddu

Non vi preoccupate se piangiamo”

È con questa raccomandazione che l’amico Giuseppe aveva avviato l’incontro quella sera di maggio di alcuni anni fa nella sala consiliare di Sennori per riportare a galla fatti drammatici di cui vado a raccontare e avvenuti nel lontano 1973, quando il feroce golpe di Augusto Pinochet aveva spaccato in tutti i sensi il Paese sudamericano.

Tore, attualmente parroco nonostante l’ età avanzata, diceva che vi erano arrivati quasi casualmente, ma che erano stati ben accolti dalla gente del posto, compresi i tanti italiani che lí erano emigrati.

Da subito la collaborazione stretta col vescovo – che viveva in una casetta poverissima in mezzo alla sua gente e sicuramente non in un quartiere “alto” – non mancò, ed è proprio tramite lui che i due preti sardi avevano imparato  a vivere realmente col popolo, amandolo e condividendone il quotidiano.

Dopo tanto tempo, qualche anno fa i due amici preti hanno fatto visita a quei luoghi da cui son stati segnati per sempre.

Donna Rachele, madre delle due sorelle ospiti per qualche giorno a Sennori, era ancora viva, seppur gravemente inferma. Non aveva avuto difficoltà a riconoscere immediatamente quelli che al tempo erano due giovanotti mossi dallo spirito del Concilio, quel significativo evento che aveva tentato di liberare la Chiesa dal troppo vecchiume che l’appesantiva e che, purtroppo, continua ad appesantire anche oggi, nonostante l’amorosa fatica di Francesco.

La proiezione d’immagini accompagnate dalla malinconica voce di Violeta Parra aveva aiutato i cinque, compreso il marito di una delle sorelle, a ripercorrere momenti salienti del tempo, collegandoli al Cile di oggi.

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Particolare commozione nel ricordare don Lucio, prete operaio fatto fuori dalla ferocia del regime.

La foto del fiume che bagna Santiago da’ lo spunto per ricordare i tanti oppositori – prelevati vigliaccamente (atteggiamento tipico dei regimi fascisti) durante i coprifuoco notturni – che in quelle acque son stati buttati dopo essere stati brutalmente torturati ed assassinati.

Tore trascorreva mattinate raccogliendo dati, per poi recarsi col vescovo nelle caserme per denunciare le continue e numerose scomparse di persone inermi ed innocenti.

Per Giuseppe la macchina fotografica, usata di nascosto, era il modo per documentare quanto avveniva e poterlo in seguito raccontare. Aveva ricordato ai presenti che per poter partire subì un processo, dove fu difeso dall’avvocato più in vista di Sennori, Giorgio Spanu. Nell’ attività svolta nel paesino sardo, aveva contribuito ad organizzare uno sciopero, e l’iniziativa – “fuori schema” in quanto un prete “si deve” occupare esclusivamente di cose spirituali – gli aveva procurato non poche difficoltà per ottenere l’autorizzazione alla partenza.

Alcune foto, montate egregiamente e presentate all’attenzione dei convenuti, ricordarono quella sera la venuta a Sennori tra il ’76 e’ 77 di don Fernando, amico fraterno dei due, preoccupato di far sapere che Giuseppe e Tore erano stati imprigionati ingiustamente ed espulsi prima che anche loro seguissero la triste sorte di tantissimi cileni.

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A distanza di tempo, ho deciso di riprendere in mano questo volume, probabilmente stimolato da un recente viaggio che Giovanna, la figlia di uno dei due preti che nel frattempo si era sposato, ha fatto proprio nel Paese dove il proprio genitore Giuseppe aveva vissuto quella drammatica vicenda di tanti anni prima.

Man mano, riporterò in questa pagina alcuni passaggi di queste lettere che provocheranno in me particolare interesse e che, sempre dal mio punto di vista, trovo molto attuali.

Anno 1973. Ventotto giorni di navigazione per raggiungere il Cile, dove Giuseppe Murineddu e Salvatore Ruzzu si stavano recando, per desiderio proprio ma anche per mandato vescovile della Diocesi di Sassari, per svolgere una missione pastorale. Durante la lunga attraversata, vari sono stati gli incontri, da coloro che erano in viaggio per motivi turistici ad altri alla ricerca di esistenze migliori di quelle che avevano lasciato.Di seguito uno stralcio di una delle lettere spedite da Giuseppe.

NON TUTTI CAPISCONO, SPECIALMENTE SE NON VOGLIONO

di Giuseppe Murineddu

Carissimi amici e conoscenti di Sennori,
(…..) parlavo, una sera, appoggiato al ponte della nave di fronte all’Oceano, con un sudamericano nero, che viaggiava con la sua famiglia. Mi ha detto che viaggiava in nave italiana perchè gli italiani non sono razzisti. Ho pensato a quanti sardi emigrati a Milano vivono in baracche senza servizi sociali perchè sono sardi, a quanti di voi fanno sempre i manovali perchè non hanno titoli di studio o “impegni”, ad un quasi monsignore italiano trentino (col quale abbiamo vissuto per 20 giorni a tavola in nave) e che tutto pieno di pietà o di Dio (!) diceva: “Poverini questi negri, non sanno far niente, non vogliono lavorare, proprio come voi sardi, che se non vengono i continentali in Sardegna ad aiutarvi con i loro capitali e con le loro tecniche, sareste ancora indietro di 30 anni……“. Io ho cercato di difendere e spiegare, però non tutti capiscono, specialmente se non vogliono (…..)

 

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Allora come credo ancora oggi, i giovani preti che lo desideravano, avevano possibilità di trascorrere qualche anno in terra cosiddetta  “di Missione”, generalmente Africa e Asia. Per i due sacerdoti si era invece creata l’occasione di fare questa esperienza in America Latina, e nel loro specifico proprio in Cile, precisamente a Copiapò, una città situata nella parte settentrionale del Paese, ai bordi del deserto di Atacama.  Giuseppe e Salvatore si sentivano vicini e mandati dalla  Diocesi della quale si sentivano rappresentanti, quella di Sassari.  A leggere queste lettere, credo che quello che dice oggi papa Francesco non  sia dissimile da ciò che state per leggere, tratto da una lettera di Tore, come dagli amici è conosciuto Salvatore, attualmente parroco nel suo paese natìo, Thiesi.. Una fede vera deve necessariamente coinvolgere e cambiare la vita concreta delle persone, altrimenti diventa una “droga” auto consolatoria. (Pi.Mu.)

È ASSOLUTAMENTE NECESSARIO FORMARSI DELLE IDEE

di Tore Ruzzu

Carissimi, (…) è sopratutto qui in Cile che mi sto convincendo sempre di più che certe realtà degli uomini, certe situazioni di miseria, di ingiustizia, di sottosviluppo in cui vive la maggior parte dell’umanità non si cambiano con l’elemosina dell’aiuto materiale, ma soltanto compromettendo completamente se stessi, le proprie cose, la propria vita (……) per cambiare radicalmente – nel nome di Cristo e del suo Vangelo – le strutture della società nella quale viviamo. Se il Cile vive ancora nella povertà e nella miseria è, per esempio, perchè altre nazioni dell’America del Nord e dell’Europa Occidentale si sono ingrassate sfruttando ( leggi “rubando”) le grandi ricchezze minerarie del Cile. Ed ora che questo Paese vuol rivendicare il proprio diritto sulle proprie ricchezze, tutte le suddette nazioni, attraverso le proprie industrie private o multinazionali,hanno ritirato completamente il loro capitale di investimento, la propria assistenza tecnica,il proprio personale (….). E il Cile è solo un esempio. Cosa dire degli altri popoli del Sud America, dell’Africa e dell’Asia? Finchè non riusciremo, lottando ogni giorno, a cambiare le strutture della società, questa situazione durerà chissà fino a quando. Ecco perchè vi scrivo che è assolutamente necessario formarsi delle idee, iniziare a pensare con la propria testa, studiare le situazioni concrete della vita di ogni giorno e riesaminarle attraverso la riflessione della Parola di Dio e della vita di Cristo (…..)

 

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Partiti da Genova il primo di giugno e arrivati nel Cile il 29 dello stesso mese, proprio all’inizio del terremoto politico ( ma anche da scosse reali della terra) culminato con l’uccisione l’11 settembre del presidente e della presa di potere militare da parte di Pinochet, Giuseppe e Salvatore, José e Tore per gli amici, mentre entrano gradualmente nella concreta vita del popolo, sono ospiti per un certo periodo presso l’episcopio di Copiapò, città in mezzo al deserto nella quale si apprestano a svolgere il loro ministero sacerdotale. Nei passaggi tratti dalla lettera che segue, si inizia ad intravedere il modo in cui i due amici intendano portare avanti la loro missione a stretto contatto coi più poveri del popolo e di come, probabilmente, intendano la loro fede, assolutamente non avulsa dalla realtà di tutti i giorni e strettamente legata al dovere di migliorare il mondo. (Pi.Mu.)

CHI VUOL VIVERE IL VANGELO NON PUÒ ESSERE PADRONE DI ALTRI UOMINI

di Giuseppe Murineddu

Copiapò, 22 ottobre 1972

Carissimi amici di Sennori,

fino ad oggi tutte le domeniche abbiamo aiutato celebrando la Messa nella cattedrale senza fare prediche, ma suggerendo un dialogo e l’intervento diretto. Certo che non è stato un male, considerando che le letture delle domeniche di settembre e ottobre erano abbastanza chiare da vedere riflessa la situazione che viviamo come uomini e come cristiani in questi giorni. (….) Per me leggere il Vangelo non significa prenderlo in mano e poi chiuderlo come se tutto fosse un bel racconto commovente e nient’altro. (…..) Quando ci si trova davanti a persone concrete, anche se è difficile, non si può non tentare almeno di essere coerenti. Oggi è la Giornata Missionaria Mondiale. Non so cosa abbiate organizzato di preciso, ma ora che mi trovo qui sento meno essenziale la quantità degli “operai” nei confronti della qualità del “raccolto”. Ancora di più quando quelli che sono”operai” non hanno l’umiltà di riconoscere che prima devono essere anche loro, e sopratutto loro, terreno che serve per il bene e per la gioia degli altri. (…..) Spero di non essere un pauroso o, peggio, falso portatore di questo Vangelo che voi vivete a casa e nei rapporti coi fratelli, specialmente con chi non si può difendere. Credo che a questo punto non faccia una grinza dirvi che avanti ieri ho ricevuto, come cittadino di Sennori, a venire a votare per le elezioni comunali del 18 novembre. E’ chiaro che come cristiano questo è un fatto in cui sentirei il dovere di pesare, per cambiare tutto quanto rende l’uomo schiavo, macchina che non ragiona. Peggio ancora quando quest’uomo si crede libero perché ogni tanto fa una croce per difendere i suoi interessi, dimenticando che ogni giorno dell’anno, ogni secondo, c’è una grande enorme famiglia di gente schiava, sfruttata. Se non si mette dalla parte di costoro, non so dove sia il posto del cristiano. (….) Ciascuno di noi, per il fatto di vivere il Vangelo, deve togliere da sé la fame di voler essere padrone di altri uomini e lottare contro tutti quelli che si fanno padroni di altri uomini.

Vi abbraccio tutti, uno per uno con affetto                                                                           Josè

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Settembre – Dicembre 1973. Primi mesi del regime totalitario fascista in Cile.II clima è pesante, specialmente per coloro che minimamente sono sospettati di non gradire il nuovo corso intrapreso da Pinochet. Come scrivono i due amici Josè e Tore, il clima è quello di “caccia alle streghe” di medievale memoria. Le spie, convinte magari di agire per il bene comune, sono dappertutto. Particolarmente le persone che per il loro ruolo possono avere una certa influenza in mezzo al popolo, sono i maggiormente controllati, e il clero, o meglio, parte del clero,  è tra questi. Tratto da una lunga lettera fatta avere al vescovo di Sassari tramite un vescovo spagnolo, il testo che segue può dare un’idea di questa situazione di estremo rischio e pericolo per gli eventuali dissidenti o presunti tali. Mi viene da pensare a come avrà reagito l’allora arcivescovo sassarese Paolo Carta nel leggere queste notizie. Chissà se l’avrà tentato il pensiero di aver mandato in missione proprio due preti “comunisti” in cerca di guai, e di questo essersene amaramente pentito. Mi viene da pensarlo considerando la diffusa convinzione,  allora come oggi, che i preti si devono occupare solo delle anime e delle cose “spirituali”, lasciando ad altri le “rogne”….umane. (Pi.Mu.)

NON CREDEVAMO DI ESSERE COSI’ PERICOLOSI

(Giuseppe e Salvatore)

27 Dicembre 1973

Carissimi,

(…..) Il 21 settembre cinque carabineros in borghese vengono nel vescovado cercando una radio emittente. Vengono a perquisire noi due perchè, come disse poi il comandante dei carabineros, gli avevano fatto la spiata che c’erano due falsi preti italiani, spie comuniste, che si mettevano in contatto radio con l’estero fino alle quattro di notte. Al ritorno da un giro al Nord della diocesi veniamo a sapere che il Nunzio si era informato di noi, dietro richiesta di Roma. Durante questo giro, come sempre avvenne durante l’assenza dello stesso vescovo, nuova perquisizione nella parrocchia e nel vescovado. Una spia aveva detto che erano state introdotte armi. Era un televisore. Un altro prete francese, Francois,  viene a stare nel vescovado perchè anche lui compromesso con i comitè campesinos, comitato di agricoltori.. (….) Viveva e lavorava con loro, aiutandoli a stare uniti. Anche lui accusato di essere marxista e “coscientizzatore marxista”. Intanto il quotidiano della città, “Atacama”, inizia una campagna contro i preti e le laiche. Calunnie e invenzioni che hanno l’unico scopo di creare una “coscienza popolare” di repulsione e di odio.Rientrerebbero nel reato di qualsiasi legge penale del mondo, per aver almeno anticipato il giudizio di una corte anche militare e per aver creato…rumori falsi.. Ma i rumori falsi che sono puniti sono solo quelli che mettono in crisi il regime che ha vinto. Si dice che sono sfogo di alcune persone, ma vedremo poi che a queste persone gli si è risvegliata la bestia dell’odio e della vendetta. Sono potenti perchè otterranno il loro scopo. Lo slogan di attualità e di “conforto” è: Non ci sono né vinti né vincitori”. Tutta la nazione sarà impegnata nell’essere “Una Libera Sovrana”. Sembrano le parole che furono in bocca a tanti italiani quando siamo nati noi e che anche ora sono presenti in quelli che si arrogano il diritto di essere loro i purificatori della società. E’ strano che vogliano realizzare l’unità di un popolo eliminando i fratelli che la pensano diversamente o rendendoli impotenti. Ilm primo ottobre alcuni preti ci riuniamo per iniziare a studiare i fatti, l’influenza nei cristiani e nelle comunità e il nostro comune atteggiamento. . Siamo più della metà dei sacerdoti e ancora la solita spia spiffera che siamo tutti in incontro nel vescovado. Armati di mitra vengono improvvisamente i soliti carabinieri. Chiudono le porte della sala, impedendoci di uscire. Vogliono i nostri dati e dopo un lungo discorso col parroco della cattedrale, ci lasciano sbigottiti e …liberi. Non credevamo di essere così pericolosi. (….)  Il Cile è diviso in due: le spie, chiamate ufficialmente i patrioti, e gli spiati, chiamati nemici della patria. (…..)

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Nella parte che segue della lunga lettera mandata al vescovo di Sassari, si parla dell’eterna repressione messa in atto dal Potere per eliminare le voci del dissenso, “voci” ma spessissimo anche vite, e questo attuato anche con modi apparentemente “legittimi”, quale l’uso della stampa “pura” e non corrotta da ideologie …..rivoluzionarie. I “puri”, coloro non intaccati dal cancro della “coscientizzazione”, in questo caso marxista – eh si, perchè nei regimi totalitari, tutti coloro che non si vogliono inquadrare e vogliono agire secondo il proprio libero giudizio, sono “coscientizzati” in senso contrario a chi detiene le redini del comando – i puri, dicevo, fanno la loro parte per isolare i dissidenti. Eccome se la fanno, convinti di eliminare le mele marce che impediscono la nascita di una nuova nuova società all’insegna del Be-ne-sse-re! Gius-ti-zia! Li-ber-tà! E’ ciò che in modo più morbido può avvenire, oggi,  anche nelle democrazie che fanno  fatica ad essere realmente tali. E’ ciò che può avvenire persino – se non addirittura specialmente – tra le varie religioni e anche tra confessioni  cristiane, dove storicamente ci si è scannati a vicenda, con la presunzione e convinzione di possedere tutta la verità e volendola imporre agli altri. Brutta bestia l’integralismo.Ma anche all’interno della stessa confessione, poni caso quella Cattolica, chi cerca di fare percorsi alternativi di studio e di ricerca, che tra l’altro è il modo più impegnativo per far propria una fede vissuta nel quotidiano, spesso è guardato con diffidenza, se non addirittura considerato un eretico, singolo o gruppo che sia. Veramente lo zelo può portare all’odio cieco. Nella lettera si parla anche dei vili assassinii perpetrati, dopo aver sottoposto le vittime ad indicibili torture. (Pi.Mu.)

METTERE IL DISSENSO IN CONDIZIONI DI NON NUOCERE

(Giuseppe e Salvatore)

Carissimi,

(…..) attraverso le spie, vorrebbero “unificare” il Cile, eliminando la fogna del marxismo che poi non sono altro che altri uomini e così rimangono i puri.Nel Medio Evo ha preso il nome di caccia alle streghe, quando i più deboli volevano uccidere le loro debolezze nella pobera gente, bruciandola; la caccia all’eretico della Chiesa dell’Inquisizione, che sperava di salvare la fede ammazzando e torturando chi la pensava diversamente; la caccia all’ebreo dei nazisti; la caccia al revisionista e reazionario e all’intellettuale dei sovietici; la caccia al traditore dei fascisti italiani con tutti i conosciuti don Minzoni, Matteotti e centinaia di migliaia di sconosciuti morti per una patria che non era la loro, ma frutto della mente esaltata di persone che una volta diventate così potenti finalmente godono della libertà di imporre agli altri con la forza militare e d economica la solita immagine patriottica del “Benessere, Giustizia e Liberta’ “. Quasi sarebbero i nuovi messia.(…..)

Intanto viene fuori in circolazione una lettera anonima ben scritta, spedita in tutta la diocesi, in cui si intima al vescovo di essere coerente, di non essere ambiguo, di controllare la coscientizzazione marxista che stanno facendo il parroco della cattedrale approfittando del Vangelo della messa e due preti che dicono di essere italiani. Sembra che sia un reato essere preti e cristiani, pregare per i morti e gli uccisi che non siano i militari (….) Lo zelo e l’odio ormai sono ciechi (….) Intanto le uccisioni continuano- Il 19, la notte, radunano tredici detenuti ancora senza giudizio. Li portano in camion fuori città. Dice il giornale che il camion si fermò per disturbi meccanici ed essi ne approfittarono per fuggire. Li massacrarono tutti. . Sono tutte notizie pubblicate sui giornali. E’ strano come questi giornali vadano d’accordo con la libertà di stampa, che sbandierano continuamente.  I cadaveri sono sepolti in una fossa comune e nessuna delle famiglie ha potuto vedere il parente ucciso.

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Dico la verità, pur sapendo le grandi potenzialità offerte oggi dai moderni mezzi di comunicazione, non immaginavo che lo constatassi direttamente così all’improvviso ed inaspettatamente.In questi giorni capita infatti che un vecchio amico di Giuseppe e Tore dai tempi in cui si trovavano in Cile, Luis Roberto, incappato evidentemente nel post su facebook che pubblico parallelamente all’aggiornamento di questa drammatica vicenda che man mano faccio su questo blog, mi scrive un messaggio chiedendo notizie dei due amici preti che praticamente è da oltre quarant’anni che non vede e non sente. Al tempo Luis Roberto suonava la chitarra durante le funzioni liturgiche che si svolgevano nella chiesa frequentata dai due sacerdoti missionari. Anche lui scampato alle torture e alle uccisioni da parte del regime di terrore instaurato da Pinochet e la sua cricca. Ieri sera, un altro messaggio di Luis Roberto m’informa che, grazie al mio tramite,  in queste ore si è sentito per telefono col nostro amico Giuseppe. Mi manda anche l’articolo che tre anni fa la Nuova Sardegna aveva dedicato a quella terribile storia vissuta in quegli anni dal popolo cileno, con un’intervista a Giuseppe Murineddu, nella quale aveva ripercorso tra le lacrime la loro vicenda, cose che, in parte gia conosciute perchè riportate in questa pagina, leggere direttamente acquista un altro valore. Piccola parentesi. Ho detto delle lacrime di Giuseppe, che fanno pensare all’emotività che con gli anni che trascorrono si accentua sempre più, e di questo me ne sto rendendo personalmente, cosa che tutto sommato non mi dispiace, considerando la poco propensione alle lacrime che c’è in giro. Lacrime d’immedesimazione intendo, specialmente nei confronti delle tante sofferenze diffuse,  provocate si dalle tante pesanti malattie, ma spesso dall’indifferenza e dalla solitudine. A maggior ragione capisco le lacrime di Giuseppe, in particolar modo quando il suo pensiero va a quel lontano tempo trascorso in terra cilena, ripensando e avendo ben incisi nella memoria quei momenti di reale rischio della vita  e, forse,  sopratutto per la sofferenza patita da persone inermi e innocenti.  Pensando di fare cosa gradita,  ripropongo alla vostra attenzione.l’articolo di Mario Bonu.  (Pi.Mu.)

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Due preti del Sassarese ancora vivi per miracolo

di Mario Bonu, Osilo (SS) 7 gennaio 2014

Nonostante siano trascorsi 40 anni da quei tragici avvenimenti, si commuove ancora fino alle lacrime, Giuseppe Murineddu – il prete della diocesi di Sassari che insieme a Tore Ruzzu si trovò, all’epoca del colpo di Stato, in Cile per una azione missionaria. «Arrivammo in Cile il 29 giugno del 1973 – ricorda Giuseppe Murineddu – e da subito il nostro battesimo cileno fu completo: quel giorno ci fu il tentativo di colpo di Stato da parte dei reparti corazzati dell’esercito, chiamato “il giorno del tancazo” (da “tanque”, carro armato)”. I due sacerdoti sardi erano partiti animati dalla volontà di ricerca di una nuova evangelizzazione, così come scaturita dal Concilio Vaticano II, che si intrecciava con i grandi fermenti socio-politici dell’Italia di quegli anni a ridosso del ’68. Avevano allora maturato il desiderio di servire la Chiesa del Terzo Mondo, e nel 1972, l’allora arcivescovo di Sassari, monsignor Paolo Carta, li autorizzò per una esperienza missionaria in America Latina. Così, dopo il corso di formazione a Verona, nel giugno del ’73 si ritrovarono nel pieno della bolgia cilena. “Avevamo scelto per la nostra missione la diocesi di Copiapò – dice Giuseppe Murineddu – una città nel deserto di Atacama, nel Nord del Cile, a circa 800 km da Santiago – e lì, dopo un periodo di “rodaggio”, ci vennero assegnate due parrocchie di periferia. Si trattava di una delle zone minerarie più importanti del Cile – ricorda ancora Murineddu – dove la miseria regnava sovrana». Là si dispiega la catechesi dei due sacerdoti sardi, che si sviluppa sia sul versante religioso che su quello della solidarietà, con il sostegno alle famiglie povere, le visite alle persone sole, le colonie estive per i bambini, la mensa popolare. Ma la loro opera si rivolge anche ai carcerati, alle vittime del regime, alle famiglie degli scomparsi. Tore Ruzzu, in particolare, venne nominato responsabile della diocesi per l’aiuto alla ricerca delle persone scomparse o carcerate. Così i due sacerdoti si trovano in una posizione sempre di più di frontiera, a contatto diretto con le sofferenze e con le atrocità di quei giorni, pienamente coerenti con il messaggio evangelico, ma per ciò stesso percepiti come oppositori di fatto al regime. “Presero a infiltrare le loro spie ai nostri incontri – ricorda Giuseppe Murineddu – e il clima generale divenne sempre più pesante. Noi resistemmo per circa due anni grazie all’appoggio incondizionato di quel grande vescovo che fu don Fernando Ariztìa, ma quando anch’egli divenne un bersaglio dei militari, la situazione non poteva non precipitare. Così – prosegue Murineddu – non fummo granché sorpresi quando l’8 novembre del 1975, alle 6,20 del mattino, gli agenti dei servizi segreti militari si presentano nella nostra casetta alla periferia di Copiapò, e “trovano” un libretto rosso di Mao ed una pistola dentro un tabernacolo della cappella, evidentemente messe là apposta da loro”. I due vengono tenuti prigionieri e interrogati per una settimana a Copiapò, e poi trasferiti su di un camion a Santiago. “Quello fu uno dei momenti in cui pensammo davvero di non uscirne vivi – racconta Giuseppe Murineddu – sapevamo di un altro viaggio di prigionieri sulla stessa tratta, in cui gli arrestati “tentarono di scappare” e furono tutti uccisi. Così ad ogni sosta del camion – il viaggio è lungo più di 800 km e dura oltre 13 ore – pensammo che anche a noi sarebbe toccata la stessa sorte”. Li salvò, quasi sicuramente, il fatto di essere stranieri e il forte interessamento al loro caso del governo italiano e dell’ambasciatore dell’Italia a Santiago.

don carlos camus Larenas

Abbiamo riletto il toccante racconto che Giuseppe fece alla “Nuova” . Torniamo quindi a scorrere il libro dove i due sacerdoti avevano raccolto le loro lettere dopo il  forzato rientro dal Cile, dove svolgevano il loro apostolato a servizio della Diocesi di Copiapò,vasta tre volte la Sardegna, nel nord desertico del Paese sudamericano, passato da una costruenda democrazia socialista guidata dal  presidente eletto Salvador Allende alla feroce dittatura del generale Augusto Pinochet.

Nella foto vi sono i due preti, appena sbarcati a Valparaiso dopo un mese di navigazione, insieme al capo della diocesi dov’erano destinati e ad un immigrato sardo che ospitò molto ben volentieri nella sua casa i  due conterranei.

Don Carlos Camus Larenas rimase ancora un anno alla guida della Diocesi, chiamato poi al ruolo di segretario della Conferenza Episcopale Cilena e in seguito vescovo di Linares. Gia con questo vescovo Giuseppe e Tore erano entrati da subito in un modo di vivere un cristianesimo comunitario molto partecipato dal popolo, sicuramente incoraggiato dalle novità portate dal Concilio Vaticano II voluto da papa Giovanni XXIII. Questo lavoro di coinvolgimento fu ripreso dal successore arrivato dopo un anno di posto vacante, don Fernando Ariztìa. Nel testo che segue, cercheremo di capire  questo “metodo”,  che in Italia probabilmente faticava ancora a prendere piede (forse) per la storica e proverbiale  lentezza dalle gerarchie ad accettare gli inevitabili e necessari segni del tempo che avanza, ma fatte proprie dalle Comunità di Base e da quelle parrocchie dove la guida  non si sente e si comporta da padre – padrone, che svolgevano e continuano a svolgere un’ impegnativa e faticosa “rilettura” delle Scritture per cercare di rendere attuali e vivi gl’insegnamenti evangelici.

Ecco le parole di Giuseppe e Tore, tratte dalle pagine riassuntive della loro vicenda riportate nella prima parte del volume. Non lavoro di “coscientizzazione marxista”, come dicevano e accusavano i “guardiani” del regime, in questo messi in allarme dalle bigotte e falsi cristiani che s’intrufolavano malignamente nella vita comunitaria,  ma faticosa immersione nelle problematiche del popolo, con concreta condivisione “per” e “con” esso.Tutto ciò ha dato tremendamente fastidio ai detentori del Potere, che in ogni epoca vogliono tenere tutto sotto la loro stretta sorveglianza. Sul finale, l’epilogo di questa “compromissione” dei due preti col popolo oppresso, evento a quanto pare da loro atteso. (Pi.Mu.)

Non rigettare la gerarchia, ma valorizzarla come reale servizio

(Giuseppe e Tore)

Marzo 1975. Arriva come nuovo vescovo di Copiapò don Fernando Ariztìa. Egli dà un impulso nuovo ed evangelico alla diocesi. Con lui sacerdoti, religiose e laici facciamo un’analisi più profonda delle necessità dell’uomo di Copiapò e della diocesi, ne studiamo le problematiche e le esigenze cercando di dare una dimensione chiara delle scelte che dobbiamo prendere come Chiesa cilena e copiapina in particolare. Notiamo allo stesso tempo l’assenza quasi assoluta di responsabili laici che facciano la Chiesa più popolo e meno gerarchia, non per rigettarla ma per valorizzarla nel vero senso come servizio: proprio quanto scopriamo nella persona del nostro vescovo e come anche noi tentiamo di fare. Corsi di formazione di animatori di comunità cristiane, di guide di gruppi di catechesi adulti che preparino i genitori alla educazione alla fede dei loro figli, animatori di gruppi giovanili che siano non soltanto culturali, ma anche di servizio delle esigenze delle poblaciones (quartieri). Con tutti  questi, dopo un anno di studio e preghiera con le due comunità di religiose delle nostre poblaciones e i responsabili prendono corpo le scelte concrete di una Chiesa che serve: in prevalenza sono gruppi dei aiuto fraterno che hanno direttamente carattere assistenziale, ma allo stesso tempo evangelicamente formativi perchè aprono i cristiani, le religiose e noi preti a un servizio per i fratelli poveri e perseguitati, sono insieme denuncia chiara delle scelte politiche, sociali ed economiche del governo militare. (…..) Nelle nostre poblaciones nascono primi e più numerosi che in tutta la regione e la diocesi i refettori infantili, gruppi di aiuto ai malati, bazar per lavorare e vendere vestiti usati, nelle forme più aperte e servizievoli per evitare ogni possibile e minima umiliazione per chi è obbligato da altri uomini a ricorrervi. Poveri per e con i poveri. (…….)

Inizia la repressione

Il governo non era riuscito a dividere la Chiesa cattolica come aveva potuto con la Chiesa luterana e con la conquista di quasi tutte le sette protestanti. Agli ultimi di settembre del 1975 si verificano gli arresti di alcune religiose e di sacerdoti, specialmente di Santiago. Si fa luce e si porta in atto un piano che già mesi prima avevamo letto in alcune in alcune riviste italiane e cilene, elaborato dalla CIA, dalla polizia, dai ricchi e dai governi di parecchi stato sudamericani come Bolivia, Uruguay, Brasile. Prima le calunnie, i sospetti e il discredito degli elementi cosiddetti “stranieri” di fronte al tentativo di fare una Chiesa nazionalista appoggiando vescovi e sacerdoti favorevoli al regime. Poi la detenzione di alcuni di questi elementi in luoghi e ore isolati, con collocazione nei luoghi da loro frequentati di materiale di propaganda compromettente, possibilmente armi. Nessuna meraviglia, quindi, che tutto questo lo facciano anche con noi quando, alle 6,20 dell’8 novembre del 1975, perquisiscono la nostra casa, ci presentano le accuse preparate a tavolino e ci incarcerano.(….)

bambini mapuche

Guardatela con attenzione questa foto. Osservate gli sguardi perplessi ma aperti dei bambini. Fate attenzione all’espressione e al sorriso dei due giovani preti. Leggo che i “Mapuche” sono un popolo amerindo originario del Cile centrale e meridionale e del sud dell’Argentina. Gente la cui vita non era, e credo non lo sia ancora, agiata. Probabilmente il ceto più basso della società cilena, gente che per sopravvivere si doveva ( si deve)  massacrare di lavoro, che viveva (vive) in situazioni di grossi disagi e privazioni. Gente che procrea tra loro, come solitamente accade tra i poveri, la cui istruzione – e quindi il livello sociale – era (è) bassissimo. Gente per cui i servizi difficilmente sono accessibili, Diritti? Mah….

Giuseppe e Tore, nei loro anni di preparazione al sacerdozio, sicuramente avevano maturato il (doveroso!) desiderio di vivere il loro ministero in mezzo ai derelitti della società, a quelli che facevano e continuano a fare più fatica. Quelli coi quali Gesù stesso preferiva stare nella sua vita terrena. È forse questo il motivo per cui avevano espresso al loro vescovo  il desiderio  di vivere un periodo della loro vita in una parte del mondo, chiamata genericamente “terra di missione”, con l’intento non tanto d’imporre il loro credo – come in particolar modo nel periodo colonialista è purtroppo successo troppe volte, quando la croce si accompagnava con la spada – quanto far conoscere la bontà di un Dio fattoci conoscere da Gesù e, di conseguenza, condividere in tutto e per tutto la vita dei più poveri, materialmente e non solo e forsanche non sopratutto materialmente.

Riporto una porzione di lettera nella quale Giuseppe e Tore cercano di spiegare questa loro volontà di stare a stretto contatto col popolo, specialmente in quegli anni di terrore e di repressione, conoscendolo nei vari aspetti per entrare nel modo più rispettoso possibile nella loro vita quotidiana e nel loro…cuore. (Pi.Mu.)

ENTRARE NEL CUORE DEL POPOLO

di Giuseppe Murineddu e Tore Ruzzu

Non abbiamo scelto il Cile perchè trovassimo un posto più comodo e più facile (….). Noi non vorremmo tradirlo, il vero popolo cileno e il Vangelo, vorremmo essergli fedeli con la nostra debolezza e ci vorremmo rimanere perchè il vero cileno ha enormi valori da comunicare. Ci rimarremo finché non saranno il vescovo o le autorità militari a non volerci più. Stiamo cercando di conoscere e studiare le reazioni dei cileni e dei cristiani in particolare di fronte a questa situazione, a questi fatti della vita sociale ed ecclesiale che assumono il valore di provare la onestà e la sincerità di quanto finora si era costruito. Intanto  apprendiamo come studiare le persone, come reagiscono, come si comportano: se hanno una doppia personalità, adesso che il modo di agire richiesto ufficialmente è tutto il contrario di prima. Stiamo imparando a conoscere la Chiesa ufficiale cilena: i preti cileni e i preti stranieri; le famiglie straniere che sono venute per lavorare e stanno bene con Ditte, Imprese ecc; quelli che possiedono le miniere e quelli che ci mettono i polmoni e, in un segno di fittizia libertà (per loro è l’unica libertà), si bevono tutto quando scendono dalle miniere. In città li chiamano flojos (in italiano sarebbe “pigri” “fiacchi”); la loro età media è ridotta, soffrono di silicosi, chi se ne ammala ha una pensione e le famiglie non sanno come mantenerli, anche se hanno un grandissimo amore per i loro padres e abuelitos (nonni). Stiamo imparando a conoscere quelli che vivono al centro e quelli che vivono in otto o dieci persone in una stanza fatta di tavole e cartone; i carcerati e i condannati al confino; quelli che vivono in libertà aspettando un giorno o l’altro il loro turno quando le indagini arriveranno a loro; quelli che hanno un familiare, sanno che sta bene, che è nascosto e nient’altro; quelli che considerano pecora nera della famiglia, il parente che aveva idee contrarie; le famiglie che ancora guadagnano 4000 escudes, quando il datore di lavoro deve dargliene per legge almeno 12000; quello che possono comprare finalmente(?) le loro scarpe ultima moda 8000 escudes e chi le deve comprare di gomma e tela; quelli che possono comprare il filetto a 1800 escudes  e quelli che devono comprare le ossa che restano per il brodo a 100-150 escudes. Quando c’è una prova, quando la realtà ci obbliga ad un cambio, si manifesta la persona opportunista, la persona coerente, la persona precipitosa, la persona giusta, la persona sciacalla, la persona immatura, la persona vera, la persona che per amare si sacrifica e perde sé stessa.(…..)

Continua….

Le preziose “Lettere dal deserto” di Carlo Carretto

La chiamata di Dio è cosa misteriosa, perché avviene nel buio della fede.

In più essa ha una voce sì tenue e sì discreta, che impegna tutto il silenzio interiore per essere captata.

Eppure nulla è così decisivo e sconvolgente per un uomo sulla terra, nulla più sicuro e più forte.

Tale chiamata è continua: Dio chiama sempre! Ma ci sono dei momenti caratteristici di questo appello divino, momenti che noi segnamo sul nostro taccuino e che non dimentichiamo più.

Tre volte nella mia vita intesi questa chiamata.

La prima determinò la mia conversione a 18 anni. Ero in un villaggio di campagna, maestro elementare.

Venne, in occasione della Quaresima, una missione per il popolo. Vi presi parte, e di essa mi rimase il ricordo di una predicazione antiquata e noiosa. Posso dire che non furono certo le parole a scuotere il mio stato d’indifferenza e di peccato. Ma quando mi inginocchiai dinanzi ad un vecchio missionario, di cui ricordo gli occhi chiari e semplici, per esporre la mia confessione, avvertii nel silenzio dell’anima il passaggio di Dio.

Da quel giorno mi sentii cristiano e constatai che la mia vita era cambiata.

La seconda volta fu a 23 anni. Pensavo a sposarmi; e nemmeno sapevo che poteva esistere qualche altra via per me.

Incontrai un medico che mi parlò della Chiesa e della bellezza di servirla con tutto il nostro essere, pur restando nel mondo. Non so che cosa avvenne in quei giorni e come avvenne; il fatto si è che, pregando in una chiesa deserta dov’ero entrato per sfogare il tumulto dei pensieri che agitavano la mia mente, sentii la stessa voce che avevo udito durante la confessione col vecchio missionario. “Tu non ti sposerai; tu mi offrirai la tua vita. Io sarò il tuo amore per sempre”.

Non fu difficile rinunciare al matrimonio e consacrarmi a Dio, perché tutto era cambiato in me; a me sarebbe parso strano innamorarmi di una  ragazza, tanto Dio riempiva la mia vita.

Furono anni pieni di lavoro, di passioni, di incontri con anime, di grandi sogni. Gli stessi sbagli – e furono molti – erano dovuti alla violenza di ciò che bruciava dentro di me e che non era ancora purificato.

Passarono molti anni; e molte volte mi sorpresi in preghiera a domandare di risentire il suono di quella voce che tanta importanza aveva avuto per me.

Fu a 44 anni che ciò avvenne; e fu la chiamata più seria della mia vita: la chiamata alla vita contemplativa. Essa si determinò nel più profondo della fede, là dove il buio è assoluto e le forze umane non aiutano più.

Questa volta dovevo dire di sì senza nulla capire: “Lascia tutto, e vieni con me nel deserto. Non voglio più la tua azioni, voglio la tua preghiera, il tuo amore”.

Qualcuno, vedendomi partire per l’Africa, pensò ad una crisi di sconforto, di rinuncia. Nulla è più inesatto di ciò. Sono così ottimista per natura e ricco di speranza, che non conosco ciò che sia lo sconforto o la rinuncia alla lotta.

No; fu la chiamata decisiva. E mai la compresi come quella sera dei Vespri di S. Carlo del 1954, quando dissi di sì alla Voce.

“Vieni con me nel deserto”. C’è una cosa più grande della tua azione: la preghiera; c’è una forza più efficace della tua parola: l’amore!

E andai nel deserto.

Senza aver letto le Costituzioni dei Piccoli Fratelli di Gesù, entrai nella loro Congregazione; senza conoscere Charles de Foucauld mi misi alla sua sequela.

Mi bastava aver sentito la voce che mi aveva detto: “Questa è la tua strada”.

Fu camminando coi Piccoli Fratelli sulle piste del deserto che scoprii la bontà della via; fu seguendo il Padre de Foucauld che mi convinsi che proprio quella era la mia via.

Ma Dio me l’aveva già detto nella fede!

 

 

Ma faccio bene a scrivere queste cose?

Quando giunsi a El Abiod Sidi Seik per il noviziato, il mio maestro mi disse con la calma più perfetta d’un uomo che aveva vissuto vent’anni nel deserto: “Il faut faire une coupure, Carlo”.

Io capii cosa voleva dire quella frase e decisi di fare il taglio anche se doloroso.

Avevo nella mia sacca conservato un grosso quaderno su cui erano annotati gli indirizzi dei miei vecchi amici: ce n’erano migliaia.

Il Signore nella sua bontà non m’aveva mai lasciato mancare la gioia dell’amicizia e su un vero fiume d’amore aveva navigato la barca della mia vita.

Se restava in me una sofferenza nascosta era certamente quella di non poter – al momento della mia partenza per l’Africa – parlare a ciascheduno di loro, spiegare il motivo dell’abbandono, dire che obbedivo ad una chiamata chiara di Dio e che, anche se da un’altra trincea, avrei continuato a militare con loro nel campo dell’apostolato.

Ma bisognava fare la famosa “coupure”ed io la feci con coraggio e con una grande fiducia in Dio.

Presi l’indirizzario che era per me come l’ultimo legame al passato ed andai a bruciarlo dietro una duna durante una giornata di ritiro.

Rivedo ancora i resti anneriti del quaderno trasportati lontano dal vento del Sahara.

Ma bruciare un indirizzo non significa distruggere l’amicizia, né questo mi era richiesto; anzi…

Mai ho amato e pregato tanto per i miei vecchi amici come nella solitudine del deserto. Ne rivedevo i volti, ne sentivo i problemi, le sofferenze acuite dalla distanza.

Essi erano diventati per me come un gregge che mi sarebbe appartenuto per sempre e che io dovevo condurre con me ogni giorno alla fonte della preghiera.

Quasi fisicamente li sentivo attorno a me quando entravo nella chiesa di stile arabo a El Abiod o, più tardi negli eremitaggi famosi costruiti dallo stesso padre de Foucauld a Tamanrasset, all’Assekrem.

Pregare era diventato il mio maggiore impegno, la mia più dura fatica quotidiana e avevo per vocazione cosa significasse “portare gli altri” nella nostra preghiera.

Ebbene: a distanza di anni posso dire di aver mantenuto il mio impegno, mentre s’è fatta sempre più chiara la certezza che a pregare non si perde il proprio tempo e che non esiste forma più adatta per aiutare coloro che amiamo.

Rimane il problema dell’indirizzario che non posseggo più, ma questo non ha molta importanza perché esistono altri mezzi per raggiungere gli amici.

Ecco, vorrei dare a loro l’appuntamento in uno dei tanti angoli meravigliosi del Sahara verso la sera al calar del sole, e ritrovarci tutti come ci siamo trovati allora in quella sera famosa del settembre 1948 nella piazza di S. Pietro. Ricordate?

Qui non ci sarebbe bisogno di fiaccole, tanto il cielo è chiaro di stelle.

Ci sederemmo sulla sabbia e trascorreremmo la notte a raccontarci la vita di questi anni, le tappe compiute, le prove subite.

Penso che la stella del mattino ci troverebbe ancora a conversare.

Per conto mio, ho voluto annotare qui in queste “lettere dal deserto” le cose che direi, se mi fosse data una simile occasione, e che rappresentano certamente una parte di me stesso.

Niente di sistematico, niente di importante. Alcune idee maturate nella solitudine e gravitanti attorno ad un’attività che è stata senza alcun dubbio il più grande dono che mi ha fatto il Sahara: pregare.

Se ho fatto bene o male a scrivere, lo direte voi, i miei cari vecchi amici; ma sento che se non altro la cosa avrà servito a ripensare con esperienza nuova i problemi che sono stati alla base della nostra amicizia.

Vostro piccolo fratello

 

Carlo Carretto

 

 Sotto la grande pietra

 

La pista, bianca di sole, si snodava dinanzi a me con tracciato incerto. I solchi nella sabbia, fatti dalle ruote delle grandi cisterne dei “petrolieri”, m’obbligavano ad una ginnastica continua per mantenere la direzione della jeep.

Il sole era alto e mi sentivo stanco. Solo il vento che soffiava sul muso della macchiana permetteva ancora alla jeep di procedere, benché la temperatura fosse infernale e l’acqua bollisse nel radiatore. Di tanto in tanto il mio sguardo si posava sull’orizzonte. Sapevo che nella zona c’erano grossi blocchi di granito emergenti dalla sabbia: ricercatissimi luoghi d’ombra per fare il campo e attendere la sera per proseguire il viaggio.

Difatti, verso mezzogiorno, trovai ciò che cercavo. Grosse rocce apparvero sulla sinistra della pista; ed io mi avvicinai, sicuro che avrei trovato un po’ d’ombra.

Non ne fui deluso. Sulla parete nord d’un gran macigno alto una decina di metri una lama d’ombra si proiettava sulla sabbia rossa. Misi la jeep contro vento per raffreddare il motore e scaricai il “ghess”, cioè l’indispensabile per fare il campo: una stuoia, il sacco dei viveri, due coperte e il treppiede per il fuoco.

Ma, avvicinandomi alla roccia in ombra, mi accorsi che c’erano già ospiti: due vipere se ne stavano raggomitolate nella sabbia calda e mi sorvegliavano senza muoversi. Feci un salto indietro, m’avvicinai alla jeep senza perder di vista i due serpenti; e presi il fucile, un vecchio aggeggio che un indigeno m’aveva prestato per aiutarlo a liquidare gli sciacalli che attaccavano i suoi greggi, spinti dalla fame e dalla siccità.

Misi una cartuccia con piombo medio; e mi allontanai, cercando di colpire le due vipere d’infilata per non sprecare un altro colpo. Tirai e vidi le due bestie saltare in aria tra un novolo di sabbia. Ripulendo la zona dal sangue e dai resti delle vipere, vidi che dal ventre squarciato di una di esse usciva un uccellino non ancora digerito.

Stesi la stuoia, che nel deserto è tutto: cappella, sala da pranzo, camera da letto, salotto di ricevimento; e mi sedetti.

Era l’ora sesta e presi il breviario.

Recitai qualche salmo, ma con un certo sforzo, data la stanchezza e la faccenda di quelle due vipere che di tanto in tanto mi saltavano a pezzi sui versetti. Una vampa calda veniva dal sud e la testa mi doleva. Mi alzai; calcolai l’acqua che mi rimaneva prima di giungere al pozzo di Tit, e decisi di sacrificarne un po’. Ne attinsi dalla “gherba” di pelle di capra una ciotola ddi un litro e me la versai sulla testa. L’acqua imbibì il turbante, mi scese sul collo e sui vestiti; ilvento fece il resto; e la temperatura, da 45 gradi, discese in pochi minuti a 27. Con quel senso di refrigerio mi stesi sulla sabbia per dormire, perché nel deserto la siesta precede il pranzo.

Per star più comodo, cercai una coperta per mettermela sotto il capo. Ne avevo due, e ben lo sapevo. Una coperta rimase accanto a me, inutilizzata e, guardandola, non mi sentivo tranquillo.

Ma se volete capire, dovete ascoltare la storia.

La sera prima ero passato da Irafok, un piccolo villaggio di negri, ex schiavi dei Tuareg. Come al solito, quando si giunge in un villaggio, la popolazione corre a far ressa attorno alla jeep, sia per curiosità, sia per quei piccoli servizi che si fanno da chi frequenta la pista del deserto: portare un po’ di tè, distribuire medicine, consegnare qualche lettera.

Quella sera avevo notato il vecchio Kadà che tremava dal freddo. Sembra strano parlare di freddo nel deserto, eppure è così; tanto che la definizione del Sahara è la seguente: “paese freddo dove fa molto caldo quando c’è il sole”. Ma il sole era tramontato; e Kadà tremava.

Mi venne l’impulso di dargli una delle due coperte che avevo con me e che formava il mio “ghess”; ma mi distrassi volentieri da quel pensiero. Pensavo alla notte, e sapevo che anch’io avrei tremato. Quel po’di carità ch’era in me tornò all’assalto, facendomi notare che la mia pelle non valeva più della sua  e che avrei fatto bene a dargkiene una; e che, se anche avessi tremato un po’, era ben giusto per un piccolo fratello.

Quando partii, le due coperte erano ancora sulla jeep; ed ora erano là davanti a me e mi davano fastidio.

Cercai d’addormentarmi coi piedi appoggiati alla grande roccia, ma non ci riuscii. Mi venne in mente che un Tuareg un mese prima era stato schiacciato da un massoproprio mentre faceva la siesta. Mi alzai per assicurarmi della stabilità del masso: vidi che era piuttosto in bilico, ma non proprio da essere pericoloso.

Mi ricoricai sulla sabbia. Se vi dicessi che sognai, vi sembrerebbe strano. Ma il più strano è che sognai che dormivo sotto la grande pietra e che ad un certo punto… Non mi pareva affatto un sogno: vidi la pietra muoversi; e mi sentii venire addosso il masso. Che brutto momento!

Ero liquidato. Sentii scricchiolare le ossa e mi trovai morto. Mi stupivo che nessun osso mi dolesse: ero solo immobilizzato. Aprii gli occhi e vidi Kadà che tremava davanti a me a Irafok. Allora non esitai più a dargli la coperta, tanto più che era inutilizzata vicino a me, a un metro di distanza. Cercai di allungare la mano per offrirgliela; ma il masso che mi aveva immobilizzato mi impediva il più piccolo movimento. Capii che quello era il purgatorio e che la sofferenza dell’anima era di “non poter più fare ciò che prima si poteva e si sarebbe dovuto fare!”. Chissà per quanti anni avrei visto quella coperta vicino a me, in quella scomoda posizione, a testimoniare il mio egoismo e quindi la mia immaturità ad entrare nel Regno dell’Amore.

Provai a pensare quanto tempo sarei rimasto sotto il masso. La risposta me la suggerì il Catechismo: “Fin tanto che sarai capace di un atto di amore di amore perfetto!”. In quel momento non mi sentivo capace.

L’atto d’amore perfetto è l’atto di Gesù che sale il Calvario per morire per tutti noi. A me, membro del suo Corpo Mistico, si chiedeva se ero giunto a tanta maturità d’amore da desiderare di seguire il mio Maestro sul Calvario per la salvezza dei miei fratelli. La presenza della coperta negata a Kadà la sera prima mi diceva che avevo ancora molta strada da percorrere! Capace di vedere un fratello che trema e passar oltre, come sarei stato capace di morire per lui ad imitazione di quel Gesù che morì per tutti? Qui compresi che ero perduto; e che, se non fosse intervenuto Qualcuno ad aiutarmi, io avrei trascorso epoche ed epoche geologiche senza più potermi muovere.

Guardai altrove e mi accorsi che tutti quei grossi massi del deserto non erano altro che sepolcri di altri uomini. Anch’essi, giudicati nell’amore e trovati freddi, erano là ad attendere Colui che un giorno aveva detto: “Io vi risusciterò nell’ultimo giorno”.

 

 

 Sarete giudicati sull’amore

 

Ancora oggi non saprei dirvi se l’episodio della grande pietra sia stato un sogno e che genere di sogno.

Ha esercitato così fotre influenza sui miei pensieri, ha talmente cambiato le prospettive in cui si vedono le cose, che non l’ho mai potuto attribuire a ciò che comunemente intendiamo quando, svegliandoci, diciamo: “Ho fatto un sogno.”

No, no: è stato qualcosa di più. Per me, quel tratto di deserto tra Tit e Silet rimane il luogo del mio purgatorio, l’ambiente dove si raccoglie volentieri la mia anima a meditare le cose di Dio e dove… probabilmente chiederò d’andare, dopo morte, a continuare la mia espiazione, se non sarò stato capace in vita di compiere un atto d’amore perfetto.

Ecco la grande pietra sotto il sole accecante del Sahara, la lama d’ombra sulla sabbia calda, la distesa fino all’orizzonte dell’oued solcato dalle tracce dei camion e delle jeep dei petrolieri e dei geologi.

“Sarete giudicati sull’amore” mi ripete sulla mia immobilità questo luogo; e i miei occhi bruciati dal sole guardano lontano il cielo senza nubi.

Non mi voglio più ingannare; non mi posso più ingannare: la realtà è che non sono stato capace di dare la mia coperta a Kadà per paura della notte fredda; il che significa che io amo più la mia pelle di quella del mio fratell, mentre il comandamento di Dio mi dice: “Ama la vita degli altri come la tua.”

E ciò appartiene ancora al Vecchio Testamento, alla prima rivelazione di Dio all’uomo: “Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo tuo come te stesso.” (Dt 6, 5).

Che se veniamo al Nuovo e alla Rivelazione di Gesù, le cose si complicano. “Amatevi tra di voi come Io vi ho amato.” (Gv13, 34).

Come Io! cioè non solo la coperta ma la vita stessa. In realtà l’atto d’amore perfetto consiste nell’essere disposto a fare ciò che fece Gesù: cioè a morire per Kadà, per me, per tutti.

Sotto questa visuale, il Cielo è quel luogo dove ciascuno dei presenti dev’essere talmente “maturo all’amore”, da offrire la sua vita per tutti gli altri. È l’amore perfetto, universale, radicale, senza ombra d’avversità, d’antipatia, di limite, colati in esso come nel fuoco.

Chi è pronto a ciò, alzi la mano!

Per questo, dopo la visione della grande pietra, vedo il mio purgatorio lungo, terribilmente lungo, forse lungo come le epoche geologiche.

Questa sabbia che tocco con le mani, che scorre tra le mie dita appartiene al “Primario”. Un qualunque geologo mi dice: è vecchia di 350 milioni d’anni.

I grandi rettili che popolarono questi luoghi e di cui ho visto i resti nelle fosse sahariane appartengono al secondario: 130 milioni d’anni. Quei cammelli che portano il sale dal Niger e che mi passano dinanzi in carovane lunghe ed eleganti, annoverano i loro progenitori nel lontano terziario: 70 milioni d’anni. E l’uomo, questo uomo così grande e nello stesso tempo così piccolo, con quanta lentezza marcia sui cimiteri di anumali che l’hanno preceduto!

È del quaternario, di ieri: 500.000 anni.

Dio non ha fretta nel fare le cose; e il tempo è suo e non mio. Ed io, piccola creatura, uomo, sono stato chiamato da essere trasformato in Dio per partecipazione. E ciò che mi trasforma è la carità, che Dio ha infuso nel mio essere.

L’amore mi trasforma lentamente in Dio.

E il peccato, è proprio qui: resistere a questa trasformazione, saper e poter dire di no all’amore.

Vivere nel nostro egoismo significa fermarsi allo stato di uomo e impedirne la trasformazione nella carità divina.

E fin tanto che non sarò trasformato “per partecipazione” in Dio, attraverso la carità, sarò di “questa terra” e non di “quel cielo”.

Il Battesimo mi ha elevato allo stato soprannaturale; ma tale stato deve essere maturato, e tutta la vita ci è data per tale maturazione; ed è la carità, cioè l’amore di Dio, che ci trasforma.

L’aver resistito all’amore, il non essere stato capace di accettare la sollecitazione di tale amore che mi aveva detto: “Da’ la coperta al tuo fratello”, è talmente grave, che crea, tra me e Dio, la porta del mio purgatorio.

Che vale dire bene l’Ufficio divino, ascoltare la S. Messa e non accettare l’amore?

Che vale aver rinunziato a tutto, l’essere venuto qua tra la sabbia e il caldo e resistere all’amore?

Che vale difendere la verità, battersi per i dogmi coi teologi, scandalizzarsi di coloro che non hanno la stessa fede e p[oi restare per epoche geologiche sulla porta del purgatorio?

“Sarete giudicati sull’amore”: ecco ciò che mi grida quel pezzo di deserto tra Tit e Silet.

“Sarete giudicati sull’amore” mi dice la grande pietra sotto la quale trascorrerò il mio purgatorio in attesa di maturare in me la carità perfetta, quella che Gesù mi ha recato sulla terra e mi ha donato col prezzo del Suo Sangue, accompagnandolo col grido della grande speranza: “Io vi risusciterò nell’ultimo giorno! ” (Gv 6, 40).

Che quel giorno non sia troppo lontano!

 

 Sei nulla

 

La grande ricchezza del noviziato sahariano è senza dubbio la solitudine e la gioia della solitudine, il silenzio. Un silenzio, il vero, che penetra per ogni dove, che invade tutto l’essere, che parla all’anima con una forza meravigliosa e nuova, non certo conosciuta dall’uomo distratto.

Quaggiù si vive sempre in silenzio e si impara a distinguerne le sfumature: silenzio della chiesa, silenzio della cella, silenzio del lavoro, silenzio interiore, silenzio dell’anima, silenzio di Dio.

Per imparare a vivere questi silenzi, il maestro dei novizi ci lascia partire per qualche giorno “di deserto”.

Una sporta di pane, qualche dattero, dell’acqua, la Bibbia. Una giornata di marcia: una grotta.

Un sacerdote celebra la S. Messa; e poi parte lasciando nella grotta, su un altare di sassi, l’Eucaristia. Così per una settimana, si resterà soli con l’Eucaristia esposta giorno e notte.

Silenzio nel deserto, silenzio nella grotta, silenzio nell’Eucaristia. Nessuna preghiera è così difficile come l’adorazione dell’Eucaristia. La natura vi si ribella con tutte le forze.

Si preferirebbe trasportare sassi sotto il sole. La sensibilità, la memoria, la fantasia, tutto è mortificato. Solo la fede trionfa; e la fede è dura, è buia, è nuda.

Mettersi dinanzi a ciò che ha l’aspetto di pane e dire: “Lì c’è Cristo vivo e vero”, è pura fede.

Ma nulla nutre di più della pura fede; e la preghiera nella fede è vera preghiera.

“Adorare l’Eucaristia non c’è gusto”, mi diceva un novizio. Ma è proprio questa mortificazione del gusto che rende salda e vera la preghiera.

È l’incontro con Dio al di là della sensibilità, al di là della fantasia, al di là della natura.

Ed è qui il primo aspetto dello spogliamento. Fin tanto che la mia preghiera resta ancorata al gusto, saranno facili gli alti e bassi; le depressioni seguiranno gli entusiasmi effimeri. Sarà sufficiente un mal di denti per liquidare tutto il fervore religioso dovuto ad un po’ di estetismo o a un moto di sentimento.

“Occorre spogliare la tua preghiera”mi dice il maestro dei novizi. “Occorre semplificare, disintellettualizzare. Mettiti dinanzi a Gesù come un povero: senza idee, ma con fede viva. Rimani immobile in un atto di amore dinanzi al Padre. Non cercare di raggiungere Dio con l’intelligenza: non ci riuscirai mai; raggiungilo nell’amore: ciò è possibile”.

La battaglia non è facile; perché la natura vuole la sua rivalsa, vuole la sua razione di godimento, e l’unione con Gesù crocifisso è tuttáltra cosa.

Dopo qualche ora – o qualche giorno – di questa ginnastica, il corpo si placa. Visto che la volontà gli rifiuta il piacere sensibile, non lo cerca più; diventa passivo. Si addormentano i sensi. Il poco mangiare, il molto vegliare e il pregare con umile insistenza rendono la casa dell’anima una dimora silenziosa, pacificata. I sensi dormono. Meglio, come dice S. Giovanni della Croce, è la “notte dei sensi” che comincia. Allora la preghiera diventa una cosa seria, anche se dolorosa e arida. Così seria che non se ne può più fare a meno. L’anima entra nel lavoro redentivo di Gesù.

Inginocchiato sulla sabbia, dinanzi al rudimentale ostensorio che conteneva Gesù, pensavo al male del mondo: odi, violenze, turpitudini, impurità, menzogne, egoismi, tradimenti, idolatrie, adulteri. Attorno a me la grotta era diventata vasta come il mondo; e i miei occhi interiori contemplavano Gesù oppresso sotto il peso di tanto male.

L’Ostia non è forse, nella sua stessa forma, come pane schiacciato, tritato, cotto? E non conteneva essa forse l’Uomo dei dolori, il Cristo vittima, l’Agnello sgozzato per i nostri peccati?

E qual era la mia posizione vicino a Lui?

Per molti anni avevo pensato di essere “qualcuno”nella Chiesa. Avevo perfino immaginato questo sacro edificio vivente come un tempio sostenuto da molte colonne piccole e grandi e sotto ogni colonna la spalla di un cristiano.

Anche sulle mie pensavo gravasse una sia pur piccola colonna.

A forza di ripetere che Dio aveva bisogno degli uomini e che la Chiesa aveva bisogno di militanti, vi avevamo creduto.

L’edificio gravava sulle nostre spalle.

Iddio, dopo aver creato il mondo, s’era messo a riposo; il Cristo, fondata la Chiesa, era scomparso nel Cielo. Tutto il lavoro era restato a noi, alla Chiesa. Soprattutto noi dell’Azione Cattolica eravamo i veri facchini, che sostenevano il peso della giornata.

Con questa mentalità non ero più stato capace d’andare in vacanza; anche la notte mi sentivo militante. Ed era tanto il lavoro, che, per espletarlo, il tempo non era più sufficiente. Si procedeva sempre di corsa da un impegno all’altro, da una adunanza all’altra, da una città all’altra.

La preghiera era affrettata, i discorsi concitati, il cuore agitato.

Siccome tutto dipendeva da noi e il tutto andava così male, si aveva ben ragione di essere inquieti.

Ma chi si era accorto di ciò? Sembrava sì giusta e sì vera la via dell’azione!

Già da piccoli s’era incominciato col ritornello: “Primi in tutto per l’onore di Cristo Re”; quindi, diventati giovani: “Tu sei guida”; diventati adulti: “Sei un responsabile, sei un capo, sei un apostolo”… A forza di essere “qualcosa” sempre, la piega dell’anima era stata presa; e le parole di Gesù: “Voi siete servi inutili”, “Senza di me non potete far nulla”, “Chi di voi vuol essere il primo sia l’ultimo” sembravano dettate per altra gente, per altri tempi; e scorrevano sulla pietra dell’anima senza più intaccarla, bagnarla, ammorbidirla.

È caratteristica la parabola della mia vita. Il mio primo maestro mi aveva detto: “Primo in tutto per l’onore di Cristo Re”; e l’ultimo, Charles de Foucauld, mi aveva suggerito: “Ultimo di tutti per l’amore di Gesù Crocifisso”.

Eppure può darsi che tutti e due avessero ragione e che il colpevole fossi io a non capire bene la lezione.

In ogni caso ora ero là, in ginocchio, sulla sabbia della grotta che aveva preso le dimensioni della Chiesa stessa; e sentivo sulle mie spalle la famosa colonnina del militante. Forse era questo il momento di vederci chiaro.

Mi trassi indietro di colpo, come per liberarmi da quel peso. Che cosa avvenne? Tutto rimase al suo posto, immobile. Non una scalfittura nella volta, non uno scricchiolio.

Dopo venticinque anni mi ero accorto che sulle mie spalle non gravava proprio niente e che la colonna era falsa, posticcia, irreale, creata dalla mia fantasia, dalla mia vanità.

Avevo camminato, corso, pedalato, organizzato, lavorato, credendo di sostenere qualcosa; e in reltà avevo sostenuto proprio nulla.

Il peso del mondo era tutto su Cristo Crocifisso. Io ero nulla, proprio nulla.

Ce n’era voluto a credere alle parole di Gesù che da duemiola anni mi aveva già detto: “Voi, quando avete fatto tutto ciò che vi è stato comandato dite: Siamo servi inutili, perché abbiamo solo fatto il nostro dovere” (Lc 17, 10).

Servi inutili !

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 Chi guida le cose del mondo?

 

La prima impressione che mi lasciò questa avventura fu quella della libertà. Una libertà nuova, ampia, autentica, gioiosa.

L’aver scoperto che ero nulla, che non ero responsabile di nessuno, che non ero un uomo importante, mi diede la gioia di un ragazzino in vacanza.

Venne la notte e non dormii. Mi allontanai dalla grotta e camminai sotto le stelle in pieno deserto.

“Dio mio, ti amo; Dio mio, ti amo”, gridavo verso il cielo nello straordinario silenzio.

Stanco di camminare, mi stesi su una duna di sabbia e immersi gli occhi nella volta stellata. Come mi erano care quelle stelle; e come il deserto me le aveva avvicinate! A forza di passare le notti all’addiaccio, ero stato spinto a saperne il nome, poi a studiarle, a conoscerle ad una ad una. Ora ne distinguevo il colore, la grandezza, la posizione, la bellezza. Sapevo orientarmi su di esse al primo colpo d’occhio; e dalla loro posizione deducevo l’ora senza bisogno di orologio.

Ecco la costellazione del Cigno, che sembra in conversazione con Altair, chiara come un brillante. Saetta e il Delfino sembrano ascoltare, chiusi nella loro umile piccolezza. Pegaso sta montando ad oriente col suo quadrato di stelle, mentre Perla scompare ad occidente. Tra poco la rossa Angol mi condurrà l’eleganza di Perseo.

Ritorno con gli occhi su Andromeda. Ed è così chiara la notte, che incomincio a scorgere la nebulosa che porta il nome della costellazione.

È il corpo celeste più lontano dalla terra, visibile ad occhio nudo: 800 mila anni luce.

Tra quella enorme distanza e la più piccola – quattro anni luce di Proxima, che mi apparirà tra due anni nella costellazione del Centauro – ci sono le distanze di tutto questo ammasso di 40 miliardi di stelle a cui ammonta la Galassia alla quale noi – piccolo granello di sabbia chiamato Terra – apparteniamo.

E al di là della nebulosa di Andromeda, altri milioni di nebulose e miliardi di stelle che i miei occhi non vedono ma che Dio ha creato.

Perché non mi è mai saltato in testa che una pur piccola colonna che regge il cosmo non gravi sulle mie spalle? Ed è forse il cosmo diverso dagli uomini?

Ed io l’avevo pensato.

È vero che Gesù aveva detto: “Andate e istruite tutte le genti” (Mt 28, 18), ma aveva aggiunto: “senza di me non potete far nulla”(Gv 15, 5). È vero che S. Ignazio aveva detto: “Fate come se tutto dipenda da voi”; ma aveva aggiunto: “però aspettate come se tutto dipenda da Dio”.

Dio è il creatore del cosmo fisico, come è il creatore del cosmo umano. Dio è il reggitore delle stelle come è il reggitore della Chiesa. E se ha voluto, per amore, rendere gli uomini collaboratori suoi nella salvezza, il limite del loro potere è ben piccolo e determinato: è il limite del filo rispetto alla corrente elettrica.

Noi siamo il filo, Dio è la corrente. Tutto il nostro potere sta nel lasciar passare la corrente. È certo: abbiamo il potere di interromperla, abbiamo il potere di dir di no; ma nulla di più.

Non l’immagine, quindi, di colonna che sostiene, ma di filo che trasmette un potere.

Ma altro è il filo, altro è la corrente; son di natura ben diversa; e il filo non può certo insuperbire, anche se è un filo che trasmette corrente ad alta tensione.

Il pensare che le cose del mondo, come quelle degli astri, siano in mano a Dio – quindi in buone mani – , oltre ad essere la pura verità, è cosa che dovrebbe fare immenso piacere a chi ci tiene che le cose vadano bene.

Dovrebbe essere fonte di fede serena, di speranza gioiosa e soprattutto di pace profonda. Che cosa posso temere, se il tutto è guidato e sorretto da Dio? Perché agitarmi tanto, come se tutti questi problemi dipendessero da me o dai miai colleghi, gli uomini; e non cercare, invece, di capire che ci sono altre vie più interessanti e più efficaci da battere?

Eppure è così difficile credere radicolmente all’azione di Dio nelle cose del mondo! Ed è, penso, la tentazione più frequente e prolungata, a cui siamo sottoposti su questa povera terra.

Tutta la Bibbia è là a testimoniare questo dramma; e, in fondo, la storia del popolo eletto non è altro che la storia d’un pugno d’uomini a cui Dio chiede continuamente e in ogni occasione: “Credi in me? Io sono il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe. Io sono il Dio che con mano forte ti ho tratto dalla schiavitù d’Egitto, t’ho guidato in una terra riarsa, t’ho nutrito di manna dal cielo e t’ho dato a bere l’acqua scaturita dalla roccia. Per te ho colpito i primogeniti d’Egitto, per te ho atterrato re potenti. E che hai fatto per ricompensarmi di questi prodigi, di questa assistenza continua? Ti sei costruito idoli di legno e d’argento e ha abbandonato ma, tuo Dio”.

“Invece di adorare Colui che ti ha creato e salvato le mille volte dai tuoi nemici, su colli prominenti e in boschi sacri, hai bruciato incensi a dei stranieri; dei che nulla possono, nulla sanno; dei che hanno le mani e non toccano, hanno piedi e non camminano, e nessun suono esce dalla loro bocca”(Sal 113, 5).

Questa è la storia di sempre, storia d’Israele e storia nostra. Anche noi crediamo in Dio; ma poi ci fidiamo dei potenti, crediamo alle loro raccomandazioni e finiamo di pensare che le cose di questo mondo sono salde nelle loro mani e che a loro dobbiamo chiederle.

Anche noi crediamo in Dio e lo preghiamo; ma poi ci convinciamo che sono i grandi predicatori a convertire le anime; e riduciamo la nostra preghiera per l’estensione del Regno a un qualche cosa di futile, come la petizione ad un ufficio da cui non speriamo quasi nulla.

Così, sotto un cielo strano, in una penombra di fede e di sentimentalismo, in una equidistanza tra Dio e il mondo, trascorre la nostra povera vita religiosa mescolata di preghiere, di contraddizioni e di compromessi.

Il pensare che le cose del mondo, come quelle degli astri, siano in mano a Dio – quindi in buone mani – , oltre ad essere la pura verità, è cosa che dovrebbe fare immenso piacere a chi ci tiene che le cose vadano bene.

Dovrebbe essere fonte di fede serena, di speranza gioiosa e soprattutto di pace profonda. Che cosa posso temere, se il tutto è guidato e sorretto da Dio? Perché agitarmi tanto, come se tutti questi problemi dipendessero da me o dai miei colleghi, gli uomini; e non cercare, invece, di capire se ci sono altre vie più interessanti e più efficaci da battere?

Eppure è così difficile credere radicalmente all’azione di Dio nelle cose del mondo! Ed è, penso, la tentazione più frequente e prolungata, a cui siamo sottoposti su questa povera terra.

Tutta la Bibbia è là a testimoniare questo dramma; e, in fondo, la storia del popolo eletto non è altro che la storia d’un pugno di uomini a cui Dio chiede continuamente e in ogni occasione: “Credi in me? Io sono il Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe. Io sono il Dio che con mano forte ti ho tratto dalla schiavitù d’Egitto, t’ho guidato in una terra riarsa, t’ho nutrito di manna del cielo e t’ho dato da bere l’acqua scaturita dalla roccia. Per te ho colpito i primogeniti d’Egitto, per te ho atterrato re potenti. E che hai fatto per ricompensarmi di questi prodigi, di questa assistenza continua? Ti sei costruito idoli di legno e d’argento e hai abbandonato me, tuo Dio.”

“Invece di adorare Colui che ti ha creato e salvato le mille volte dai tuoi nemici, su colli prominenti e in boschi sacri, hai bruciato incensi a dei stranieri; dei che nulla possono, nulla sanno; dei che hanno le mani e non toccano, hanno piedi e non camminano, e nessun suono esce dalla loro bocca.” (Sal 113, 5)

Questa è la storia di sempre, storia d’Israele e storia nostra. Anche noi crediamo in Dio; ma poi ci fidiamo dei potenti, crediamo alle loro raccomandazioni e finiamo di pensare che le cose di questo mondo sono salde nelle loro mani e che a loro dobbiamo chiederle.

Anche noi crediamo in Dio e lo preghiamo; ma poi ci convinciamo che sono i grandi predicatori a convertire le anime; e riduciamo la nostra preghiera per l’estensione del Regno a un qualcosa di futile, come la petizione ad un ufficio da cui non speriamo quasi nulla.

Così, sotto un cielo strano, in una penombra irreale di fede e di sentimentalismo, in una equidistanza tra Dio e il mondo, trascorre la nostra povera vita religiosa mescolata di preghiere, di contraddizioni e di compromessi.

Dio solo è, Dio solo sa, Dio solo può. Questa è la verità; e la mia fede me la fa scoprire di giorno in giorno più profondamente.

Dio solo è reggitore del cosmo, Dio solo sa quando morrò, Dio solo può convertire la Cina.

Perchè assumersi responsabilità che non abbiamo, perchè stupirci se l’Islam non ha ancora scoperto il Cristo e se il Buddismo regna senza inquietudini e crisi in milioni di fratelli? Verrà l’ora; ma questa non dipende da me.

C’è o non c’è una geografia di Dio, una storia sacra per tutti i popoli, un procedere nel tempo verso una maturità?

Abramo non conobbe il Cristo, se non nella speranza della promessa; ma non per questo andò perduto o fu dimenticato dal Padre. Non era giunto il tempo dell’Incarnazione; e se Gesu quando venne, e non prima, ha seguito certamente le indicazioni della Saggezza Eterna. Ci sono i piani di Dio, e questi contano; ci sono i piani umani, e questi non contano, o almeno contanoin rapporto al loro sincronizzarsi con i primi.

Ma è Dio che precede, non l’uomo. Maria stessa poteva morire nell’attesa senza vedere il Cristo, se Dio non decideva esser giunta l’ora dell’Incarnazione. Gli uomini di Galilea avrebbero continuato a pescare nel lago e a frequentare la sinagoga di Cafarnao, se non fosse venuto Lui a dire: “Venite”.

Ecco la verità che dobbiamo imparare nella fede: l’attesa di Dio; e questo non è un piccolo sforzo come atteggiamento dell’anima. Questo “attendere”; questo “non preparare piani”; questo “scrutare il cielo”; questo “far silenzio” è la cosa più interessante che compete a noi.

Poi verrà anche “l’ora della chiamata”; l’ora in cui si deve parlare, in cui la mano sarà stanca di battezzare; l’ora della messe, insomma. Ma ciechi, ciechi noi se in tale ora penseremo di essere gli attori di tali meraviglie; la meraviglia, semmai, è che Dio si serva di noi così miserabili e così poveri.

Non volevo giungere a questo punto, perchè già sento nell’aria la tristezza di una domanda. E il solo fatto di porre una domanda è un errore  o una mancanza di fede.

“Pregare o agire? Attendere o partire? Scendere in piazza o entrare in Chiesa?”

Ed eccoci da capo; là dove l’uomo trasforma tutto in problematica senza mai saziarsi, tanta è la brama di curiosità più che la buona volontà di realizzare la parola di Dio.

Ma oggi non entro più in polemica; non voglio più discutere, non credo più al potere di convincere un uomo con la forza delle parole.

Mi taccio sotto queste stelle d’Africa e preferisco adorare il mio Dio e Signore.

Ma, cedendo all’insistenza vostra o giovani che mi avete scritto fin quaggiù, dico solo una parola che mi pare esatta e, in più, sofferta. Ricordatevi che al mondo tutto è problema, meno una cosa: la carità, l’amore. L’amore solo non è un problema per chi lo vive.

Ebbene vi dico: vivete l’amore, cercate la carità. Essa vi darà la risposta volta per volta a ciò che dovete fare.

La carità, che è Dio in noi, vi suggerirà la strada da percorrere; vi dirà: “ora inginocchiati” oppure “ora parti”.

È la carità che dà valore alle cose, che giustifica “l’inutilità di restare ore e ore in ginocchio a pregare mentre tanti uomini hanno bisogno della mia azione, e la inutilità della mia povera azione dinanzi alla considerazione che la morte distruggerà tutte le civiltà”.

È la carità che gerarchizza le intenzioni degli uomini e che uniforma ciò che è diviso.

La carità è la sintesi della contemplazione e dell’azione, è il punto di sutura tra il cielo e la terra, tra l’uomo e Dio.

Ripeto ancora, dopo aver conosciuto l’azione più sfrenata e la gioia della vita contemplativa nel quadro più sfolgorante del deserto, le parole di S. Agostino: “Ama e fa’ ciò che vuoi”. Non preoccuparti, fratello, di che cosa fare; preoccupati di amare. Non interrogare il Cielo con ripetuti e inutili: “Qual è la mia strada?”; studiati invece di amare.

Amando, scoprirai la tua strada; amando ascolterai la Voce; amando, troverai la pace.

È l’amore la perfezione della legge e la regola di ogni vita, la soluzione di ogni problema, lo stimolo di ogni santità.

“Ama e fa’ ciò che vuoi”.

No; non è più possibile fare ciò che voglio quando amo.

Quando amo devo fare la volontà dell’amato.

Quando amo sono prigioniero dell’amore; e l’amore è tremendo nelle sue esigenze, specie quando questo amore ha per oggetto Dio e un Dio Crocifisso. Non posso più fare la volontà mia; debbo fare la volontà di Gesù, che è volontà del Padre.

E quando avrò imparato a fare questa volontà, avrò realizzato pienamente la mia vocazione sulla terra e raggiunto il grado della mia perfezione.

La volontà di Dio: ecco ciò che regge il mondo, ciò che muove gli astri, ciò che converte i popoli, ciò che chiama alla vita e dona la morte.

La volontà di Dio ha suscitato Abramo, padre della fede, ha chiamato Mosè, ispirato Davide, preparato Maria, sorretto Giuseppe, incarnato il Cristo e chiesto il suo sacrificio, fondato la Chiesa. E sarà ancora la volontà di Dio a continuare l’opera di redenzione fino alla fine dei tempi.

Essa chiamerà i popoli ad entrare ad uno ad uno nel corpo visibile della Chiesa nel momento giusto della loro maturità dopo appartenuto a motivo della loro retta intenzione e volontà “buona” alla sua Anima invisibile.

Che tu sia sulla sabbia in ginocchio ad espiare, ad adorare o che tu sia sulla cattedra ad insegnare, che conta se non lo fai nella volontà di Dio?

E se la volontà di Dio ti spinge a cercare i poveri o a donare i tuoi averi o a partire per terre lontane, che conta tutto il resto?

O se ti chiama a fondare una famiglia, a prendere un impegno nella città terrena, perché dubitare?

“In la sua volontade è nostra pace” dice Dante; ed è forse l’espresione più riassuntiva di tutta la nostra dolce dipendenza da Dio.

 

 

 Purificazione del cuore

 

Che noi siamo fatti per amare è evidente. Il difficile però è stabilire che cosa amare e come amare.

Penso che non sia sbagliato e contrario al nostro fine “amare la creatura”. Ed è certamente secondo il nostro fine “amare Dio”. Quindi dovremmo amare la creatura e dovremmo amare il Creatore.

Ma perché nella tradizione cristiana questi due amori si sono posti in contraddizione, in antagonismo, quasi che amando l’una non sia più possibile amare l’Altro?

La causa risiede in noi, va ricercata in noi.

È il nostro cuore che non è più capace di amare, che è come uno strumento deteriorato e che funziona male.

Il cuore, questo benedetto cuore, quando ama la creatura, troppo facilmente perde l’equilibrio.

Si lancia su di essa, la vuole fare sua, esclusivamente sua; aderisce ad essa con tale passione, da perdere di vista l’insieme. In più, avvelena la creatura con rapporti sregolati; la rovina, la fa schiava, o, meglio, si fa schiavo di essa.

Caratteristico in tal senso, perché più violento, è l’amore esclusivo del sesso, con tutta la serie orribile di gelosie ed egoismi.

Non meno caratteristica è la cosiddetta “amicizia particolare”, nella quale il cuore umano si attacca all’amico perdendo la pace, la serenità, la visione equilibrata delle cose; nel peggiore dei casi, anche la purezza.

Che diremmo poi dell’amore del denaro? Della schiavitù in cui tiene l’uomo l’amore della ricchezza?

Perfino l’amore del lavoro diventa pericoloso, tanto più se ammantato di virtù! Quanti contadini non sono più capaci di riposarsi la domenica, dominati dalla passione che, come frenesia, li sospinge nei campi!

E quanti industriali trasformano la loro vita in un inferno, ingoiati dalla macchina degli impegni.

E più si sale peggio è: l’amore allo studio può creare mostri di egoismo; e la passione della ricerca, collezionisti pazzi e ciechi come termiti nella loro galleria oscura.

In tale situazione è evidente che l’amore della creatura è in opposizione all’amore di Dio.

Questo – l’amore di Dio – è per sua natura universale, casto, equilibrato, santo.

Chi è sotto il suo dominio, vive in una pace profonda, ha la visione gerarchizzata delle cose, sa che cos’è la libertà.

Ma anche l’amore di Dio, passando nel cuore dell’uomo, deve essere lavorato, coltivato, potato, fecondato; e Dio stesso ne è l’abile e intransigente agricoltore.

Soprattutto tale amore deve essere purificato.

Che cosa significa purificare l’amore?

Significa purificarlo dalle pastoie della sensibilità, dal vischio del gusto; in altri termini, significa renderlo “gratuito”.

Rendere gratuito l’amore! Quale difficile impresa per creature come noi, ripiegate dal peccato su se stesse, chiuse il più delle volte nel loro onnipossente egoismo!

Sovente non ci rendiamo conto della profondità del male, che è abissale.

Non parlo solo dell’egoismo del ricco che accumula per sé; del violento che sacrifica tutto al proprio godimento; del dittatore che respira l’incenso dovuto solo a Dio.

Parlo dell’egoismo dei buoni, delle anime pie, di coloro che son riusciti, a forza di ginnastica spirituale e di rinunce, a poter dire dinanzi all’altare dell’Onnipotente la superba professione: “Signore, non sono come gli altri uomini” (Lc 18, 11).

Sì, abbiamo avuto il coraggio – in certi periodi della nostra vita – di crederci diversi dagli altri uomini. E qui sta la menzogna più radicale, dettata dall’egoismo più pericoloso: quello dello spirito. E su tale menzogna il nostro egoismo fa la sua costruzione babelica, riuscendo a servirsi della stessa pietà, della stessa preghiera per soddisfarsi.

È il momento dell’assalto all’altare, è il momento in cui lo stesso desiderio di santità è rovesciato: non è amore e imitazione di Cristo Crocifisso, è desiderio di gloria; non è carità, è egoismo.

Non dubito nel dire che un’alta percentuale dei desideri che spingono l’anima a cercare Dio è inquinata di egoismo. Si può giungere al punto di consacrarsi a Dio per egoismo, di farci religiosi per egoismo, di costruire ospedali per egoismo, di fa penitenza per egoismo.

Non c’è limite a tale menzogna. E la via, una volta infilata, è così sdrucciolevole e pericolosa, da obbligare Dio, per salvarci, a trattarci male; direi apparentemente, a diventare crudele con noi.

Ma non c’è altra via per aprirci gli occhi.

È la via del dolore. All’anima che dà l’assalto al Cielo per egoismo, Dio sbarra il cammino col freddo, con l’aridità, con la notte. Le consolazioni si trasformano in amarezze, le gioie in assenzio, le spine crescono per ogni dove. le nubi sembrano fatte per arrestare la preghiera.

Ma sovente non basta. Rovesci, malattie, disillusioni, vecchiaia si abbattono come uccelli di rapina sulla povera carcassa che aveva avuto il coraggio di affermare a se stessa: “Signore, non sono come gli altri uomini”.

Rimane ben poco per sostenere la tesi di essere diverso dagli altri, quando ci si accorge che si grida, che si piange, che si ha paura, che si è deboli, si è vili proprio come gli altri uomini.

Ecco la voce dell’uomo nel Salmo 87:

 

Signore mio Dio

tutto il giorno io ti chiamo

e la notte gemo davanti a Te.

La mia anima è abbeverata di mali,

la mia vita è un bordo dell’inferno.

Io sono già come colui che discende nella tomba,

come l’uomo stremato di forze.

Tu mi hai gettato nella fossa profonda,

nelle tenebre, nell’abisso.

Su di me

s’è appesantito il tuo furore;

sulla cresta dell’onda Tu mi schiacci.

È la purificazione dell’amore, è il fuoco che brucia le scorie per metterci a nudo.

E Dio stesso, che è l’Amore, non può far nulla. Anzi, perché è l’Amore appesantisce la mano.

Se l’anima non si libera attraverso la croce, non potrà esser liberata.

È la tremenda operazione chirurgica che il Padre stesso compie sulle carni del figlio pue di salvarlo. Ed è dogma di fede che senza croce “non fit remissio”.

È un mistero ma è così. Il dolore purifica l’amore; lo rende vero, autentico, puro; e, in più, elimina ciò che non è amore.

Distacca l’amore dal gusto che come maschera lo falsa; lo rende gratuito.

Quando il diluvio del dolore è passato sull’anima, ciò che resta di vivo può considerarsi autentico. È certo che non resta molto. Sovente è ridotto ad un arbusto esile, esile; ma su di esso la colomba dello spirito può posarsi per portare i suoi donio; è ridotto a un “sì” mormorato tra le lacrime e le angosce, ma ad esso fa eco il “sì” onnipotente di Gesù agonizzante; è ridotto a un bimbo che ha cessato di fare polemiche con Dio e con gli uomini, ma al quale soccorre l’abbraccio del Padre.

In questo stato, l’uomo è capace di amore gratuito; anzi non può più sopportarne d’altro timbro: prova nausea dinanzi al sentimentalismo, ha ribrezzo delle cose amate per calcolo. È entrato finalmente nella logica di Dio, spesso illogica all’uomo di questa terra.

Ecco la logica della più famosa parabola sulla gratuità dell’amore.

Sentiamola:

Il Regno dei Cieli infatti è simile a un padre di famiglia il quale uscì di primo mattino per assoldare lavoratori per la sua vigna.

Accordatosi coi lavoratori per un denaro al giorno, li mandò nella sua vigna.

E uscito verso la terza ora, vide altri che stavano in ozio sulla piazza  e disse loro: “Andate anche voi nella mia vigna ed io vi darò ciò che è giusto. E quelli vi andarono.

Uscito ancora verso la sesta e la nona ora, fece altrettanto. Uscito poi verso l’undicesima ora, ne trovò altri che se ne stavano là; e dice loro: “Perché ve ne state qui tutta la giornata in ozio?”.

Gli dicono: “Perché nessuno ci ha assoldati”.

Dice loro: “Andate anche voi alla vigna”.

Fattasi sera, il padrone della vigna dice al fattore: “Chiama i lavoratori e paga loro il salario a cominciare dagli ultimi fino ai primi.

Vennero quelli dell’undicesima ora e presero un danaro ciascuno.

Quando vennero i primi, credettero di prendere di più; ma anch’essi ricevettero un danaro ciascuno. Mentre lo prendevano, mormoravano contro il padre di famiglia, dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto; e tu li hai trattati come noi che abbiamo portato il peso della giornata e il caldo”.

Ma egli, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, non ti fo torto. Non hai pattuito con me per un denaro?  Prendi quel che ti spetta e vattene. Voglio dare a quest’ultimo come a te.

“O non mi è permesso di fare quel che voglio della mia roba?Non posso fare delle mie cose quello che voglio?

“Oppure il tuo occhio è maligno perché io sono buono?” (Mt 20, 1ss).

Capire questa parabola, per noi che abbiamo “l’occhio maligno”, non è facile. Fortunato colui che la capisce qualche giorno prima di morire. Significa che il suo occhio vede ora giusto e quindi può entrare nel regno della gratuità, che è il regno del vero amore.

 

 

 

 In cammino verso la “preghiera”

 

Son venuto nel deserto per pregare, per imparare a pregare.

È stato il grande dono che mi ha fatto il Sahara, dono che vorrei trasmettere a tutti coloro che amo, dono incommensurabile, dono che riassume ogni altro dono, il “sine qua non” della vita, il tesoro sepolto nel campo, la perla preziosa scoperta sul mercato.

La preghiera è il sunto del nostro rapporto con Dio.

Potremmo dire che noi siamo ciò che preghiamo.

Il grado della nostra fede è il grado della nostra preghiera; la forza della nostra speranza è la forza della nostra preghiera; il calore della nostra carità è il calore della nostra preghiera. Né più né meno.

La nostra preghiera ha avuto un principio perché noi abbiamo avuto un principio; ma non avrà fine, e ci accompagnerà nell’eterno, e sarà il respiro della nostra contemplazione estatica di Dio, e il canto della nostra felicità eterna, quando saremo “saziati al torrente delle delizie di Dio”(Sal 35).

La storia della nostra vita terreno-celeste sarà la storia della nostra preghiera. È, quindi, e innanzi tutto una storia personale.

Come non c’è fiore uguale ad altro fiore, una stella uguale ad un’altra stella, così non c’è uomo uguale ad un altro uomo. Ed essendo la preghiera il rapporto di questo uomo con Dio, tale rapporto è diverso per ciascun uomo. Non c’è quindi una preghiera uguale ad un’altra preghiera.

È una parola che varia sempre, fosse anche ripetuta all’infinito con le stesse sillabe e con lo stesso tono di voce.

Ciò che varia è lo spirito del Signore che l’anima; e questo non si ripete mai, è sempre nuovo.

S. Bernardetta Soubirous, che non sapeva dire se non “Ave Maria”; o il mistico che non può più ripetere se non un monosillabo “Dio”, hanno la preghiera più varia e personale che immaginar si possa; perché, sotto il velo di quell’unica parola, passa solo e tutto lo spirito di Gesù che è lo spirito del Padre.

Per capire bene la preghiera, è necessario capire che si parla con Dio.

Ci sono quindi due poli: l’uno piccolo piccolo, debole debole: la mia anima; uno immenso e onnipotente: Dio!

Ma qui sta la prima grandezza e la prima sorpresa: che Lui, così grande, abbia voluto parlare con me, così piccolo; Lui, Creatore, con me creatura.

Non sono stato io che ho voluto la preghiera; è Lui che l’ha voluta. Non sono stato io che l’ho cercato; è stato Lui che mi ha cercato per primo. Vano sarebbe stato il mio cercare Lui se prima di tutti i tempi non fosse stato Lui a cercare me.

La speranza su cui poggia la mia preghiera sta nel fatto che è Lui che vuole la mia preghiera. E se vado all’appuntamento è perché Lui c’è già ad attendermi.

Se Lui fosse rimasto nel suo silenzio e nel suo isolamento, io non avrei potuto rompere il mio. Nessuno s’è mai messo lungamente a parlare con un muro, un albero, una stella. Se l’ha fatto, ha smesso ben presto, non ottenendo risposta.

Con Dio, è tutta la vita che parlo; e non ho che incominciato!

C’è un’altra cosa che va detta parlando della preghiera: non viene dalla terra, ma dal Cielo.

Il grido che mi gonfia il petto e che mi fa esclamare: “Dio, ti amo”; lo sforzo che fa ripetere a Faraggì, il musulmano cieco, quando cammina sulla pista vicino a me: “Com’è grande Iddio!”; il pianto di Davide: “Miserere”; l’esaltazione di Maria: “Magnificat”; la lacrima che spunta sulle ciglia di chi si confessa: “Gesù perdonami”; l’improvviso arrestarsi estatico dello scienziato dinanzi alle meraviglie dell’universo, sono opere dello Spirito Santo.

È lo Spirito del Signore che riempie il mondo e che ci fa gridare: “Padre!”; che immette in noi la corrente della preghiera.

A noi il compito di prestare leste le labbra e riconoscente il cuore al passaggio della corrente divina; e di ripetere, ripetere ciò che lo Spirito di Gesù ci ha suggerito e ci dà forza di dire.

È certo che possiamo resisterGli – come per l’amore -; possiamo dire di no, possiamo disperdere nel pozzo nero della nostra anima la corrente che passa, possiamo chiudere le labbra, possiamo tacere. Ed è ciò che facciamo il più delle volte; perché, se fossimo solleciti al richiamo, saremmo in continua preghiera.

Per essere precisi, dobbiamo aggiungere che c’è anche una preghiera diremo “nostra”, cioè nata sulla terra, nel cuore dell’uomo. Ma questa preghiera non è gran cosa: sovente è un po’ di pettegolezzo spirituale; un domandare cose che non servono al nostro vero bene e che ci farebbero del male se ci fossero concesse; un riempire la bocca di parole pie per paura della solitudine o del dolore, da cui Gesù ci aveva già tenuto in guardia. “Quando pregate… non fate come i pagani…”(Mt 6, 7).

Se vogliamo un paragone sul valore di questa preghiera (diremo “non isrpirata”) rispetto all’altra, la vera, quella dettata in noi dallo Spirito del Signore, diremmo che tra le due s’interpone la stessa distanza che passa tra ciò che di Dio ci han detto i filosofi e ciò che di Lui ci han detto la Bibbia e la Chiesa. I Filosofi, dopo prestigiose elucubrazioni e infinite dissenzioni, son riusciti a mala pena a mettersi d’accordo sull’esistenza di Dio. La Chiesa ha di Dio una conoscenza personale vivente, calda, appassionata, anche se oscura e racchiusa nel buio della fede.

In ogni caso, di questa preghiera non c’è gusto d’interessarsi: ben la conosciamo.

Quante volte ci siamo ritrovati con la bocca piena di essa, lontani dallo Spirito di Dio! Quante volte ci siamo rifugiati in essa proprio per sfuggire allo Spirito di Dio, alla Sua Volontà!

Siamo andati in coro a recitare il breviario, mentre il nostro dovere era d’andare in parlatorio a ricevere qualche povero noioso e puzzolente; abbiamo detto il rosario mentre andavamo ad un appuntamento pericoloso per la nostra anima; abbiamo acceso una candela per diventare ricchi; abbiamo piegato la nostra testa in adorazione mentre il nostro cuore era pieno d’amore impuro.

Questa preghiera non viene dal Cielo, ma dalla terra; e sulla terra rimane, ricca solo della sua inutilità e del suo inganno.

Di essa il Profeta dirà: “Metterò le nubi per fermarla”(Lam 3, 43). Ma credo che non ci sia nemmeno bisogno delle nubi, perché essa non si alza di un palmo, al di sopra della nostra cieca cocciutaggine.

Sì; cieca cocciutaggine che può durare anni, decenni; che crea in noi un’ambiguità farisaica, che ci vede all’altare di giorno e con l’amante di notte, ricchi di danaro e col rosario in mano, ripiegati sul nostro egoismo e con la mente piena di belle idee per riformare la Chiesa.

Non ci son lacrime a sufficienza per piangere questi nostri misfatti, questa nostra falsa testimonianza a Gesù Verità e Amore, questo velare la potenza folgorante del Vangelo sotto la cortina fumosa d’una religiosità che non cerca e non compie la volontà di Dio.

Perché qui sta il punto: la vera preghiera comincia quando si cerca la volontà di Dio.

In fondo, le cose sono semplici, estremamente semplici: basta ascoltare ciò che ci ha detto Gesù, basta prendere il Vangelo e mettere in pratica ciò che Egli ci ha detto.

Insomma, si tratta di volontà, non di parole.

L’ispirazione divina cerca in noi la buona volontà. Lo spirito di Gesù si posa là dove la volontà lo desidera, perché è l’Amore; e per fare l’amore bisogna essere in due.

Quando io mi chino al suo Amore, Egli non tarda a venire; anzi, è già venuto, perché mi ama ben di più di quanto io, povera creatura, possa amare Lui.

E l’amore si dimostra a fatti, come per il figliuol prodigo:

l’alzarsi è un fatto, l’abbandonare i porci è un fatto.

Bisogna che l’anima dica seriamente: “Ora torno al Padre”(Lc 15, 18).

 

 

 I tempi della preghiera

 

La preghiera è innanzitutto parola, recitazione, canto.

China, o Signore, il tuo orecchio

e ascoltami,

perché misero e povero io sono.

Guidami, o Signore, per la tua via;

ch’io cammini nella Tua verità.

Si rallegri il mio cuore

a temere il tuo nome. (Sal 85)

Sovente racchiude un grido, un pianto, un lamento d’angoscia:

O Signore, Dio della mia salvezza, di giorno e di notte io grido dinanzi a Te. Giunga al Tuo cospetto la mia preghiera, perché satura di mali è l’anima mia e la mia vita è vicino all’averno.

Son contato tra quei che scendono nella fossa.

Son diventato come un uomo senza soccorso.

Tra i morti sono, benché libero e vivo ancora.

Come gli uccisi che dormono nei sepolcri dei quali più non ti ricordi e alla tua mano sono stati strappati. (Sal 87)

Qualche volta un’esplosione di felicità:

Io t’amo, mio Dio, mia forza.

Il Signore è il nio sostegno.

Il mio Dio è l’aiuto in cui spero. (Sal 17)

Un’ammirazione estatica delle sue opere:

I cieli narrano la gloria di Dio,

e le opere delle sue mani

annunzia il firmamento. (Sal 18)

La lode appassionata della Sua Provvidenza:

Il Signore è il mio pastore, nulla mi manca.

In erbosi pascoli mi fa posare.

Presso refrigeranti acque mi nutre,

ristora l’anima mia.

Mi guida per retti sentieri a motivo del suo nome.

Quand’anche camminassi nell’ombra della morte,

non temerei sciagure, poiché Tu sei con me. (Sal 22)

Questa maniera di parlare con Dio è di tutte le epoche, e di tutti i luoghi. Dall’inizio della vita spirituale al termine, l’uomo si servirà di questo mezzo – la parola – per esprimere i suoi sentimenti col suo Creatore.

Ma anche qui è come nell’amore: le parole abbondano al principio, poi si fanno più rare e più profonde, finché si riducono a qualche monosillabo che racchiude però tutto.

Normalmente un’anima parla molto al tempo della sua conversione, nel periodo del suo noviziato, nei primi anni della sua scoperta di Dio. È il periodo più facile per l’anima, anche perché tutto concorre a rivestire la preghiera: novità, sentimento, fantasia, arte, passione.

E Dio, in più, mette la sua parte di consolazione. E tutto fluisce come ai primi tempi di un matrimonio felice.

Pronto è il mio cuore, o Dio,

pronto è il mio cuore.

Canterò e inneggerò a Te.

Sorgi, mia gloria, sorgi

arpa e cetra.

Voglio destare l’aurora.

Ti celebrerò fra i popoli,

o Signore.

E inneggerò a Te fra le nazioni;

perché grande, oltre i cieli

è la tua benignità

e sino alle nubi

la tua fedeltà. (Sal 107)

*  *  *

Un altro tempo della preghiera è la “meditazione”. Qualche volta segue dappresso la parola. Specie quando l’anima è matura, s’intercala con essa, si fonde con essa. Qualche volta vien dopo, accompagnata da una serie di verità e di luce.

È il tempo del libro, il tempo in cui si cerca di sapere ciò che altri han detto di Dio; è il tempo fervido della riflessione, dello studio teologico; tempo di discussioni filosofiche, tempo di incontri d’anime, tempo bello, molto bello.

Se il mondo sapesse la gioia che prova un cristiano in questo periodo, la pace che regna nel suo cuore e l’equilibrio che domina le sue facoltà, ne rimarrebbe stupito, incantato.

Io l’ho conosciuto tale periodo; e ho avuto la fortuna di viverlo con centinaia, con migliaia di altri giovani. Dio, la Chiesa, le anime erano le nostre sole pasioni. Ci sembrava ad ogni alba di dover forgiare un mondo nuovo, ci si lanciava contro l’errore come Davide contro Golia, ci si incontrava numerosi per pregare e parlare di Dio.

Che importavano le notti insonni, i lunghi viaggi in terza classe, le galoppate in bicicletta nelle campagne per destare il movimento, i sacrifici economici e le ferie sacrificate per fare una volta all’anno gli Esercizi Spirituali? Questi restano tra i più cari ricordi della mia vita, ricordi a cui torno con gioia e pace serena.

*  *  *

Ma torniamo alla meditazione. Ci sono mille maniere di fare meditazione, ed è bene che ciascuno faccia la sua esperienza. Si accorgerà, camminando, ciò che gli è più adatto. Vorrei soltanto dire qui due cose che ho imparato dal mio grande maestro S. Giovanni della Croce: l’una sul metodo della meditazione e l’altra sul libro da scegliere.

Sul metodo – S. Giovanni lo divideva in tre parti – e fin qui niente di nuovo.

1. Rappresentazione immaginativa del mistero sul quale si vuol meditare.

2. Considerazione intellettuale dei misteri rappresentati (anche qui nulla di nuovo).

3. (ed è importante) Ri poso amoroso e attento a Dio per raccogliere il frutto là dove s’apre all’illuminazione divina la porta della intelligenza.

Questo sforzo amoroso, profondamente umano, deve sfociare in una serenità, in un riposo affettuoso dinanzi a Dio. Cioè, dev’essere una meditazione orientata nettamente verso la semplificazione e il silenzio interiore.

Sul libro da scegliere – Innanzitutto scegliete la Bibbia. Se potete, leggete pure tutti i libri di meditazione che volete, ma ciò non è indispensabile; indispensabile invece è leggere e meditare la Sacra Scrittura. Basta con un cattolicesimo senza Bibbia! Basta con una predicazione senza midollo, perché non ancorata alla Scrittura. Basta con una formazione religiosa non scaturita dal Vangelo.

La Bibbia è la lettera che Dio stesso scrisse agli uomini nei millenni della loro storia. È il sospiro verso il Cristo (Vecchio Testamento) e il racconto della sua venuta tra noi (Nuovo Testamento).

Quando bruciò il tempio di Gerusalemme, gli Ebrei, che ben se ne intendevano di tesori, abbandonarono alle fiamme tutto, ma salvarono la Bibbia. S. Paolo conosceva la Bibbia a memoria; e S. Agostino disse: “Ignoranza della Scrittura è ignoranza di Cristo”.

Il Verbo fatto parola è la Bibbia, il Verbo fatto carne è l’Eucaristia. Non dubito di metterli entrambi sull’altare e di inginocchiarmi dinanzi.

C’è un risveglio biblico, grazie a Dio; ma siamo ancora molto indietro.

*  *  *

Dicevo dianzi che la preghiera è come per l’amore: le parole abbondano al principio, le discussioni sono dei primi tempi. Poi si fa silenzio e ci si intende a monosillabi. Nelle difficoltà è sufficiente un gesto, uno sguardo, un nulla: basta amarsi.

Viene quindi il tempo in cui la parola è di troppo e la meditazione è pesante, quasi impossibile.

È il tempo della preghiera di semplicità, tempo in cui l’anima si intrattiene con Dio con uno sguardo semplice, amoroso, anche se sovente accompagnato da aridità e sofferenza.

In questo periodo fiorisce la cosiddetta preghiera litanica: cioè ripetizione all’infinito di identiche espressioni povere di parole ma ricche, straricche di contenuto.

Ave Maria… Ave Maria… Gesù ti amo… Signore abbi pietà di me…

Ed è strano come in questa preghiera litanica, monotona, semplice, l’anima si trovi a suo agio, quasi si cullasse nelle braccia del suo Dio.

È il tempo del Rosario vissuto e amato come una delle più alte e ispirate preghiere.

Sovente, nella mia vita di europeo, ho avuto modo di assistere o prendere parte a discussioni animate sul pro e contro del Rosario. Ma, alla fine, non ero mai pienamente soddisfatto. Non ero in condizione adatta per comprendere a fondo questa maniera di pregare.

“È una preghiera meditata”, diceva qualcuno. Bene! Allora han ragione i giovani di lamentarsi delle distrazioni che dà alla meditazione del mistero questa ripetizione inutile di dieci Ave Maria. Annunziate il mistero e lasciatemi pensare.

“No; è una preghiera di lode”, dicevano altri; e bisogna pensare a ciò che si dice, parola per parola.

Ma è impossibile! Chi è capace di dire 50 Ave Maria, distratto da cinque rappresentazioni di misteri, senza perdere il filo?

Io debbo confessare che nella mia vita, pur facendo uno sforzo qualche volta, non sono mai riuscito a dire un solo Rosario senza distrarmi. E allora?

E allora fu nel deserto che compresi che coloro che discutono – come io discutevo in tal maniera – sul Rosario, non hanno ancora capito l’anima di questa preghiera.

Il Rosario appartiene a quel tipo di preghiera che precede di poco o che accompagna la preghiera contemplativa dello Spirito. Meditate o non meditate, distraetevi o meno, se amate il Rosario a fondo, e non potete trascorrere la giornata senza recitarlo, significa che siete uomini di preghiera.

Il Rosario è come l’eco di unónda che percuote la riva, la riva di Dio: “Ave Maria… Ave Maria… Ave Maria…”.

È come la mano della Madre sulla votra culla di bambino; è come il segno di un abbandono di ogni difficile ragionamento umano sulla preghiera per l’accettazione definitiva della nostra piccolezza e della nostra povertà.

Il Rosario è un punto di arrivo, non un punto di partenza. Per Bernardetta il punto di arrivo giunse molto presto, perché predestinata a vedere su questa terra la Madonna; ma normalmente è una preghiera della maturità spirituale. Se un giovane non ama dire il Rosario, se dice di annoiarsi, non insistere. Per lui è meglio la lettura di un testo scritturale o una preghiera più intellettuale. Ma se incontrate un bimbo in una campagna deserta, o un vecchio sereno, o una donna semplice che vi dice di amare il Rosario, senza capirne il perché, rallegratevi e gioite, perché in quei cuori c’è lo Spirito Santo che prega. Il Rosario è una preghiera incomprensibile per l’uomo del “buon senso”, come è cosa incomprensibile ripetere a un Dio, che non si vede, mille volte al giorno: “Ti amo”; ma è una preghiera comprensibilissima per i puri di cuore, per chi è stabilito “nel Regno”; per chi vive le Beatitudini.

Gli orientali, anime altamente contemplative, hanno sviluppato una preghiera litanica simile al nostro Rosario e lo chiamano la “preghiera di Gesù”.

Si tratta di ripetere, ripetere lentamente e con l’anima disposta alla pace il famoso “Kirie eleison”.

Signore, abbi pietà di me:

sono un uomo peccatore;

Cristo, abbi pietà di me:

sono un uomo peccatore.

E giungono in questa preghiera litanica ad una ginnastica spirituale che piace alla loro mentalità, cadenzandola con il respiro e addirittura col battito del cuore.

Grande impresione mi ha fatto a questo proposito la lettura di un volumetto pubblicato in Francia: Le pèlerin russe, accompagnato più tardi da un altro di un monaco ortodosso della Abbazia di Chevetogne: La preghiera di Gesù.

*  *  *

Mentre la preghiera si fa scarsa di parole e ricca di contenuto, la meditazione si fa pesante e vuota di gusto.

Ciò che prima era motivo di piacere intellettuale ora è causa di aridità e sofferenza.

Si ha l’impressione che la vita interiore abbia subito un arresto; qualche volta si pensa che, invece di procedere, si torni indietro. Il cielo ha perduto i suoi colori vivi, il grigio domina l’atmosfera dell’anima. S’incomincia a capire ciò che significa “andar avanti nella fede nuda”. Fortunoto colui che in tal momento della sua evoluzione spirituale ha una buona guida e più ancora ha l’umiltà di farsi condurre.

Non è facile; perché la presunzione di saper fare da soli è cosa ben solida nella nostra anima, e solo i buoni e ripetuti capitomboli la intaccano a misura.

Da che cosa dipende questa aridità nel meditare, questa repulsione a fissare il nostro pensiero sulle cose spirituali prese l’una dopo l’altra?

Evidentemente può dipendere da qualche nostra colpa, può dipendere da qualche attacco disordinato del nostro cuore, dalla mancanza di vigilanza, dalle spine in cui abbiamo lasciato soffocare il buon grano.

Non sempre la difficoltà a meditare è il segno di un avanzare dell’anima verso Dio, di un passaggio ad una preghiera più elevata.

Ma può – grazie a Dio – esserne il segno. Come distinguere?

Sempre il grande S. Giovanni della Croce ci dice come.

Ci sono tre segni che indicano il passaggio dalla preghiera discorsiva alla preghiera contemplativa.

1. – L’attività dell’immaginazione si fa senza gusto; anzi, diviene impossibile.

2. – L’immaginazione o i sensi non hanno più nessuna inclinazione per le cose particolari. Nessuna consolazione nelle cose create, n’r gusto, né sapore per qualsiasi cosa.

3. – L’anima prende piacere a restare sola con attenzione amorosa verso Dio, in pace interiore, quiete e riposo, senza atti né esercizi di facoltà.

Ecco, questa terza condizione è buona. E se c’è nell’anima, giustifica le altre due. Se cioè ho difficoltà a meditare le cose di Dio, se non riesco più a fissarmi su questo o su quel mistero della vita di Gesù, su questa o su quella verità, ma… ho sete di restare solo e in silenzio ai piedi di Dio, immobile, senza pensiero, ma in un atto d’amore, significa… significa una grande cosa; e ve ne voglio parlare pacatamente a parte, perché è uno dei più bei segreti della vita spirituale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 La preghiera contemplativa

 

Ed eccoci al punto giusto sulla preghiera, alla rivelazione più straordinaria che immaginar si possa, al segreto più profondo del cuore di Dio, alla vera dimensione del nostro “essere cristiani”.

Gesù, nella notte in cui fu tradito, disse: “Se mi amate osservate i miei comandamenti, ed Io pregherò il Padre ed Egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga sempre con voi, lo Spirito di verità che il mondo non può ricevere perché non lo vede né lo conosce; ma voi lo conoscete, perché dimorerà in voi” (Gv 14, 15ss).

Poi aggiunse: “Chi ha i miai comandamenti e li osserva mi ama, e chi mi ama sarà amato dal Padre mio ed io l’amerò e mi manifesterò a lui” (Gv 14, 21).

E per terminare: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola; il Padre mio lo amerà e verremo a lui, e faremo dimora presso di lui” (Gv 14, 23).

Ci sono tre offerte da parte di Dio all’uomo: il suo Spirito, la sua Presenza, la sua Manifestazione. E, per queste tre offerte, una sola condizione: “Se uno mi ama”.

L’anima dell’uomo che accetta di amare Dio diviene un “paradiso in terra”, con la presenza reale della Trinità in sé, con l’attività folgorante dello Spirito e con la volontà suprema da parte di Dio “di manifestarsi, cioè di farsi conoscere all’uomo”.

Queste tre realtà, meritate dal sangue di Cristo, e realizzate in noi dopo la Pentecoste, investono la nostra anima di una tale grandezza, da superare qualsiasi possibile sogno umano.

Naturalmente, e in primo luogo, investono la nostra preghiera come il naturale rapporto tra la creatura e il Creatore, e danno ad essa qualcosa d’infinito; meglio, di divino.

* * *

Parliamo innanzi tutto di questa “presenza”:

Verremo a lui e faremo dimora presso di lui.

È La Trinità che diventa Ospite dell’anima; è la Terra che diventa Cielo.

Perché cercare ancora Iddio al di là delle stelle, quando Lui è così vicino, anzi, dentro di noi?

Il Cielo, questo luogo “celato”, non è più una lontananza astronomica, fisica di Lui, nell’universo, ma è una vicinanza amante, intima e così a portata di mano, che ogni luogo diventa buono per parlare con Lui, per stare con Lui, per adorare Lui.

E lo Spirito Santo in noi?

Ecco l’artefice forte e preciso della nostra unione con Dio. È Lui che ci incorpora a Cristo Gesù, Lui che ci insegna che cosa dobbiamo dire al Padre, Lui che ci reca uno Spirito “nuovo”, dacché il nostro “vecchio”s’è mostrato incapace e cattivo, Lui che con “gemiti inenarrabili”prega l’Altissimo e dà valore eterno al nostro esile sforzo di bimbi per sollevarci all’altezza di Dio.

Che dire ancora a me stesso: “Chi m’insegnerà a pregare?”, quando ho un simile Maestro al centro del mio essere? Che dubitare della potenza della mia preghiera, quando – pur sì povera e balbuziente – è sostenuta nel suo volo dallo stesso Spirito creatore del cosmo?

No; non cercherò più me stesso nella preghiera, non mi ripiegherò sul mio povero io, dacché nella mia fede ho scoperto che lo Spirito di Dio s’è diffuso nel mio cuore.

Ma non basta. La promessa di Gesù parla di una presenza sua, di una attività del suo Spirito, e parla ancora di una “rivelazione”.

Io mi rivelerò a voi“.

Rivelarsi l’uno all’altro è il compito dell’amore, che non deve mai finire, nemmeno nell’amore umano, perché sempre deve restare qualche cosa ancora di “misterioso” da scoprire e da conoscere nella persona amata.

Immaginiamo con Dio dove “tutto” è da scoprire! Ma qui, a proposito di Dio, va detto qualcosa di ben preciso.

Dio è inconoscibile all’uomo. Tutto ciò che sappiamo di Lui, non è Lui: è un’immagine, un simbolo, un richiamo; ma non è Dio. Solo Dio conosce se stesso; e la sua conoscenza rimane per noi “mistero”.

Ma Dio ha deciso nel suo amore di farsi conoscere dall’uomo, di rivelarsi a lui; e ciò avviene in modo soprannaturale, con un linguaggio intraducibile sulla terra. Colui che è sotto l’azione di questa “rivelazione” non può dire nulla: la vive sperimentalmente, ma non la può ripetere.

Ciò è decisivo a sapersi per chi vuole imparare a pregare.

Troppo tempo io ho perduto, perché tardi ho conosciuto questa verità. Eppure era chiara nel Vangelo.

Io pensavo che nel pregare tutto dipendesse da me, dal mio sforzo, dalla bontà dei libri che avevo tra le mani, dalla bellezza delle parole che sapevo introdurre nel mio colloquio con Dio.

Più grave ancora: pensavo che la conoscenza di Dio che andavo facendo attraverso lo studio e il ragionamento fosse la vera e l’unica e non mi ero ancora accorto che era solo un’immagine, un involucro, un avviamento alla vera, autentica, soprannaturale, sostanzionsa, eterna rivelazione di Dio.

Dio è l’Inconoscibile, e solo Lui può rivelarsi a me attraverso vie tutte sue, parole mai ripetute, concetti al di là di ogni concetto.

Nella vera preghiera, quindi, mi è richiesta più passività che attività; più silenzio che parole, più adorazione che studio, più disponibilità che movimento, più fede che ragione.

Devo capire “a fondo”mche l’autentica preghiera è frutto di un dono del Cielo alla Terra, del Padre a suo Figlio, dello Sposo alla Sposa, di Colui che ha a collui che non ha, del Tutto al nulla.

E più questo Tutto s’avvicina al nulla, più l’inconoscenza si fa senza confini.

È classico il discorso che voi potete fare all’uomo che scende dalla montagna, dopo aver parlato lungamente con Dio.

“Parlaci di Lui”!

E lui ci ripeterà con Angela da Foligno, una delle grandi mistiche italiane:

“Davanti a Dio l’anima è avvolta nelle sue tenebre, e in esse, si fa di Lui una conoscenza più grande di quella ch’io mai avessi immaginato potersi fare; e con tale splendore, tale certezza e con sì profondo abisso, che non c’è cuore che possa poi in alcun modo comprendere né pensare una tal cosa.

“L’anima non può dire assolutamente nulla, perché non c’è parola con cui essa la dica e la esprima. Anzi; non v’è pensiero né intelligenza che possa estendersi a quella cosa, tanto essa sopravanza tutto; come Dio non può essere spiegato per cosa che sia.

“Quando tornai in me, conobbi certissimamente che coloro i quali più sentono Dio meno ne possono parlare. Proprio perché sentono alcunché di quel bene infinito e indicibile, meno ne possono parlare.

“Piaccia al Cielo che quando vai a predicare, tu comprenda. Poiché allora tu non sapresti dire nulla affatto di Dio. E allora qualunque uomo si tacerebbe. Ed io allora verrei vicino a te a dirti: – Fratello, parlami ora un poco di Dio. – E tu non sapresti dire nulla, né pensare nulla di Dio, tanto la bontà infinita ti sorpasserebbe.

“Eppure l’anima non perde conoscenza, né il corpo la perde in alcuno dei suoi sensi. Anzi, la conoscenza è intera in noi.

“Ma tu diresti al popolo con forza: – Andate con la benedizione di Dio, perché io non posso dire nulla!

“Ed io comprendo che tutte le cose che son dette sulle Scritture e da tutti gli uomini dal principio del mondo fino ad oggi, mi sembrano non poter quasi nulle esprimere della midolla, neppure ciò che è un grano di polvere in confronto all’universo” (Le livre de la bienheureuse Angéle de Foligno, Paris p. 173).

*  *  *

Così per Angela da Foligno; così per tutti. Se sente che la conoscenza di Dio aumenta in noi man mano aumenta per Lui il nostro amore; e di questa conoscenza non sappiamo dir nulla. Sappiamo che è una conoscenza sapida, misteriosa, personale, oscura di Lui; ma non sapremmo aggiungere sillaba.

Io mi rivelerò a voi“.

Questa “rivelazione” che Dio fa di se stesso all’uomo è l’anima, il frutto, il respiro della preghiera così detta “contemplativa”; ed è un’autentica anticipazione della vita eterna. La definizione l’ha data Gesù stesso: “Questa è la vita eterna: che conoscano Te, Padre, e Colui che hai mandato, il Cristo” (Gv 17, 3).

Signore, il mio cuore non s’è inorgoglito

né i miei occhi fatti alteri.

Non ho cercato un cammino di grandezza

o prodigi inopportuni.

No, ho tenuto la mia anima in pace e in silenzio

come un bambino contro sua madre.

La mia anima è in me come un bimbo slattato. (Salmo 130).

Questo è il salmo della preghiera contemplativa. L’uomo nel cammino verso la radice del suo essere, verso il suo fine, verso il suo Creatore, dopo aver superato i primi gradi della preghiera, dopo averla purificata nella sofferenza e nell’aridità dal gusto umano e dall’egocentrismo, si trova come sulla soglia dell’infinito; là, dove le sue forze a nulla possono, dove la meditazione stessa diventa impossibile e la parola, una volta così fluente, non sa se non ripetere qualche monosillabo di amore o di lamento.

Nessuna immagine riassuntiva di tutto ciò è così esatta come l’immagine del bimbo slattato sul grembo della madre. Ed è ancora Gesù che ci dice: “Se non vi farete piccoli, non entrerete nel Regno dei Cieli” (Mt 18, 3). Ma l’anima ormai si è fatta piccola e ha capito che deve tutto ricevere e che l’unico suo potere è quello di amare.

No; c’è anche l’altro potere: quello di conoscere. Ma… a che cosa gli serve in tali momenti?

Dice l’anonimo autore del libro sulla preghiera La nube dell’inconoscenza: “Ogni creatura intelligente, angelo o uomo, ha in se stesso due facoltà principali: l’una chiamata la facoltà  di conoscere, l’altra chiamata la facoltà di amare.

“Di entrambe Dio è il Creatore: ma se Egli resta sempre incomprensibile per la prima, è ivece attingibile alla seconda, secondo il grado differente per ciascuno.

“Talché soltanto l’anima che ama può, per virtù del suo amore, attingere Colui che pienamente basta a saziare tutte le anime e tutti gli Angeli della creazione”.

Questa è l’infinita meraviglia, questo il miracolo dell’amore: L’esercizio non ne sarà mai interrotto, perché Dio lo rinnovella senza posa.

E perché? Perché Egli può essere amato, non pensato: l’amore può coglierlo e tenerlo; il pensiero no…, mai!

Parrebbe strano, a prima vista; ma nulla dà il senso dell’universalità di Dio, della giustizia di Dio, più di questa verità. Se Dio fosse raggiungibile con l’intelligenza, quanto sarebbe ingiusto!

Avrebbe facilitato il compito ai saggi, ai grandi di questo mondo; e si sarebbe reso incomprensibile ai piccoli, ai poveri, agli ignoranti. Invece, no: ha trovato Lui stesso la regola per essere uguale con tutti: la rivelazione sua avviene nell’amore, proprio in quella facoltà in cui siamo tutti uguali.

Ama la regina come ama la contadina, ama l’uomo sapiente come ama l’ignorante. “Ti ringrazio, Padre, che hai nascoste queste cose ai sapienti e le hai rivelate ai piccoli” (Mt 11, 25).

“Rimanete nel mio amore”.

Ma che cosa divengono i concetti? Essi non sono soppressi; ciò sarebbe contrario alla natura stessa della nostra intelligenza. Dunque, essi sussistono sempre. Ma tutti i concetti distinti tacciono, dormono come gli apostoli sul monte.

Ecco ciò che si chiama contemplazione infusa o conoscenza mistica.

Essa si nutre di silenzio.

Essa non ricorre all’uso attuale dei concetti come mezzo proprio di conoscenza.

Essa diventa negativa in un senso nuovo e assoluto.

Dice la Hadewijk, la Beghina: “La verità una e nuda abolisce ogni ragione, mi tiene in questa vacuità, mi adatta alla semplice vita dell’Eterno. Qui cessa ogni discorso. Chi non ha mai compreso la Parola di Dio vorrebbe invano spiegare ciò ch’io ho trovato senza mezzo, senza velo, più su d’ogni ragione”.

S’io qualcosa desidero, lo ignoro, perché son prigioniero stabilmente dell’abissale ignoranza. Chi crede poter dire ciò che sta nel profondo, tradisce l’inesperienza sua.

Ma Dio, quale avventura non intendere più, non più vedere… Se altra volta avevamo “qualche cosa”, l’amore adesso ci ha ridotti al nulla. (Poémes spirituels, “Nova et Vetera”1938, n. 4, pp. 362, 367).

*  *  *

Sì; l’amore ci ha ridotti al nulla. Ci ha tolto ogni presunzione di sapere, di essere; ci ha ridotti alla vera infanzia spirituale.

Ho tenuto la mia anima

in pace e in silenzio

come un bambino

contro sua madre.

Ecco lo stato più alto della preghiera: essere bimbi nelle braccia di Dio: tacere, amare, godere.

E se, per questa benedetta voglia di dir qualcosa, di far qualcosa, proprio ti è necessario aprir la bocca, allora fa’ così: scegli una parola, una piccola frase che esprima bene il tuo amore per Lui; e poi ripetila, ripetila con pace, senza cercare di formulare pensieri, senza muoverti, ridotto ad un piccolo punto amante dinanzi a Dio Amore.

E, trasformata questa parola o questa frase in un dardo d’acciaio, simbolo del tuo amore, batti, batti contro la spessa nube dell’inconoscenza di Dio.

Non distrarti, qualunque cosa avvenga. Caccia via anche i buoni pensieri; non servono a nulla.

Il grado superiore della contemplazione, qual si può ottenere in questa vita, risiede tutto interoin questa oscurità e nube d’inconoscenza e con uno slancio di amore e uno sguardo cieco si portano sull’essere nudo di Dio, in Lui stesso e di Dio solo.

Un cieco slancio d’amore che si porta su Dio, considerato in Lui stesso, e che preme segretamente sulla nube dell’inconoscenza è più profittevole alla tua anima, più nobile di qualsiasi altro esercizio.

Esso veramente piace a Dio, ai Santi e agli Angeli del Cielo; ed è veramente utile a tutti coloro che tu ami d’un’amicizia spirituale o naturale, vivi o morti.(Le nuage de l’inconnaissance, p. 38 ss).

Questo, fratello, è il mio augurio, sintesi di tutti i doni che il deserto mi ha fatto.

 

 

 La contemplazione sulle strade

A questo punto mi sembra avvertire in te, amico, una domanda, accompagnata da un sorriso leggermente triste:

“E allora: bisogna andare tutti nel deserto? Quale valore ha l’azione, l’impegno tra gli uomini, l’immergersi come lievito in questa città terrena? Com’è possibile ciò? Il deserto è lontano; mai potrò…”.

Sapevo che tu pensavi a ciò; ed è assolutamente necessario spiegarci con tutta chiarezza; perché ne va di mezzo addirittura uno scandalo per la tua anima, di cui posso involontariamente essere la causa.

Charles de Foucauld un giorno ebbe a dire: “Se la vita contemplativa fosse solo possibile dietro le mura di un convento o nel silenzio del deserto, dovremmo, per essere giusti, dare un piccolo convento ad ogni madre di famiglia e il lusso di un po’ di deserto ad un povero manovale che è obbligato a vivere nel chiasso di una città per guadagnarsi duramente il pane”.

Non è così?

Fu la visione stessa della realtà in cui vive parte dell’umanità povera a determinare in lui la crisi centrale della sua vita, quella crisi che lo doveva portare così lontano dalla sua prima concezione di vita religiosa.

Charles de Foucauld, come sapete, era trappista e aveva scelto la trappa più povera che esistesse, quella di Akbes in Siria.

Un giorno il suo Superiore lo mandò a vegliare un morto, vicino al convento. Era un arabo cristiano deceduto in una povera casa. Quando fratel Carlo si trovò nel tugurio del morto e vide attorno al cadavere la vera povertà fatta di figli affamati e di una vedova indifesa, debole e senza alcuna sicurezza sul pane del giorno dopo, entrò in quella crisi spirituale che lo avrebbe fatto uscire dalla Trappa, cercando un quadro di vita religiosa così diverso dal primo.

“Noi che abbiamo scelto l’imitazione di Gesù e di Gesù crocifisso, siamo ben lontani dalle prove, dalle pene, dall’insicurezza e dalla povertà a cui sono sottoposte queste popolazioni.

“Non voglio più un convento troppo stabile; voglio un convento piccolo come la casetta di un povero operaio che non è sicuro se domani troverà lavoro e pane e che partecipa con tutto il suo essere alla sofferenza del mondo”.

“Oh, Gesù, un convento come la tua casa di Nazaret per annientarmi, scomparire come hai fatto Tu quando sei venuto fra noi” (Charles de Foucauld, Écrits spirituels).

E uscito dalla Trappa, costruirà la sua prima fraternità a Beni Abbes nel Sahara e poi a Tamanrasset, dove morirà trucidato dai Tuareg.

La “fraternità” doveva somigliare alla casa di Nazaret, quindi ad una delle molte case che tu incontri lungo le strade del mondo.

Ma allora aveva rinunciato alla contemplazione? allora aveva affievolito il suo ardente spirito di preghiera? No; aveva fatto un passo avanti: aveva accettato di vivere la vita contemplativa lungo le strade, in un quadro di vita somigliante a quello di tutti gli uomini.

Ciò è ben più duro!

E Dio voglia che l’umanità faccia questo passo.

Per questo Charles de Foucauld è all’alba di un periodo nuovo, d’un periodo in cui molti si sforzeranno di fare la sintesi tra contemplazione e azione, attuando in una concretezza vitale il primo comandamento del Signore: “Ama Dio sopra ogni cosa e il prossimo come te stesso”.

“Contemplazione sulle strade”: ecco l’impegno di domani per i piccoli fratelli, per tutti i poveri.

*  *  *

E incominciamo ad analizzare questo elemento “deserto”, che dev’essere presente, specie oggi, nell’attuazione di un sì impegnativo programma.

Quando si parla di deserto all’anima, quando si dice che il deserto deve essere presente nella tua vita, non devi intendere solo la possibilità di andare nel Sahara o nel deserto di Giudea, o dell’Alta Valle del Nilo.

È certo che non tutti possono procurarsi questo lusso o attuare praticamente questo distacco dal vivere comune. Il Signore mi ha condotto nel vero deserto per la durezza della mia pelle. Per me, fu necessario così; e tanta sabbia non mi è bastata a raschiare la sporcizia della mia anima, come capitò alla marmitta di Ezechiele.

Ma non per tutti c’è la stessa via. E se tu non potrai andare nel deserto, devi però “fare il deserto”nella tua vita.

Fare un po’ di deserto, lasciare di tanto in tanto gli uomini, cercare la solitudine per rifare nel silenzio e nella preghiera prolungata il tessuto della tua anima, questo è indispensabile, e questo è il significato del “deserto” nella tua vita spirituale.

Un’ora al giorno, un giorno al mese, otto giorni all’anno, per un periodo più lungo, se necessario, devi abbandonare tutto e tutti e ritirarti solo con Dio. Se non cerchi questo, se non ami questo, non illuderti; non arriverai alla preghiera contemplativa; perché essere colpevole di non volersi – potendo – isolare per gustare l’intimità con Dio, è un segno che manca l’elemento primo del rapporto con l’Onnipotente: l’amore. E senza amore non c’è rivelazione possibile.

Ma il deserto non è il luogo definitivo; è una tappa. Perché, come ti dissi, la nostra vocazione è la contemplazione sulle strade. Lungo la via dobbiamo tornare dopo la pausa del deserto.

A me, questo, costa assai. È così forte il desiderio di continuare a vivere qui per sempre, nel Sahara, che sento di già la sofferenza in previsione di un ordine dei Superiori, che certamente verrà: “Fratel Carlo, parti per Marsiglia, parti per il Marocco, parti per il Venezuela, parti per Detroit…”.

Devi tornare tra gli uomini, devi mescolarti a loro, devi vivere la tua intimità con Dio nel chiasso della loro città. Sarà più difficile; ma devi farlo. E non ti mancherà, per questo, la Grazia di Dio.

Ogni mattina prenderai la strada, dopo la S. Messa e la Meditazione, e andrai a lavorare in una bottega, in un cantiere; e quando tornerai la sera, stanco, come tutti gli uomini poveri costretti a guadagnarsi il pane, entrerai nella Cappellina della fraternità e resterai lungamente in adorazione; portando con te, alla preghiera, tutto quel mondo di sofferenza, di oscurità e sovente di peccato in mezzo al quale hai vissuto per otto ore, pagando la tua razione di pena e di fatica quotidiana.

Contemplazione sulle strade: è una bella frase, ma costa assai. Certo, sarebbe più facile e più dolce restare qui, nel deserto; ma sembra che Dio non voglia.

La voce stessa della Chiesa si fa sempre più sentire per indicare ai cristiani la realtà del Corpo Mistico e l’apostolato in esso, per richiamare alla carità vissuta, per invitare tutti ad un’azione, che partendo dalla contemplazione, ritorna ad essa sul versante della testimonianza e della presenza tra gli uomini.

I muri dei conventi si fan sempre più sottili e più bassi; si moltiplicano coloro che vivono la verginità nel mondo; i laici stessi prendono coscienza della loro missione e cercano la loro spiritualità.

È davvero l’alba di un mondo nuovo, al quale non parrebbe retorico dare come consegna “la contemplazione sulle strade” e gli esempi per attuarla.

*  *  *

Ma non vorrei chiudere questa lettera senza dire due parole su un altro elemento basilare per la vita contemplativa, soprattutto se vissuta nel mondo: la povertà!

È troppo importante, specie oggi.

Per povertà non s’intende avere o non aver denari, avere o non aver pidocchi addosso. La povertà non è cosa materiale: è una beatitudine: “Beati i poveri in spirito”. È un modo di essere, di pensare, di amare; è un dono dello Spirito.

Povertà è distacco, è libertà, è soprattutto verità.

Entrate nelle case borghesi, anche se cristiane, e vi convincerete della mancanza di questa beatitudine della povertà. I mobili, gli oggetti, l’insieme è spaventosamente eguale in tutte le case; esso è determinato dalla moda, dal lusso; non dal bisogno, dalla verità. C’era un vecchio tavolo robusto, comodo, ricco di ricordi. No; bisogna metterlo in cantina e sostituirlo inutilmente, con un altro che ha solo delle pretensioni, che sarà vuoto di senso, e che avrà solo il merito di far dire all’amico: “È di moda”.

Questa mancanza di libertà, meglio, questa schiavitù della moda è uno dei diavoli che tiene avvinghiato solidamente un gran numero di cristiani.

Al suo altare, quanti denari si sacrificano! E senza tener conto che si potrebbe fare tanto bene.

L’essere povero in spirito significa innanzitutto essere liberi da ciò che si chiama moda, significa libertà.

Non compero una coperta perché è di moda; compero una coperta perché ne ho bisogno. Senza coperta, il mio bambino trema nel letto.

Il pane, la coperta, il tavolo, il fuoco sono cose necessarie in sé. Il servirsi di esse è realizzare il piano di Dio. “Tutto il resto vien dal maligno”, si potrebbe dire parafrasando un’espressione di Gesù a proposito della verità. E questo “resto” è la moda, la consuetudine, il lusso, l’impinguamento, la ricchezza, la schiavitù, il mondo.

Non ciò che è vero si cerca, ma ciò che piace agli altri. C’è bisogno di questa maschera: senza di essa non si è più capaci di vivere.

Ma le cose si fanno gravi quando entrano di mezzo gli “stili” e le spese diventano astronomiche. “Questo è un Luigi XIV…, questo è Barocco puro…, questo ecc., ecc.”.

E diventano più gravi ancora quando “gli stili” entrano nelle case degli uomini di Chiesa chiamati per vocazione ad evangelizzare i poveri.

C’è sì una giustificante, ed è che in questi ultimi secoli, dalla Rinascenza al Barocco, il trionfalismo della Chiesa e il bisogno sentito dalle folle d’onorare degnamente Dio e le cose di Dio si sono espressi in un lusso e in una pompa davvero straordinarie.

E i poveri non ne avevano scandalo, anzi piaceva loro tutto quel luccichio e quella sontuosità.

Ricordo mia madre, che pur era povera, parlare con orgoglio di cristiana e con soddisfazione della bellezza della casa del Vescovo e della lunghezza delle macchine dei prelati che parcheggiavano sotto la finestra.

Ma le cose son cambiate e non stanno più così e se sapesse o meglio sentisse i moccoli che splodono dietro la sua elegante macchina americana quel Monsignore, mio vecchio amico, farebbe in fretta a raccorciarla o combiarla con una utilitaria di tinta bigio-sporco o, meglio ancora, andrebbe in bicicletta.

Si parla della “Chiesa dei poveri”e non credo sia una frase retorica.

Ma bisogna intendersi sul significato delle parole.

Quando si parla della povertà della Chiesa non si deve identificarla con la “beatitudine della povertà”. Questa, la beatitudine, è una virtù interiore e non posso e non debbo giudicarla nel mio fratello.

Anche colui che è ricco di beni, anche il Pontefice coperto di un piviale d’oro possono e debbono avere la beatitudine della povertà: nel cuore, possono e debbono essere “poveri in spirito”. Nessuno può giudicarli su quella frontiera, specie nella Chiesa.

Ma quando si parla della povertà nella Chiesa si intende la povertà sociale, il volto povero di essa, l’attenzione ai poveri, l’aiuto ai poveri, l’evangelizzazione dei poveri.

E la cosa è ben diversa.

Quando si parla di povertà nella Chiesa si intende il rapporto con gli altri ed è questo che scandalizza il povero, come scandalizzava S. Paolo il modo di fare dei cristiani di Corinto.

“Radunandovi dunque assieme non è che mangiate la Cena del Signore, poiché ciascuno s’affretta a prendere e consumare la propria cena e c’è chi patisce la fame e chi invece s’ubriaca. O non avete la vostra casa per mangiare e bere? Avete forse in dispregio la Chiesa di Dio, e volete fare arrossire quelli che non possiedono nulla?” (1Cor 11, 20).

E non facciamo noi forse arrossire il povero quando gli passiamo vicino con la nostra potenza e ricchezza mentre lui non ha i soldi per pagare l’affitto? Come potremo evangelizzarlo stando dall’alto della nostra sicurezza economica mentre lui non sa se domani avrà lavoro e pane?

*  *  *

Ma la povertà come beatitudine non è solo verità, libertà e giustizia; è e resta amore, e i suoi confini divengono infiniti come i confini delle perfezioni divine.

Povertà è amore verso Gesù povero, cioè verso l’accettazione volontaria d’un limite. Gesù poteva essere ricco; non aveva bisogno di un limite ai sui desideri. No; volle essere povero per partecipare alla limitazione universale dei poveri, per sopportare la mancanza di qualcosa, per soffrire nella sua carne la dura realtà che pesa sull’uomo che cerca il suo pane, e nel suo spirito l’instabilità perenne di chi non possiede.

Questa povertà autentica, sopportata per amore, è la vera beatitudine di cui parla il Vangelo.

Troppo facile parlare di povertà spirituale, riempirsi la bocca di parole pie e non mancare di nulla e avere casa sicura, disponsa ben fornita e conti in banca.

No; non facciamoci illusioni e non cambiamo i termini delle cose più preziose dette da Gesù.

Povertà è povertà, e resta povertà; e non è sufficiente fare il voto di povertà per essere poveri in spirito.

C’è uno scandalo oggi nelle anime dei poveri; e per toglierlo sarebbe meglio parlare meno del solito tema sulla castità e mettere maggiormente l’accento su questa beatitudine che minaccia davvero di essere spazzata via dalla realtà del cosiddetto “vivere da cristiani”.

Se è vero, com’è vero, che la perfezione della legge sta nella carità, tale perfezione deve investire in pieno i miei averi, le mie ricchezze; altrimenti non conoscerò la beatitudine.

Se amo, se veramente amo, come potrò sopportare che un terzo dell’umanità sia minacciata di morire di fame, mentre io conservo tutta la mia sicurezza e la mia stabilità economica? Facendo così, sarò un buon cristiano, ma non sarò certamente un santo; ed oggi c’è inflazione di buoni cristiani, mentre il mondo ha bisogno di santi.

Saper accettare l’instabilità, mettersi nelle condizioni di tanto in tanto di dover dire il “dacci oggi il nostro pane quotidiano” con un po’ di ansia, perché la dispensa è vuota; avere il coraggio, per amore di Dio e del prossimo, di dare senza misura, e, soprattutto, mantenere aperta sul povero cielo dell’anima nostra la grande finestra della fede viva nella Provvidenza di un Dio Onnipotente: questo occorre.

*  *  *

So che ciò che ho detto sulla povertà è grave e so che anche nel mondo non ho saputo attuarla.

Chi ha cambiato il vecchio tavolo di casa sua per un altro insignificante sono io; chi ha vissuto per anni dietro la maschera del “piacere agli altri” sono io; chi ha speso denari e non solo suoi per le cose “non vere” sono io.

Eppure, nonostante questo, non posso tacere; e ai vecchi amici debbo dirlo: badate alla tentazione delle ricchezze. È molto più grave di quanto appaia oggi ai cristiani benpensanti e semina strage nelle anime, proprio perché si sottovaluta il pericolo o perché “a fin di bene” tutto diventa lecito.

La ricchezza è un veleno lento, che colpisce quasi insensibilmente, paralizzando l’anima nel momento esatto della sua maturità. Cono le spine che crescono col grano e che lo soffocano proprio quando comincia a mettere la spiga. Quanti, uomini o donne, anime religiose che pur hanno superato il duro scoglio dell’impurità, si lasciano irretire nella maturità della vita da questo demone vestito bene e di gusti borghesi.

Ora che la solitudine e la preghiera mi hanno aiutato a vedere più chiaro, comprendo perché contemplazione e povertà sono inseparabili.

Non si può giungere alla intimità con Gesù a Betlemme, con Gesù esule, con Gesù operaio a Nazaret, con Gesù apostolo che non ha ove posare il capo, con Gesù crocifisso, senza aver operato in noi quel distacco dalle cose, da Lui così solennemente proclamato e vissuto.

Non si giungerà di colpo a questa dolcissima beatitudine della povertà. La vita non ci basterà a realizzarla in pieno; ma è necessario pensarci, riflettere, pregare.

Gesù, il Dio dell’impossibile, ci aiuterà; compirà, se necessario, il miracolo di far transitare il cammello della parabola attraverso la cruna stretta e arrugginita della nostra povera anima malata.

 

 

 

 

 

 Purificazione dello spirito

C’è uno slogan che ha fatto il giro del mondo e che dice: “Mettendo insieme i denari che si spendono per le cure dimagranti o per tentare di guarire gli organi rovinati dal troppo mangiare nei due continenti benestanti dell’Europa e dell’America, si otterrebero largamente i mezzi per dare pane ai popoli miseri e denutriti d’Africa e d’Asia”.

Il che significa che la voracità è una ben chiara qualità dell’uomo, ivi compreso l’uomo spirituale, l’uomo colto, l’uomo raffinato e – troppo sovente – l’uomo religioso.

Gesù, a questo proposito, ci direbbe: “Non avete saputo fare con le cose piccole; chi vi confiderà le grandi?” (Lc 16, 10).

Se tale voracità abbiamo messo in atto alla tavola del corpo, immaginiamo come l’avremmo centuplicata alla tavola delle cose spirituali, se… se ci fosse il gusto a sentircene allettati! Avremmo  dato addirittura l’assalto al Cielo, come fece Satana.

È inutile ripeterlo: siamo dei malati, degli squilibrati, dei sensuali, dei cattivi. E intendiamoci: tutti quanti.

Gesù, dando il giudizio su di noi, giudizio riassuntivo, autentico, scolastico, disse: “Voi che siete tutti cattivi” (Mt 7, 11).

E sulla croce completò il giudizio: “Padre, perdona loro perché non sanno che cosa fanno” (Lc 23, 34). Cattivi e pazzi!

Lo siamo nelle piccole cose e lo siamo nelle grandi. Lo siamo facendo indigestione e lasciando morir di fame il vicino e continuiamo ad esserlo nella preghiera e nelle cose spirituali.

Ma per fermarci, per bloccare il nostro assalto al Cielo, per impedire l’indigestione e l’impinguamento nelle cose dello spirito, Dio ha avuto una trovata radicale: la fede nuda, la speranza senza memoria, la carità senza sdolcinamenti.

L’uomo che dopo i primi passi nella vita spirituale si lancia nelle battaglie della preghiera e nell’unione con Dio, si stupisce dell’aridità del cammino.

Più avanza e più si fa buio attorno a lui; più cammina e più il tuttodiventa amaro o insipido. Deve addirittura, per avere un po’ di conforto, richiamarsi alle gioie antiche, a quelle dei primi passi, quelle che Dio gli donava per attirarlo a sé.

A volte è perfino tentato di gridare: “Ma Signore, se tu ci aiutassi un po’ di più, avresti più seguaci alla tua ricerca”.

Ma Dio non ascolta tale invocazione; anzi, al posto del gusto, aggiunge noia; e invece della luce mette le tenebre.

Ed è proprio là, a metà del nostro cammino, che non sappiamo se andare avanti o indietro; meglio… sentiamo di andare indietro.

Ma solo allora incomincia la vera battaglia e le cose si fanno serie. Sì; si fanno serie, innanzitutto perché si fanno vere. Incominciamo cioè a scoprire ciò che valiamo: nulla o poco più. Credevamo, sotto la spinta del sentimento, di essere generosi; e ci scopriamo egoisti. Pensavamo, sotto la falsa luce dell’estetismo religioso, di saper pregare; e ci accorgiamo che non sappiamo più dire “Padre”. Ci eravamo convinti di essere umili, servizievoli, ubbedienti; e constatiamo che l’orgoglio ha invaso tutto il nostro essere, fino alle radici più profonde. Preghiera, rapporti umani, attività, apostolato: tutto è inquinato.

È l’ora della resa dei conti; e questi sono molto magri.

Tolta qualche anima privilegiata – che ha capito fin dal principio dove stava il problema e, senza lasciarsi ingannnare né dagli uomini né da Satana, si è subito messa sul cammino aspro e vero dell’umiltà e dell’infanzia spirituale – la maggior parte degli uomini è chiamata a fare una dura e dolorosa esperienza.

Normalmente ciò capita sui quarant’anni: grande data liturgica della vita, data biblica, data del demonio meridiano, data della seconda giovinezza, data seria dell’uomo:

Per quarant’anni fui disgustato con questa generazione

e dissi: – Sempre costoro son traviati di cuore. (Sal 94, 10)

È la data in cui Dio ha deciso di mettere con le spalle al muro l’uomo che gli è sfuggitofino ad ora dietro la cortina fumogena del “mezzo sì e mezzo no”.

Coi rovesci, la noia, il buio; e più sovente ancora, e più profondamente ancora, la visione o l’esperienza del peccato. L’uomo scopre ciò che è: una povera cosa, un essere fragile, debole, un insieme di orgoglio e di meschinità, un incostante, un pigro, un illogico.

Non c’è limite a questa miseria nell’uomo; e Dio gliela lascia ingoiare tutta fino alla feccia.

E anche per coloro che in questa situazione non peccano perché aiutati dalla Grazia si apre tremenda davati agli occhi, la visione delle cose vere: Dio, l’uomo, il peccato.

L’anima avverte di camminare su un filo; e sotto il filo vede l’inferno meritato le cento volte e le cento volte richiuso dalla misericordia di Dio.

Non c’è peccato che non abbia commesso o che non senta intimemente di essere capace di commettere.

Ma non basta.

Nel profondo è riposta la colpa più decisiva, più vasta anche se nascosta, appena o forse mai erompente in singole opere concrete, in cui si spinge verso la superficie del mondo, ma che dal profondo, dagli strati interni del nostro essere – come dice Welte – imbeve con linfa venefica e danneggia strati molto estesi della nostra vita: colpa che consiste più in atteggiamenti generali che in singole azioni, ma che per lo più determina la vera qualità del cuore umano, meglio delle azioni; colpa che è nascosta, anzi camuffata, perché noi a mala pena e spesso solo dopo lungo tempo possiamo coglierla con lo sguardo, ma tuttavia abbastanza viva nella coscienza da poterci contaminare e che pesa assai più di tutte le cose che noi abitualmente confessiamo.

Io intendo gli atteggiamenti che avvolgono la nostra vita intera come un’atmosfera, e che sono presenti, per così dire, in ogni nostra azione e omissione; peccati di cui non possiamo sbarazzarci, cose nascoste e generali: pigrizia e viltà, falsità e vanità, delle quali neppure la nostra preghiera può essere interamente libera; che gravano profondamente su tutta la nostra esistenza e la danneggiano.

È finito il tempo dei giochetti, della commedia, dell’eloquenza, del “come se…”. Si è arrivati infine a conoscere la propria ignoranza sull’orlo dell’abisso che separa la creatura dal Creatore.

Là, non si vive se non di elemosina, della grazia sconosciuta, inafferrabile.

Tutti i mezzi si son dimostrati impotenti, tutte le vie troppo corte. La notte divina, impenetrabile, ci avvolge; la solitudine spaventosa, se pur necessaria e inevitabile, ci accompagna.

Ogni parola di consolazione ci appare menzogna: si ha l’impresione che Dio ci ha abbandonati.

In questo stato davvero doloroso, la preghiera diventa vera e forte, anche se arida come la sabbia.

L’anima parla al suo Dio con la sua povertà, col suo dolore; più ancora, con la sua impotenza e abiezione.

Le parole si fanno sempre più scarse, più nude. Si giunge al silenzio, che è un passo innanzi nella preghiera; perché è senza limiti, mentre ogni parola ha un limite.

E la golosità spirituale?

Oh, essa c’è sempre! Cova sotto la cenere; ma è meno violenta, più prudente, più dominata.

Dio ora interviene di nuovo con le consolazioni, dacché sarebbe impossibile vivere in quello stato di abbandono. È Lui che torna a sollecitare l’anima col tocco della sua dolcezza. E l’animaaccetta con gratitudine; ma è talmente resa paurosa dai colpi ricevuti, che non osa chiedere altro.

In fondo ha capito che deve lasciar fare, che deve abbandonarsi al suo Redentore, che da sola non può nulla, che Dio può tutto…

E se sarà ferma e immobile, come fasciata dalla fedeltà di Dio… oh! s’accorgerà presto che le cose son cambiate, e che la marcia, pur sì pesante ancora, è nella buona direzione.

È la direzione dell’amore; ed esso verrà come la luce viene dopo le tenebre, il meriggio dopo l’aurora.

Ciò che conta è lasciar fare a Dio.

 

 

 

 Settarismo

Anche stasera è Abdaraman che m’accompagna all’eremitaggio per l’adorazione: duecento metri che percorriamo insieme, tenendoci per mano e conversando del più e del meno.

Ma sapete chi è Abdaraman? È un ragazzino mussulmano di forse otto anni. Dico “forse”, perché qui non esiste l’ufficio di stato civile, e nessuno prende nota della nascita di un bimbo; così pochi conoscono la loro età con precisione.

Abdaraman non va a scuola, pur essendovi una scuola al di là dell’Oued, frequentata dagli Europei e da qualche “mosabit”, figlio di commercianti del luogo. Non va a scuola, perché suo padre Aleck non lo lascia andare.

“Aleck – gli chiedo – perché non mandi i tuoi figli a scuola?”.

Aleck mi guarda profondamente e mi dice: “Fratel Carlo, non mando i miei figli a scuola, perché diventano cattivi. Guarda i ragazzi che vanno alla scuola: non pregano, non ubbidiscono più e cercano solo di vestir bene”.

Abdaraman è completamente nudo: sembra una bella statuetta d’un color grigio scuro, risultato d’infiniti incroci tra l’Africa nera deportata schiava qui, e l’Africa bianca delle tribù del nord: Arabi, Berberi e Tuareg.

Abdaraman è mussulmano, ha subito la circoncisione come tutti i figli d’Ismaele ed è della stretta osservanza. Suo padre Aleck è un bravo uomo, rico di fede e di figli. Quando viene il mese del Ramadan digiuna dall’alba al tramonto, pur continuando a lavorare il suo campo lungo la sponda dell’Oued di Tamanrasset. Aleck è veramente religioso e ogni anno ricorda il sacrificio di Abramo con l’uccisione di un montone e in tale occasione compera un vestito chiaro di cotono a tutti i suoi piccoli. La sua fiducia in Dio è totale; e, anche se povero povero, non ruba, ma vive del suo lavoro, che consiste nello scavare per mesi e mesi nella sabbia dell’Oued un canale sotterraneo chiamato “seghia”e per altri mesi coltivare il suo campetto che ha bisogno d’acqua almeno tre volte la settimana.

Una volta arrivò la Legione straniera e si accampò lungo la “seghia”scavata nella sabbia e che porta l’acqua al grano di Aleck.

Naturalmente l’acqua venne a mancare e il grano di Aleck incominciò ad appassire.

“Aleck – gli dico, – se continua così, il tuo grano secca. Va’ a dire al capitano che la “seghia” è tua, e che metta il campo altrove”.

Aleck mi risponde: “Allah è grande e provvederà per i miei figli”; e lascia morire il grano, mentre i legionari lavano i camion e si gettano l’acqua addosso per scherzare.

Dunque: Abdaraman mi accompagna stasera all’eremitaggio. Il sole è tramontato e l’aria si è fatta fresca, propizia al passeggiare. Abbiamo sempre molte cose da raccontarci, perché ci vogliamo veramente bene. Ogni mattina me lo trovo davanti alla cella in attesa ch’io finisca la meditazione. Sovente prendiamo il the assieme; ed egli mi dice che gli piace molto il pane che faccio io. Abdaraman ha sempre appetito; ma non mi chiede mai nulla: sono io che debbo indovinare.

Questa sera è serio e risponde a stento alle mie domande. Capisco che ha qualcosa di importante da dirmi e non osa.

Ma so che non tarderò a sapere, perché tra me e lui non ci sono segreti.

“Che cos’hai, Abdaraman, stasera? Perché non parli?”.

Silenzio.

“Non hai mangiato il ‘couscous’?”.

Silenzio.

“Ti ha picchiato il babbo?”.

Silenzio.

“Il fenek è scappato dalla gabbia?”.

Silenzio.

“Ma parla, Abdaraman; apri il cuore al tuo amico fratel Carlo”.

Abdaraman scoppia a piangere e il suo corpo nudo si agita e si contrae.

È uno spettacolo vederlo piangere: ce la mette tutta; e le lacrime, dopo aver irrigato il volto, continuano la marcia sul petto e sul ventre.

Ora sono io che faccio silenzio. Debbo attendere la pacificazione degli elementi.

Gli serro più forte le mani in segno di affetto.

“Allora, Abdaraman, che cosa ti fa piangere?”.

“Fratel Carlo, piango perch’` tu non ti fai mussulmano!”.

“Oh – esclamo io – e perché mi debbo fare mussulmano? Abdaraman, io sono cristiano e credo in Gesù. Io prego il Dio che creò il cielo e la terra come te, e le nostre preghiere vanno nello stesso Cielo, perché di dei ce n’è uno solo. E il mio Dio è il tuo Dio. È Lui che ci ha creati, ci nutre, ci ama. Se tu farai il tuo dovere, non ruberai, non ucciderai, non dirai menzogne; se tu seguirai la voce della tua coscienza, andrai in Paradiso; e sarà lo stesso Paradiso del mio, se anch’io avrò fatto ciò che Dio mi comanda. Non piangere più”.

“No, no – mi grida Abdaraman; – se tu non ti fai mussulmano, vai all’inferno come tutti i cristiani”.

“Oh, questa è bella, Abdaraman! Chi t’ha detto che andrò all’inferno se non mi darò mussulmano?”.

“Me l’ha detto il Taleb (maestro della scuola coranica) che tutti i cristiani vanno all’inferno; e io non voglio che tu vada all’inferno”.

Siamo giunti vicino all’eremitaggio e Abdaraman si ferma. Più avanti non è mai venuto. S’è sempre fermato a una decina di passi da quella costruzione, e per tutto l’oro del mondo non entrerebbe, come se là dentro ci fosse una misteriosa diavoleria interdetta ai piccoli mussulmani.

L’amore che ha per me, ed è molto, s’è sempre urtato contro questo muro che ci divide e che stasera prende addirittura il nome così tremendo: “inferno”.

Gli dico: “No, Abdaraman; Dio è buono e ci salverà tutti e due; salverà tuo padre, e tutti andremo in Paradiso. Non credere che per il solo fatto ch’io sono cristiano andrò all’inferno, come io non credo che tu ci andrai perché sei mussulmano. È così buono Iddio! Forse non hai capito bene che cosa voleva dire il Taleb; forse ha detto che i cattivi cristiani vanno all’inferno. Sta’ tranquillo; va’ a casa a recitare la tua preghiera mentre io reciterò la mia; e prima di terminare, di’ questo a Dio, come dirò io: – Signore, fa’ che tutti gli uomini si salvino. – Va’ …”. Ed entro triste nell’eremitaggio, in questa piccola costruzione di fango, costruita dallo stesso Charles de Foucauld, che volle farsi chiamare Piccolo Fratello universale e che qui morì trucidato per ignoranza e fanatismo dai figli della stessa tribù di Aleck e Abdaraman.

Ma stasera mi sarà difficile pregare! Quale tumulto di pensieri ha suscitato in me il mio piccolo amico!

Povero piccolo Abdaraman! Anche tu vittima del fanatismo, dello zelo intempestivo dei cosiddetti “uomini di Dio”, dei religiosi che manderebbero all’inferno metà del genere umano, solo perché “non sono dei loro!”.

Quanto è doloroso tutto ciò! Come è possibile che ciò avvenga? Che il filo d’amore che mi unisce ad un fratello sia spezzato dal presento “zelo per Dio”! Che la religione, invece di essere motivo di unione, divenga trincea di morte o per lo meno di odio inconfessato. Meglio non averla questa religione che divide. Meglio brancicare nel buio che possedere una simile luce!

*  *  *

Dopo un’ora di sforzo per raccogliere la mia povera anima dinanzi al silenzio dell’Eucaristia, mi sono accorto che le lacrime rigavano la mia “grandura”bianca. Ero io ora che piangevo. E sapete perché?

Facendo l’esame di coscienza per purificare la mia anima e non quella di Abdaraman dal settarismo mi era tornata alla memoria una scena che risaliva alla mia infanzia. Avevo allora otto anni, proprio otto anni come Abdaraman. Vivevo allora in un villaggio all’ombra di un antico campanile. Non era molto religiosa la popolazione, ma era chiusa e tradizionalista all’eccesso.

Un giorno venne un uomo a vendere libri, passando di casa in casa. Non capivo molto, allora, ma fu la prima volta ch’io intesi la parola “Bibbia”.

Si produsse nel villaggio un’agitazione strana. Prima nelle donne, poi in tutti; chi per zelo, chi per rispetto umano.

Si sentirono nell’aria grida isteriche d’una donna. Da una finestra gridava:

“Barbet, barbet. Non abbiamo bisogno della tua religione. Va’ via di qui”.

L’agitazione raggiunse i ragazzi.

L’uomo camminava in mezzo alla strada, pallido. Aveva i libri in una grande borsa scura, pesante.

Una donna gli tirò dietro un libro che aveva avuto poco prima. L’uomo s’abbassò a raccoglierlo senza voltarsi. Una pietra scagliata da un ragazzo lo colpì nella schiena. Accelerò il passo, seguito dai ragazzi a distanza. Ciascuno aveva in mano una pietra. Tra quei ragazzi c’ero anch’io.

La sera, alla benedizione eucaristica del mese mariano, il parroco ci lodò, perché avevamo difeso la trincea della parrocchia.

Sembra nulla; ma a distanza di quarant’anni, e particolarmente stasera, quella scena acquista un valore ed una gravità tutta nuova.

Non mi sono mai confessato d’aver tirato un sasso dietro ad un uomo indifeso, e per zelo religioso. L’episodio si iscrive in un mondo che accettava simili cose, senza vederne tutta la malvagità.

Ma a distanza di mezzo secolo le cose sono cambiate.

C’è nell’aria qualcosa di nuovo. Un soffio dello Spirito anima l’universo intero. Un mondo vecchio muore e un altro nasce. Altra sensibilità, altre esigenze, altre forze. Siamo all’alba di un’epoca marcata da un gran desiderio d’amore e di pace tra i popoli e tra gli uomini.

La verità e la carità sono in marcia di nuovo per incontrarsi; e il rispetto della persona umana è diventato il rritornello, il canto di tutte le genti.

Un senso ecumenico scioglie i nodi più complicati; e un desiderio di conoscerci e di capirci supera di gran lunga la tentazione di rimanere chiusi nella vecchia cittadella della nostra presunta verità.

L’uomo, forse, per la prima volta esce in campo senza difese e con la speranza di incontri fecondi.

L’amicizia sta diventando la normale via dei rapporti umani e le guerre di religione sono confinate nella storia del passato.

*  *  *

Abdaraman, mio piccolo e caro Abdaraman, non temere; ci ameremo ancora e ci incontreremo; e… non solo in Paradiso.

 

 

 

 Nazaret

Charles de Foucauld era un nobile visconte. Nelle sue vene correva sangue altero e abituato al comando.

Innamoratosi di Cristo con la forza di un S. Francesco, ne ricercò nel Vangelo la personalità, il carattere, la vita.

È raro trovare un uomo più passionatamente impegnato a scoprire i dettagli della vita di Gesù per imitarne l’atteggiamento, i gesti, le intenzioni recondite.

Ebbene: in questa ricerca amorosa, fatta per trovare materia di imitazione fedele e vivente, Charles de Foucauld si stupisce soprattutto di una cosa: Gesù è un povero e un operaio.

Nessuno può contraddire questo fatto. Il Figlio di Dio, che liberamente poteva scegliere – ciò che non capita a nessun altro, – scelse non solo una madre e un popolo, ma una situazione sociale, e volle essere un salariato.

Bisogna dire che questa parola “manovale”, “operaio”, “salariato”, ha un suono ben diverso nelle orecchie di un nobile da quello che può avere nelle mie. Per Charles de Foucauld, scegliere la situazione sociale di un operaio, significa l’abiezione, l’annientamento di se stesso.

Ed è appunto questa posizione volontaria di Gesù di perdersi in un borgo anonimo del Medio Oriente, di annientarsi nella monotonia quotidiana di trent’anni di lavoro rude e misero, di scomparire dalla società “che conta”, per morire in un anonimato totale, che maggiormente sconvolge il nobile convertito.

Perché Gesù non fu scriba? Perché non volle nascere in una di quelle famiglie destinate al comando, alle responsabilità, all’influenza sociale e politica?

Ed eccolo alla ricerca appassionata delle intenzioni che guidarono il Maestro divino nella scelta della sua vita, di tutta la sua vita.

E non tarderà ad uscire in quella esclamazione che resterà, in fondo, la guida ascetica della vita del grande esploratore del Marocco e del mistico Sahariano:

“Gesù ha talmente cercato l’ultimo posto, che ben difficilmente qualcuno potrà strapparglielo”.

Nazaret era l’ultimo posto: il posto dei poveri, degli anonimi, di coloro che non contano, della massa degli operai, degli uomini piegati alle dure esigenze della fatica per un po’ di pane.

Ma c’è di più. Gesù è il “Santo di Dio”. Ebbene, il “Santo di Dio” realizza la sua santità con una vita non straordinaria, ma tutta impregnata di cose ordinarie, di lavoro, di vita familiare e sociale, con attività umane oscure, semplici, possibili a tutti gli uomini.

La perfezione di Dio è colata su una materia che gli uomini quasi disprezzano, che in ogni caso non ricercano per la sua semplicità, per la “mancanza di interesse”, perché è comune ai più.

Una volta scoperta la realtà spirituale di Nazaret, Charles de Foucauld ne cercherà l’imitazione, la più fedele possibile.

Cercherà di avere un convento piccolo come la casa di Nazaret, cercherà di perdersi, annientarsi nel silenzio di un borgo sconosciuto, imiterà Gesù lavorando manualmente, e vorrà i suoi piccoli fratelli alla ricerca sempre dell’ultimo posto, là dove ci sono i poveri, là dove il clima è più rude, il salario più piccolo, la fatica più grande. Nazaret vorrà dire tutto questo; ma non solo.

*  *  *

L’imitazione di Nazaret non è piccola cosa. Quando penso che una porta, un assito, un muro può dividere una famiglia santa come quella di Gesù da quella di un vicino che, pur vivendo con lo stesso ritmo, la stessa fatica, la stessa giornata, ne è agli antipodi come tristezza, odio, impurità, cupidigia, e a volte disperazione, mi convinco della immensa ricchezza interiore portata dal messaggio evangelico. Le stesse azioni, compiute sotto la luce di Dio, trasformano radicalmente la vita di un uomo, d’una famiglia, d’una società.

Gioia o tristezza, guerra o pace, amore o odio, purezza o adulterio, carità o cupidigia sono tremende realtà che fanno il loro spartiacque sul crinale dell’interiorità dell’uomo. Vivere le cose comuni, i rapporti con gli uomini, il lavoro quotidiano, l’amore dei nostri in un determinato modo può generare santi; in un determinato altro modo, può generare demoni.

Gesù a Nazaret ci ha insegnato a vivere da santi tutte le ore del giorno. Tutte le ore del giorno sono valide e capaci di contenere l’ispirazione divina, la volontà del Padre, la contemplazione della preghiera: la santità, insomma. Tutte le ore del giorno sono sante; basta viverle come Gesù ci ha insegnato a viverle.

E per questo non è nemmeno indispensabile chiudersi in un convento o stabilire alla nostra vita orari strani e qualche volta disumani. Basta accettare la realtà che viene dalla vita. Il lavoro è una di queste realtà; la maternità, l’educazione dei figli, la famiglia con tutti i suoi impegni è un’altra di queste realtà.

Queste realtà devono essere santificate; e non dobbiamo pensare che si è santi solo perché abbiamo fatto dei voti.

Questa strana mentalità di considerare come sola materia di vita spirituale le ore di lettura o di preghiera e di non tenere in nessun conto le ore di lavoro e di rapporti sociali, quindi le ore più numerose, è motivo di gravi deformazioni, di vere storture, e, nei migliore dei casi, di personalità religiose anemiche o rachitiche.

Tutto l’uomo deve essere trasformato dal messaggio evangelico; non c’è azione in lui che possa essere indifferente; tutto contribuisce a santificarlo o a dannarlo.

Nazaret è la vita d’un uomo, d’una famiglia in tutta l’ampiezza dell’attività umana; è la maniera di vivere per trent’anni, quindi per il più lungo tempo a disposizione per realtà umane destinate a passare nel crogiolo della fede, della speranza e della carità.

Pochi hanno così bene riassunto la santità delle cose comuni come Gandhi nei suoi scritti.

Ecco che cosa dice il grande mistico indiano:

“Se quando s’immerge la mano nel catino dell’acqua,

se quando si attizza il fuoco col soffietto,

se quando si allineano interminabili colonne di numeri

al proprio tavolo da contabile,

se quando, scottati dal sole, si è immersi nella melma della risaia,

se quando si è in piedi davanti alla fornace del fonditore,

non si realizza la stessa vita religiosa

proprio come se si fosse in preghiera in un monastero,

il mondo non sarà mai salvo”.

*  *  *

Ma c’è ancora un aspetto di Nazaret che vorrei tratteggiare soprattutto per coloro che pensano che non sia possibile portare il messaggio evangelico senza strumenti, senza mezzi, senza denari.

Gesù era Lui il portatore del messaggio; ed era ancora Lui l’intelligenza somma, capace di escogitare il modo migliore per farsi capire e per realizzare il piano divino.

Ebbene; che cosa fece?

Non aprì ospedali, non fondò orfanotrofi: si incarnò in un popolo e visse con lui per primo il messaggio nella sua interezza:

coepit facere“: incominciò a fare.

Questo far precedere alla parola l’esempio, questo presentare il “tipo” prima di spiegarlo agli uditori, è stato il modo di procedere di Gesù, che troppo facilmente dimentichiamo.

In molti casi la catechesi è ridotta a “parole”più che a un “fatto”, a conferenze più che a preoccupazione di santità personale.

E qui forse sta il motivo degli scarsi risultati, e più ancora della tristezza e noia dei cristiani.

Non c’è efficacia perché non c’è vita: non c’è vita perché non c’è esempio; non c’è esempio perché parole vuote han preso il posto della fede e della carità.

“Voglio gridare il Vangelo con la vita” ripeteva sovente Charles de Foucauld; e si convinse che il più efficace metodo di apostolato era il vivere da cristiano. Specialmente oggi, in cui la gente, diventata scaltra, non vuol più intendere sermoni: vuol vedere.

Nazaret è, prima dell’azione, il lungo tempo della preparazione, della preghiera, del sacrificio; il tempo del silenzio, della vita intima con Dio; il tempo della lunga solitudine, della purificazione, della conoscenza degli uomini, dell’esercizio del nascondimento: di ciò che conta, insomma, per dirsi cristiano.

Da Nazaret uscirà l’apostolo.

*  *  *

Ma quale apostolo?

Su questa parola di “apostolo” s’è prodotta una delle più grandi inflazioni dei nostri tempi. Si parla di apostolato a dritta e a rovescia; tutti son diventati apostoli e… anche il trasportare una sedia è qualificato come attività apostolica.

Forse s’è presa l’abitudine di usare parole grosse per imprimere alla vita parrocchiale o diocesana un ritmo un po’ più celere ma, detto questo, le cose non cambiano e le parole rimangono parole.

Non ho qui nessuna intenzione di analizzare il significato autentico della parola “apostolo”, né di far problemi su l’ampiezza reale del così detto “campo dell’apostolato”. Dio me ne guardi!

Ma ciò che vorrei dire a tale proposito è che meditando a lungo su Nazaret ho sentito scaturire dal profondo di questo mistero una chiarificazione tra la vita del laico e la vita del sacerdote, tra l’apostolato dei laici e l’apostolato dei sacerdoti.

La mia generazione ha vissuto un periodo un po’ speciale, qualche volta caotico e molte cose si debbono giustificare sia a motivo dell’infantile incompetenza e preparazione nostra, sia per l’eccezionale periodo della storia. In fondo quando una acsa brucia anche una donna può fare il pompiere ed un laico dar ordini a un Vescovo.

Ma normalmente non dovrebbe essere così. È una stonatura vedere un laico che fa il viceparroco ed è una stonatura vedere un sacerdote preparare le liste elettorali.

E perché è una stonatura? Qui davvero si potrebbero scrivere molti libri per rispondere a tale domanda e certamente si scriveranno perché l’esperienza ci ha insegnato molte cose. Quanto a me, preso alla sprovvista qui in mezzo alla sabbia che mi rende arido il cervello e alle termiti che mi divorano i libri nella cella, mi accontento di pensare a Nazaret e di trovare nella maniera di vivere di Gesù, Maria e Giuseppe l’ispirazione fondamentale della cosiddetta spiritualità dei laici.

Questa – la spiritualità dei laici – non dev’essere una brutta o bella copia di quella dei sacerdoti, ma un’altra cosa, autentica e genuina in sé, vera dinanzi a Dio e agli uomini. Altra è l’attività di un sacerdote, altra quella di un politico; altra è l’attività di un parroco, altra è l’attività di un lavoratore o di un padre di famiglia.

Se è vero che per spiritual;ità noi intendiamo il modo di pensare, vivere, sublimare, santificare gli atti della nostra vita, se ne deduce che il pensare, vivere, sublimare, santificare gli atti d’un sacerdote è cosa profondamente diversa da quella di pensare, vivere, sublimare, santificare gli atti di un lavoratore, d’uno sposo, di un sindaco.

È la materia che cambia. Sulla spiritualità del sacerdote, s’è fatta della strada: basta pensare ad un Curato d’Ars o a un Cafasso.

Non atrettanto si può dire per la spiritualità dei laici, anche se molti sentono che la nostra è esattamente l’epoca che affronterà il problema.

Il laico non deve fare il “quasi prete”, ma deve in virtù del suo stato santificare il suo lavoro, il suo matrimonio, i suoi rapporti sociali così vari, complessi ed impegnativi.

S. Pietro nella sua prima lettera al cap. II, al versetto 4, dice rivolgendosi ai laici: “Voi come pietre vive siete edificati sopra di Lui (il Cristo) per essere una casa spirituale, un sacerdozio santo per offrire vittime spirituali gradite a Dio per mezzo di Gesù Cristo”.

Tutti qui sono concordi nel dire che esiste per il battezzato un vero ed autentico sacerdozio, ben diverso naturalmente dal sacerdozio conferito dal Sacramento dell’Ordine, ma un sacerdozio reale che pone il laico in faccia alla creazione per interpretarla, vivificarla, liberarla, rappresentarla.

Ciò è estremamente importante e il laico che non sente ciò ha tradito la sua vocazione.

Il lavoratore è un sacerdote davanti al suo lavoro; il padre di famiglia è sacerdote davanti alla sua sposa e ai suoi figli; il capo di una comunità è sacerdote dinanzi ai suoi congregati; il contadino è sacerdote dinanzi al suo podere, il suoi animali, i suoi campi, i suoi fiori.

Io penso che troppo poco è stato sviluppato in questi ultimi secoli il concetto di sacerdozio regale di cui parla S. Pietro nella sua lettera ai cristiani e di ciò che significhi questo “offrire vittime spirituali gradite a Dio da parte del battezzato”, e ciò ha creato in fondo l’aridità che noi sentiamo nel trattare l’argomento dell’apostolato dei laici e – direi di più – della posizione dei laici nella Chiesa.

Cosa volete parlare di spiritualità dei laici se omettete questa fondamentale prerogativa di sacerdote delle cose create, di voce della natura, di consacratore dei beni della terra, di santo della città terrena?

Non sentendo parlare di queste cose, il giorno in cui il laico vuol diventare “buono” finirà per copiare il parroco che gli sta di fronte e che sente “spiritualmente più avanti di lui” e diventerà mezzo laico e mezzo prete ad edificazione dei buoni parrocchiani, ma non certo di coloro che ne hanno più bisogno, “i lontani”.

Questi – ed a ragione – non possono sopportare il profumo di questo ibridismo e continuano a pensare che il cristianesimo non sa risolvere i problemi del mondo.

Rimane da fare molto cammino, ma siamo a buon punto, perché sacerdoti e laici hanno preso coscienza della loro posizione nella Chiesa.

È ciò che mi auguro perché vorrei fosse evitata a coloro che entrano oggi nell’arengo dell’azione apostolica la stonatura del mio tempo in cui sacerdoti furono trascinati a fare da galoppini elettorali ed i laici a dar consigli ai Vescovi sul governo della Chiesa.

 

 

 

 

 

 L’ultimo posto

Sono diventato piccolo fratello di Gesù perché Dio l’ha voluto. Mai ho dubitato della chiamata; anche perché, se non fosse stata la volontà di Dio a mettermi su questa strada, non avrei potuto resistere a lungo.

Il dormire all’addiaccio, il vivere in climi estenuanti, il frequentare tribù veramente povere e il sopportarne il fetore, è ancora piccola cosa in confronto allo svuotamento della personalità, al taglio col passato, all’accettazione radicale di civiltà e patrie diverse dalle nostre.

E mi spiego.

Come sapete, il piccolo fratello non può avere opere sue. Non può fare scuola, organizzare ospedali, creare dispensari, distribuire aiuti. Deve venire qui, scegliere un villaggio, una bidonville, una tribù nomade, installarsi in essa e vivere come vivono tutti gli altri, specie i più poveri.

È il capovolgimento totale del sistema europeo in vigore fino a ieri.

Qui l’europeo che arrivava: militare, missionario, tecnico o funzionario, si costruiva una casa all’europea e viveva da europeo tra indigeni. Il suo standard di vita non era quello del luogo, ma quello del paese di origine.

Il compito era quello di evangelizzare, elevare, aiutare, organizzare, sorreggere; ma sempre all’europea, con cultura, metodi, finalità europee. La fede di questi uomini aveva la sua testimonianza nel dono.

E non è piccola cosa! Miracoli di amore e di eroismo furono scritti in terre d’Africa e d’Asia: chiese, ospedali, dispensari, scuole, opere sociali furono create per recare sollievo, allontanare la morte, accelerare il processo di evoluzione dei popoli sottosviluppati.

Fu la grande ora missionaria della Chiesa, fu la provvidenziale attività di colonizzazione, giustificata pienamente dai tempi e dalle realtà di allora.

In ogni caso fu l’inserimento della stirpe dei bianchi in quella degli uomini di colore, fu l’andata dei ricchi verso i poveri, dei cristiani verso i pagani. Non sempre tutto camminò liscio, non sempre missionario fu sinonimo di uomo di Dio e funzionario sinonimo di generosità e gratuità.

Troppo lunga sarebbe la storia; e, continuando, finiremmo per fare il processo al passato.

Ciò che c’interessa è il constatare che in pochi anni tutto è cambiato.

Le chiese africane prendono coscienza della loro autenticità e non vogliono più essere copie delle chiese francesi o italiane o olandesi; i popoli di colore non solo non sopportano più il colonialismo; ma, per reazione, chiudono il loro cuore ai bianchi, non han più la confidenza di una volta, e sovente disprezzano od odiano tutto ciò che viene dall’antica razza dominatrice.

Com’è naturale, in questi casi, si passa il limite, si diventa ingiusti; e del passato si finisce di vedere solo il male.

È davvero l’ora in cui è necessario rivedere radicalmente le posizioni, tutte le posizioni.

*  *  *

In questa luce e più ancora dinanzi alle future attività della Chiesa in terra di missione va vista come profetica l’opera di Charles de Foucauld.

Questo uomo di Dio, ignaro di tutti i problemi, spinto solo dalla forza e dalla luce dello Spirito, va in Africa in pieno tempo di colonizzazione. Nell’aria non c’è ancora il minimo sentore di ciò che avverrà su così vasta scala. Preoccupato solo di portare il Vangelo ai Berberi o ai Tuareg, capisce ciò che gli altri non capiscono e lavora come se il processo di decolonizzazione fosse già avvenuto.

Non doni, non ospedali, non dispensari, non scuole, non denaro.

Si presenta solo, indifeso, povero.

Ha capito che la potenza dell’europeo, anche se espressa in ospedali, scuole, non dice quasi più nulla su un piano religioso al povero africano; non è più una testimonianza come una volta.

Ha capito che l’indigeno, anche se molto sottosviluppato, non è più disposto ad accettare dall’alto, come un tempo, un messaggio che gli sembra troppo legato ad un dato popolo e a una data civiltà.

Occorre battere un’altra strada; ed è quella di sempre, perché è scritta nel Vangelo, ma con una purezza e forza nuova: è la strada della piccolezza, del sacrificio, della povertà, del nascondimento, della terstimonianza.

È un fatto indiscutibile, e non solo per i paesi poveri: si ha paura della potenza. Una Chiesa potente, ricca, dominatrice, oggi spaventa.

L’occhio dell’uomo, terrorizzato dalle possibilità della tecnica, si posa con gioia su ciò che è piccolo, indifeso, debole. Si ha perfino paura di un oratore che gridi troppo forte.

Sta proprio qui il segreto della popolarità acquistata da Charles de Foucauld. Si è presentato tra assassini come erano i Tuareg, indifeso; è entrato nel mondo arabo vestito da arabo, ha vissuto tra coloro che erano i servi degli europei come se fossero suoi padroni, ha costruito i suoi eremitaggi non copiando le architetture romane o gotiche, ma imitando la semplicità e la povertà delle moschee sahariane.

*  *  *

Questo presentarsi povero, questo vestire “come loro”, questo accettare la loro lingua, i loro costumi, di colpo ha fatto cadere il muro e ha permesso il dialogo, l’autentico dialogo: quello tra uguali.

Mai dimenticherò una scena che nella sua semplicità esprime plasticamente il pi`no di amore di questo nuovo “andare verso coloro che non conoscono ancora il Cristo”.

Percorrevo a cammello la pista tra Geriville e El Abiod, ed ero diretto ad una zona desertica, per qualche giornata di solitudine.

Ad un certo punto della pista m’imbatto in un cantiere di lavoro. Una cinquantina di indigeni, guidati da un sottufficiale del genio, faticava a sistemare la strada rovinata dalle piogge invernali. Sotto il sole sahariano, non macchine, non tecnica: solo la fatica dell’uomo nel caldo e nella polvere a maneggiare per tutta la giornata la pala e il piccone.

Rimonto la fila del manovali disseminati sulla pista, rispondo al loro saluto, offro la mia “gherba” di 30 litri di acqua alla loro sete.

Ad un certo punto, tra le bocche che si avvicinano al collo della “gherba” per bere, vedo schiudersi un sorriso che non dimenticherò più.

Povero, stracciato, sudato, sporco: è frère Paul, un piccolo fratello che ha scelto quel cantiere per vivere il suo calvario e mescolarsi a quella pasta come lievito evangelico.

Nessuno avrebbe scoperto l’europeo sotto quegli abiti e quella barba e quel turbante ingiallito dalla polvere e dal sole.

Io conoscevo bene frère Paul, perché avevo fatto il noviziato assieme.

Ingegnere parigino, lavorava in una di quelle commissioni destinate a preparare la bomba atomica di Reganne, quando sentì la chiamata del Signore.

Lasciò ogni cosa e fu piccolo fratello.

Ora era lì; e nessuno sapeva che era un ingegnere: era un povero come gli altri.

Ricordo sua madre quando venne in occasione dei voti al noviziato.

“Mi aiuti, fratel Carlo, a capire la vocazione di mio figlio. Io l’ho fatto ingegnere, voi l’avete fatto manovale. Ma perché? O almeno vi serviste di mio figlio per quel che vale! No: dev’essere un manovale. Ma dite, alla Chiesa non ne verrebbe più decoro, più efficacia a farlo agire come intellettuale?”.

“Signora, rispondevo io, ci sono cose che non si possono capire con l’intelligenza e il senso comune. Solo la fede ci può illuminare. Perché Gesù volle essere Lui povero? Perché volle nascondere la sua divinità e la sua potenza e vivere tra noi come ultimo? Perché, signora, la sconfitta della croce, lo scandalo del Calvario, l’ignominia della morte per Lui che era la Vita? No, signora; la Chiesa non ha bisogno di un ingegnere di più, ma ha bisogno di un chicco di grano di più da far morire nei suoi solchi. E più questo chicco è turgido di vita e sapido di cielo e di sole, e più sarà gradito alla terra che lo deve accogliere per la futura messe”.

Quante cose non si possono capire su questa terra! Non è tutto un mistero ciò che ci circonda?

Che Paul sacrifichi se stesso, la sua cultura, la sua possibilità per amore di Dio e per amore dei suoi fratelli più abbandonati io lo capisco; ma capisco pure le reazioni di sua madre, e non solo di sua madre.

Quanti direbbero: peccato! una sì bella intelligenza, finire in un solco della pista sahariana. Avrebbe potuto costruire una rotativa per diffondere la buona stampa… E avrebbero anche ragione.

È difficile cogliere il punto giusto del mistero dell’uomo che è una parte del grande mistero di Dio. C’è chi sogna una Chiesa potente, ricca di mezzi e di possibilità, e c’è chi la vuole povera e debole; c’è chi dà vita e cultura e studio per arricchire di pensiero la filosofia cristiana, e c’è chi rinuncia anche a studiare per amore di Dio e del prossimo.

Mistero di fede!

A Paul non interessava “avere influenza” sugli uomini; gli bastava “pagare”, “scomparire”. Altri cercheranno altre vie e realizzeranno la loro santità in modo differente.

Posso dubitare della fede di mia madre che avrebbe desiderato tutta la ricchezza in mano alla Chiesa per il decoro dell’altare, le opere missionarie e la dignità del culto?

Ed io, suo figlio, che ero esattamente all’opposto e sognavo un culto più spoglio, una povertà più sentita, e soprattutto un apostolato fatto con   “mezzi poveri”, non avevo anch’io le mie ragioni?

È tanto difficile giudicare! Tanto difficile che Gesù ci pregò di non insistere sull’argomento.

C’è però una verità, alla quale attaccarci sempre, disperatamente sempre: l’amore!

È l’amore che giustifica le nostre azioni, a volte così contrastanti. È l’amore la perfezione della legge.

Se è per amore che frère Paul ha scelto di morire su una pista del deserto, da questo è giustificato.

Se è per amore che Don Bosco e il Cottolengo costruirono scuole e ospedali, da questo sono giustificati.

Se è per amore che S. Tommaso passò la sua vita sui libri, da questo è giustificato.

Rimane solo il problema di stabilire la gerarchia di questi amori; e qui è Gesù stesso che ci insegna in modo inequivocabile: “Chi di voi vuol essere il primo, sia l’ultimo e come colui che serve” (Lc 22, 26).

E ancora: “Nessuno ama di più l’amico di colui che dà la vita per esso” (Gv 15, 13).

 

 

 

 

 

 

 O tu che passi per via…

La pista di Taifet è semplicemente orribile.

Tutte le volte che l’ho potuto l’ho evitata con gioia. Preferivo allungare di qualche chilometro il tragitto passando per Ideles e Irafok piuttosto di transitare tra quelle gole impervie, bisognava farsi strada col piccone e la pala nei tratti rocciosi e sprofondare poi nella sabbia molle degli oued tortuosi e bizzarri che non finivano mai.

Ma quella volta non avevo avuto altra scelta e mi ero ingaggiato in essa raccogliendo tutto il coraggio di cui disponevo, che non era molto dopo una settimana di vento caldo del sud e la fatica di rilievi meteorologici diurni e notturni.

Il cielo era, come al solito, senza nubi, e implacabile il sole fin dal mattino. Ma non ci facevo caso: la mia preoccupazione, l’unica mia preoccupazione era il motore della jeep che dava segni di stanchezza e che non voleva più saperne di sradicare la macchina quando affondava nella sabbia fino al telaio.

Eppure bisognava avanzare. Chi sarebbe venuto ad aiutarmi su quella pista?

La sera prima, al pozzo di Tazrouk avevo caricato sì tutta l’acqua possibile, ma anche quella finita… e poi?

E poi, cosa avrei fatto in quella landa deserta, immagine della morte e del perpetuo silenzio?

Sì, tutte le mie speranze erano nel motore; quel motore che conoscevo così bene nel fremito e nelle voci e che non mi aveva mai tradito fino allora.

Ma ora? Sarei riuscito ad attraversare i ventidue chilometri dell’oued di Taifet così soffice nelle sue sabbie lucenti, così caldo nelle sue gole selvaggie?

Le nove… le dieci… le undici… , tra pause per lasciar raffreddare il motore e strappate fortunate su banchi di sabbia più compatta ero giunto finalmente in vista di Taifet, piccolissimo villaggio di ex schiavi sui bordi dell’oued omonimo.

Mi lanciai sulla pista deciso a vincere con la velocità la presa della sabbia che si faceva sempre più molle e insidiosa. Il caldo era soffocante e l’acqua bolliva nel radiatore.

In quelle condizioni non avrei certo fatto molta strada! Difatti, in un ultimo sforzo per sostenere l’andatura, il motore che ronzava a tutto gas, ebbe un gemito stroncato e si fermò.

Ero sprofondato nella sabbia.

Scesi dalla jeep ma ebbi paura di un colpo di sole.

Non mi sentivo di prendere la pala per liberare la macchiana dalla sabbia.

Cercai un po’ d’ombra.

Nell’oued, qua e là c’erano cespugli di etel. Mi diressi al più vicino e mi gettai aterra alla sua ombra.

Non so come, ma in quel momento mi tornò alla mente il profeta Giona seduto sotto l’ellera che lo riparava dal sole davanti a Ninive infuocata.

Ma ebbi poco tempo per considerazioni bibliche e mi addormentai subito.

*  *  *

Quando ripresi i sensi sentii attorno a me un parlare sommesso intercalato da risatine.

Ero immerso in un bagno di sudore e la testa mi faceva male.

Aprii gli occhi e vidi attorno a me gli uomini di Taifet che mi guardavano sorridendo.

Com’erano bianchi i loro denti e come brillava la loro pelle scura!

Erano forse una ventina e avevano interrotto il loro lavoro al mio arrivo.

Sotto l’etel vidi che avevano già preparato il fuoco per il the. Quella bevanda calda ed eccitante mi ristorò alquanto.

Mi invitarono a mangiare con loro il “couscous” ed io offrii tutto ciò che avevo sulla jeep.

Soprattutto il tabacco li rese loquaci e la siesta ebbe momenti di particolare gaiezza.

Ma fu così breve!

Era il lavoro che li attendeva e che lavoro!

Dovevano scavare nell’oued un canale sotterraneo, chiamato “fogara”, capace di raccogliere l’acqua di cui era imbibita la sabbia come una spugna e condurla ai campetti vicini dove il grano seminato e ormai adulto aveva una gran sete. Il solito temporale fuori tempo aveva distrutto la vecchia “fogara” e bisognava rifare il lavoro senza perdere tempo.

Una settimana di ritardo sarebbe bastata per compromettere tutto il raccolto, il che voleva dire fame per tutto l’anno.

Mi offrii a lavorare con essi per qualche giornata pur sapendo che il mio aiuto non era dei più validi.

Fu così che vissi per una settimana con uno dei più poveri gruppi umani che esisteva sulla terra.

Il lavoro cominciava all’alba e durava fino al tramonto.

Con rudimentali strumenti si scavava la galleria che correva a circa tre metri sotto il livello dell’oued in un materiale sabbioso, ma compatto. La sabbia scavata veniva spinta verso i pozzi che intercalavano la galleria e gettata fuori con l’aiuto di pale.

Chi lavorava nella galleria aveva il vantaggio di soffrire di meno il caldo, ma in posizione scomoda, chi lavorava fuori soffriva meno il mal di schiena, ma soffocava dal caldo. Nei due casi, si stava molto male e si sospiurava la sera, il cibo e il riposo.

La sera si magiava atorno ai fuochi e se fossero stati presenti gli studiosi americani di dietetica avrebbero fatto con facilità il calcolo delle calorie ingoiate e sempre al di sotto del minimo vitale. In compenso però si mangiavano cose rarissime per gusti e piatti europei.

La prima sera venne servito con un po’ di “couscous” un piatto di cavallette arrostite; il giorno dopo, alcuni topolini delle sabbie chiamati “gerboise” e per due altre volte pezzetti cotti di un lucertolone chiamato “dobb” molto gustoso e che conteneva – a detta dei Tuareg – ben quaranta medicamenti preziosi.

La notte, avvolto in una coperta, vicino alle capanne, guardavo il cielo lungamente prima di addormentarmi.

Quale rapporto poteva avere tutto quello scintillio di stelle con quella miseria, in cui ero piovuto; quella infinitezza della materia profusa nel cosmo senza limiti e l’indigenza mortale di quegli uomini?

Era il mistero del male, del dolore; il mistero degli uomini che muoiono di fame, che vivono abbrutiti da un lavoro disumano, condannati ad una vita  in cui la perpetua angoscia di trovare un po’ di pane avvelena la gioia del sogere del sole in ogni giornata.

Ma ero troppo stanco per pensare al perché Dio non interveniva, Lui così potente e così buono. Ripiegavo con facilità sugli “dei della terra”, sugli uomini che avrebbero potuto aiutarci con tanta facilità.

Che costa scrivere una lettera in Italia a tanti amici? Mi avrebbero subito mandato un “buldozer” per scavare la trincea in pochi giorni; mi avrebbero spedito con urgenza almeno dei grossi tubi di cemento per rendere la galleria stabile e sicura onde impedirne i crolli al primo scorrere dell’acqua nell’oued. Ed io restavo lì immobile a guardare le stelle!

Era giustificata questa mia inattività o almeno questa mia poco intelligenet attività?

A che cosa potevano servire queste mie povere braccia davati a tanto lavoro, questo mio vecchio cuore dinanzi a tanta fatica?

Non era meglio cercar dei mezzi e molti?

*  *  *

È questo il problema che mi son posto sovente, anzi così sovente da diventare una tentazione continua allo slancio della mia stessa vocazione.

Basta deflettere per un istante dal clima di fede nel quale cerco di vivere per vedere subito trionfare in me il “buon senso” umano.

Il buon senso dlla madre di frère Paul che non riusciva a capire l’inutile sacrificio del figlio sulle piste sahariane, il buon senso mio che cerca di convincermi che sarò più utile alla gente di Taifet portando qui qualche autocarro di materiale; il buon senso degli uomini che credono che coi soldi si può tutto risolvere e che la sofferenza è inutile spreco.

Ma c’è il buon senso del Vangelo? O c’è il mistero?

Forse che Gesù quando venne su questa terra, Lui, l’Onnipotente, Lui l’Amore, non poteva guarire tutti i malati, sfamare tutti i poveri, lenire tutte le piaghe, risuscitare tutti i morti?

Perché non l’ha fatto? Perché ha lasciato il mondo come l’ha trovato, bisognoso, sofferente, ingiusto, cattivo?

Ha risuscitato Lazzaro e la figlia di Giairo e il figlio della vedova di Naim è vero, ma solo per provare che non intendeva risuscitare tutti gli altri ed eran molti. Ne ha guariti sì parecchi, ma per lasciarli riammalare alla prima occasione non certo rara per l’uomo sulla terra.

No, le cose non sono così chiare come il buon senso umano le vorrebbe, e resta, piaccia o non piaccia, un grande e buio mistero che solo la fede mi può illuminare e illuminare con una luce che non è di questo mondo e che ha bisogno per essere utilizzata di occhi ben avvertiti e penetranti.

*  *  *

Il mistero è Gesù stesso. Ed è mistero non solo nella sua trascendenza divina, ma anche nel momento in cui si avvicina a noi con la sua Incarnazione. La perfezione di Dio, l’onnipotenza di Dio, l’amore infinito di Dio si sono fatti uomo nel Cristo che “abitò tra noi”.

Sempre, ma soprattutto in due momenti questo “abitare tra noi” sono veri nella loro sfolgorante bellezza: a Betlemme e sul Calvario.

A betlemme Dio diventa l’impotenza assoluta, sul Calvario diventa la sofferenza stessa.

Mai Gesù fu così uomo come in quelle due posizioni perché l’impotenza e il dolore sono le più cospicue eredità dell’uomo sulla terra come creatura e come peccatore.

C’è però una differenza sostanziale tra l’impotenza e la sofferenza dell’uomo e l’impotenza e sofferenza del Cristo: le prime sono d’obbligo, le seconde sono volontarie; le prime nella rivolta, le seconde nell’amore. Gesù si mette accanto all’uomo e gli insegna a vivere l’impotenza ed a sopportare la sofferenza con l’amore, nell’amore.

È quindi l’amore la grande finestra aperta sul mistero dell’una  e dell’altra eredità dell’uomo, e solo l’amore.

Accanto all’uomo immerso nella sua indigenza o soffocato dal suo dolore Gesù passa.

Aveva mille modi per aiutarlo, ma sceglie il più duro, il più radicale: imitarlo, mettersi al suo posto, somigliargli il più possibile. “In tutto si fece simile all’uomo meno che nel peccato“. Invece, accanto a Giobbe che si guarda le ulcere e piange sul letamaio della vita, gli amici teologi fanno delle discussioni e conversano sui “perché”.

Arrivano fino a giudicarlo e ad accusarlo: “Se tu soffri, è perché hai peccato” gli dicono, e lasciano il povero uomo nel pianto e con parole amare in bocca: “Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui si esclamò: È concepito un uomo“(Giobbe 3, 3).

È per questo che, per chi soffre, non basta la teologia. Bisogna fare qualche altra cosa.

*  *  *

Quando ero partito la prima volta per l’Africa per farmi piccolo fratello di Gesù, avevo vissuto qualche tempo ad Algeri ospite di un vecchio amico.

Avevo il cuore in tumulto in quei giorni e il mondo mi appariva sotto una luce nuova, che scaturiva a fiotti da quella intuizione nata nel cuore di colui che ora volevo seguire sulle piste del deserto: Carlo de Foucauld.

Vedevo tutto alla rovescia rispetto alla prospettiva dell’europeo, dotato di mezzi e di cultura, desideroso di dare, di fare qualcosa per gli altri.

Avrei voluto nascondermi senza portafoglio in tasca e vestito da arabo tra la folla anonima dei mussulmani poveri che brulicavano nelle viuzze della Kasba.

Mi ricordo che sul mezzogiorno avevo notato il formarsi di una lunga fila di straccioni accanto al marciapiedi di un caseggiato solido come una fortezza…

Ogni povero aveva la gavetta. Vidi aprirsi una porta e comparire una suora tutta bianca con le due grandi cornette bianche, e vicino una enorme marmitta fumante.

Era l’ora della distribuzione quotidiana dell’elemosina ed ogni povero partiva con una pagnotta e una minestra calda.

Io fissavo quella processione come allucinato e considerando quegli uomini e quelle donne segnate dalla miseria, le lacrime mi scendevano dagli occhi, velando la scena sotto il cielo luminoso della città africana.

Cercavo il mio posto in mezzo a tutta quella povertà.

Avevo abbandonato la mia patria spinto dal desiderio di svuotarmi per darmi al mio Dio, di cercare tra i poveri il volto crocifisso di Gesù, di fare qualcosa per i miei fratelli più derelitti e disprezzati, per trovare in essi e nell’amore per essi più rapidamente l’unione vitale con l’Eterno.

Che cosa dovevo fare dunque? Dovevo anch’io aprire dei dispensari e dare, dare pane e cultura e medicine a quella povera gente? Qual era il mio posto nella grande opera evangelizzatrice della Chiesa?

Cercai il posto di colui che mi aveva attirato in Africa, il Padre de Foucauld. Tutto piccolo, tutto umile con la gavetta in mano, lo trovai in fondo alla fila. Sorrideva con discrezione come se volesse scusarsi di essere anche lui lì ad imbrogliare il terreno ed a complicare le cose.

Indubbiamente, in quel momento, anche con tutta la mia paura di soffrire, con tutta la mia debolezza a sopportare il peso degli altri, il mio terrore a montare sulla croce, capivo che anche il mio posto era là e che avrei cercato di seguire la turba restando mescolato ad essa.

Altri nella Chiesa avrebbe avuto il compito di evangelizzare, costruire, sfamare, predicare: a me il Signore chiedeva di essere povero tra i poveri, operaio tra operai.

Sì, soprattutto operaio tra operai, dacché il mondo di oggi non era più il mondo in cerca di elemosina come al tempo di Francesco, ma il mondo in cerca di lavoro e di giustizia.

Il mondo verso il quale camminavo era il mondo in cui la povertà è espressa dal proletariato di tutte le razze e di tutti i popoli, per il quale il lavoro è il duro cilizio quotidiano in quanto lavoro non scelto e in più doloroso, sporco e mal retribuito.

*  *  *

Dopo una settimana trascorsa a Taifet, ripartii per Tamanrasset.

Sentivo che non avrei resistito più a lungo a quella fatica ed a quella indigenza. In questo ero più povero io  di quei poveri, perché non riuscivo a sopportare ciò che essi sopportavano da sempre.

Avevo bisogno di preghiera. Avevo sete di trovarmi solo nel mio eremitaggio dove Gesù era esposto giorno e notte per sfogarmi con Lui, supplicare Lui, perdermi in Lui.

Soprattutto volevo chiedergli di farmi più piccolo, più svuotato, più trasparente.

E rendermi capace di tornare a Taifet.

Sì, tornare a Taifet per vivere gli ultimi anni della mia vita. Avere una capannuccia “come loro”, un corredo ridotto ad una stuoia ed una coperta “come loro”, sulla sponda di quell’oued, a cui strappare un po’ d’acqua con quelle crudeli “fogare” che crollavano continuamente come se ridessero della nostra fatica!

Ma “più di loro” avere Gesù nell’Ostia, nascosto nella capanna per adorarlo, impetrarlo, amarlo e attingere da Lui la forza per non ribellarmi, per non maledire, per accettare amando la indigenza di ogni ora.

E così, fino al giorno in cui sulla sponda di quell’oued si sarebbe alzata una piccola croce di etel che come sentinella avrebbe vigilato sulla solitudine di quegli uomini in attesa che altri, altri, altri fossero venuti per amarli e aiutarli ad amare.

 

 

 

 La rivolta dei buoni

Ch’io abbia scelto l’ultimo posto come impegno vocazionale non significa proprio nulla: ciò che conta è sfrorzarmi di restar a quel posto, ogni giorno della mia vita.

E questo è terribilmente difficile!

C’è nel fondo del cuore umano un bubbone che cresce con l’andar degli anni: è il bubbone del vittimismo. Nessuno è esente da questo male; e solo molto tardi l’anima riesce ad individuarlo e, Dio voglia, ad estirparlo!

Il vittimismo è l’attegiamento classico dell’uomo rimasto al Vecchio Testamento e che invoca nei rapporti col prossimo la sola giustizia.

Guardiamo una famiglia qualunque. Sovente il peso della fatica è mal distribuito e grava in particolare su qualcuno dei membri; il più sovente sulla madre.

Per anni ed anni le spalle che portano quel peso si piegano allo sforzo; e, per quel sacrificio, il resto della piccola compagine riesce a marciare in pace.

Ma eccoti che sotto quelle spalle c’è un cuore; e in quel cuore, poco alla volta, il bubbone del vittimismo si sviluppa, cresce nelle lunghe, silenziose personali meditazioni.

Un giorno, un brutto giorno, o a causa di uno sforzo maggiore o per effetto di un colpo di spillo in profondo, il bubbone scoppia e spande nel corpo il suo sottile veleno!

– Basta, ora basta! Ho fatto finora la vostra serva, e non ve ne siete nemmeno accorti. Ho sacrificato la mia vita, mentre voi vi siete divertiti… ecc., ecc.

Quando le stesse cose capitano – e capitano – in una comunità religiosa o in un’associazione di pie persone, la tempesta è molto più grande; e sovente gli stessi muri dell’edificio corrono il pericolo di cadere sfasciati. È il momento dello scandalo; e il veleno diffuso è così forte che ha il potere di paralizzare la stessa carità.

Eppure dobbiamo dire che quella madre ha ragione. Sul filo della giustizia, dobbiamo ammettere che essa si è sacrificata per i suoi cari. Gli altri si sono concessi molte libertà; ella no: ha lavorato, accumulato, difeso, potenziato.

C’è poi una cosa più grave, quella che veramente fa soffrire: non è stata capita: si è passati accanto al suo sacrificio senza tenerne conto, ecc., ecc.

Ognuno di noi, a questo punto, può raccontare la sua storia; e – caso strano – ognuno di noi si sente sull’esatta posizione di quella madre, ognuno di noi si sente vittima di qualcuno o di qualcosa. Chi ha avuto una infanzia senza affetti, chi è stato mal ricompensato dall’ufficio, chi non è stato giustamente valutato nel passaggio di categoria, chi non è diventato ministro, chi è stato arrestato innocente, chi sente d’esser diventato tisico per lo starnuto di un vicino, chi non è stato capitto dal Vescovo, chi è stato obbligato a dare le dimissioni da presidente e chi è stato mandato in cucina invece di essere nominato superiore del convento.

Ma il caso più strano è che ciascuno di noi ha ragione e che ciò che ho detto è vero.

È difficile che nella lunga vita di un uomo, data la giungla in cui si è piombati, non si riceva da qualcuno uno sgarbo, un torto, una zampata o magari un colpo di rivoltella. Allora, sotto il peso di questo torto o stesi sul letto per il male che altri ci hanno procurato, incominciamo a gustare la delizia del vittimismo.

È un dolore insopportabile; ed è tanto più insopportabile in quanto non colpisce una parte di noi stessi, ma tutto il nostro essere fino nelle radici più profonde, fino ai rapporti con Dio, fino ai rapporti col prossimo.

Come posso amare, veramente amare il fratello che vive ogni giorno alle spalle della mia fatica e mi ripaga con la sua indifferenza e sovente col disprezzo? Come mi posso sentire a mio agio in un convento dove i miei simili non han tenuto conto della mia vera identità e non han capito i miei meriti? Come posso lavorare ancora con entusiasmo in un’impresa che ha promosso un inetto e relegato me nel nascondimento della monotonia quotidiana?

No, non è possibile; e di fatto non amo più, non posso più amare.

Ma non amare più, non poter più amare non è cosa da poco, una faccenda che mi lasci indifferente.

Amare, piaccia o non piaccia, è il fine della mia vita, è il perché della mia esistenza, è l’unica vera gioia a cui attingere senza mai saziarsi.

Difatti, da quando non amo più, la gioia se n’è andata da me, e la stessa pace è in gioico.

Nelle notti insonni sento il tarlo roditore che mi distrugge, sento il veleno che sale nei meandri dello spirito e mi paralizza. Provo a pregare; ma la stessa preghiera mi è diventata amara, vuota di senso.

Si direbbe che il cielo non mi risponde più. Al mio grido invocante giustizia il silenzio più assoluto ne è l’eco abissale. Si direbbe che qualcosa è cambiato lassù e che gli stessi canoni che reggevano l’antica legge non commuovono più il Dio giusto.

* * *

Sì, è proprio così. Il Dio della giustizia ha voltato per sempre la pagina della giustizia. Era bella, era vera, ma non era completa quella pagina; soprattutto non aveva l’esplosività di Dio. All’uomo finito nel vicolo cieco del peccato i canoni della giustizia e della verità erano incapaci di offrire salvezza. Ci voleva qualche altra cosa; ed era il segreto nascosto nei secoli in Dio.

E venne Gesù!

E i suoi non lo ricevettero. Non solo, ma lo spinsero fuori della sua dimora, come capro espiatorio, verso il deserto.

Tutta l’umanità gli fu addosso per colpire, sputare, odiare.

E Gesù, l’unico innocente, il vero innocente, piegò il capo sotto i colpi; non invocò la giustizia e pagò sulle sue carni e nel suo spirito il peccato di tutti.

Era da quell’istante e per sempre instaurata la legge del perdono, della misericordia, dell’amore che va al di là della giustizia.

Dopo l’episodio del Calvario, la pace sarebbe passata non più nel rasoio della verità o nel tribunale della legge, ma nel cuore squarciato di un Dio che s’era fatto per noi «peccato» in Cristo Gesù.

Era finita l’epoca del vittimismo e incominciava, con Gesù, la dinastia della «vittima».

La vera vittima, silenziosa vittima, vittima che si paragona all’agnello, vittima che accetta di essere vittima e che distrugge nel fuoco del suo amore gli sterpi dell’ingiustizia.

«Dio ama l’ilare donatore» dirà S. Paolo; e la vittima è l’ilare donatore.

Dio sarà l’ilare donatore nel suo Cristo; il suo dono sarà irreversibile; perdonerà, e per sempre, tutti i peccati; rifarà la verginità perduta, ridarà vita alle ossa stanche del peccatore, trasformerà una prostituta in Maria Maddalena e un gaudente qualsiasi in S. Francesco. La vita trionferà sulla morte e la primavera troverà forza e bellezza dallo stesso letame della terra.

«Io ho vinto il mondo» griderà il Cristo nel suo sacrificio; e la gioia tornerà a fiorire nel nostro cuore angosciato.

* * *

Sì, al di là della giustizia anche per me.

Per vincere la cancrena del vittimismo debbo andare al di là di questa aspra montagna. Come Gesù, ad imitazione di Gesù, debbo risalire faticosamente il versante del mio dolore e gettarmi con coraggio nella discesa verso i fratelli, tutti i fratelli, e in primo luogo verso coloro che la miopia dei miei occhi malati vede come causa dei miei mali.

Non c’è altra soluzione. È il sine qua non della vera pace e dell’intimità con Gesù.

Finché perdo tempo a difendermi, non concludo nulla e resto fuori dal vero cristianesimo, cioè dalla conoscenza profonda del Cuore di Gesù. Non debbo nemmeno più elencare le mie ragioni, perché dinanzi a me troverò sempre un fratello che elencherà le sue; e la dialettica andrà all’infinito.

Perdonare, veramente perdonare significa, in fondo, convincersi che il male che ci han fatto ce lo meritavamo. Più ancora: che è bene soffrire in silenzio. Più ancora: che è riservata la beatitudine a coloro che sono perseguitati a causa della giustizia, come insegnò Gesù; e che è stolto perdere la preziosità di simili istanti per un po’ di vanità o di orgoglio umano.

Che cosa direbbe l’umanità se, seguendo Gesù sul Calvario, lo vedesse improvvisamente voltarsi adirato verso un uomo che gli ha datop un calcio e gridargli: «Sai chi sono io?».

No. Gesù non s’è voltato, per difendersi, verso coloro che lo insultavano; non ha gridato i suoi meriti o la sua identità alla folla che lo crocifiggeva; soprattutto non li ha odiati interiormente, pensando che li avrebbe condannati all’inferno quanto prima.

La novità dell’amore di Gesù sta tutta qui; ed Egli l’aveva così ben insegnato e Luca così ben raccolto.

«Ma a voi che ascoltate dico: Amate i vostri nemici, fate del bene a coloro che vi odiano; benedite coloro che vi maledicono, pregate per coloro che vi calunniano. A chi ti percuote su di una guancia, porgi anche l’altra; e a chi ti prende il mantello, non impedire di toglierti la tunica» (Lc 6, 27ss).

È inconfondibile lo spirito di Gesù, è talmente unico!

E Paolo, che fu senza dubbio il migliore interprete di tale spirito, nel profondo del cuore di Cristo, quando vorrà dare la linea programmatica della posizione del cristiano dinanzi a Dio e al mondo, dirà nella lettera ai Filippesi: «Abbiate in voi quel sentire che era in Gesù, il quale, sussistendo in natura di Dio, non considerò questa sua uguaglianza con Dio come una rapina, ma vuotò se stesso assumendo la forma di schiavo e, facendosi simile all’uomo, umiliò se stesso fattosi ubbidiente sino al punto di morire su una croce» (Fil 2, 5).

Qui sta il sunto di tutte le virtù e di tutte le perfezioni.

«Abbiate in voi il sentire di Gesù».

Questo «sentire di Gesù», questa sua «sete di abbassarsi» per obbedire al Padre e per salvare l’uomo, resterà per sempre il capolavoro dell’amore del Cristo.

Ecco perché non è sufficiente la verità e la giustizia; ecco perché siamo invitati ad andare oltre.

Più avremo in noi questa «spinta verso il basso ad imitazione di Gesù», più l’umiltà regnerà nel nostro cuore e la pace inonderà la nostra vita.

In fondo, in queste poche righe c’è in gioco la santità dell’uomo sulla terra.

 

 

 

 

 Il Dio dell’impossibile

Un incidente in pieno deserto mi ha paralizzato una gamba. Quando è arrivato il medico – otto giorni dopo – era troppo tardi e forse resterò zoppo per tutta la vita.

Steso su una stuoia, in una cella d’un vecchio fortino sahariano, considero le macchie del tempo sul muro di fango intonacato a calce dai soldati della legione straniera.

I 45 gradi di calore rendono difficile ogni ragionamento. Preferisco pregare; ma anche pregare non è facile in certi momenti.

Taccio e cerco di portarmi coll’anima al di là del muro, nella piccola Kuba di stile arabo dove so che c’è l’Eucarestia.

I fratelli sono lontani al lavoro, chi nei campi, chi nell’officina.

La gamba mi duole terribilmente e debbo farmi coraggio, per non disperdere i pensieri nel vuoto.

Mi ricordo bene una frase che ci diceva Pio XI durante l’udienza: «Che fa Gesù nell’Eucaristia?»  e attendeva da noi studenti la risposta.

Ancora oggi dopo tanti anni non saprei cosa rispondere.

Che cosa fa Gesù nell’Eucaristia?

Eppure quante volte ci ho pensato su.

E Gesù non solo una gamba, ma tutt’e due ha immobilizzate nell’Eucaristia e in più le mani. È ridotto a un po’ di pane bianco.

Il mondo ha tanto bisogno di Lui e Lui non parla. Gli uomini hanno tanto bisogno di Lui e Lui non si muove!

L’Eucaristia è davvero il silenzio di Dio, la debolezza di Dio.

Ridursi a pane, ridursi a silenzio mentre il ritmo del mondo è così chiassoso, così convulso, così possente.

Si direbbe che il mondo e l’Eucaristia marciano in senso inverso.

E si allontanano l’un l’altro quasi all’infinito.

Occorre essere coraggiosi per non lasciarsi portare dalla marcia del mondo, occorre della fede e della volontà per andare contro corrente verso l’Eucaristia, per fermarsi, per tacere, per adorare.

Ed è necessario una fede ben pura per credere all’impotenza, alla sconfitta dell’Eucaristia che è oggi ciò che fu ieri l’impotenza e la sconfitta del Calvario.

Eppure, questo Gesù impotente, inchiodato, annientato è il Dio dell’impossibile, è l’alfa e l’omega, il principio e la fine e, come lo descrive Giovanni nell’Apocalisse, «il fedele e verace che con giustizia giudica e guerreggia. I suoi occhi sono come fiamma di fuoco e sul suo capo stan molti diademi. Ed è ravvolto in un manto tinto di sangue e si chiama il nome di Lui ‘Verbo di Dio’. E gli eserciti che sono nel Cielo lo seguono su cavalli bianchi, vestiti i bisso bianco e puro. E dalla sua bocca esce una spada affilata perché con essa percuota le genti e le governi con bastoni di ferro. Ed egli stesso pigia nel tino il vino dell’ardente collera di Dio onnipotente. E sul manto e sulla coscia un nome scritto ‘Re dei re e Signore dei signori’» (Ap. 19, 11ss).

Gesù è il Dio dell’impossibile e l’impossibile è una caratteristica di Dio.

E la mia impotenza mette in evidenza la sua potenza, la mia piccolezza di creatura il suo Essere creatore.

Già davanti a Giobbe, pensoso e in polemica con Lui perché ridotto all’impotenza e all’abiezione, Dio chiedeva un atto di confidenza appellandosi, per ottenerlo, alla grandezza della creazione.

“Ov’eri tu quand’io gettavo i fondamenti della terra?

Chi fissò le sue dimensioni che tu sappia?

Ovvero chi stese sovr’essa la livella?

Su che cosa stanno infisse le sue basi e chi gettò la sua pietra angolare mente m’innalzavano lodi in coro gli astri del mattino?” (Gb 38).

A me oggi più di questo famoso discorso sulla potenza del Creatore e sull’assoluta impotenza della creatura a dare qualche consiglio a Dio, fa effetto un detto di Gesù nel Vangelo:

“È più facile che un cammello passi per la cruna di un ago che un ricco entri nel regno dei cieli” (Mt 19,23).

Mi ritorna alla mente questa espressione di Gesù tutte le volte che vedo sulla pista un cammello e mi vien da sorridere.

Avesse detto “un cavallo, un bue…”, no: un cammello, con tutta quella gobba!

Sì, veramente è impossibile farla transitare per la cruna di un ago.

Creare il firmamento è certamente un segno di grande potenza, ma far passare un cammello nella cruna di un ago mi sembra più grande ancora: qui sta veramente l’impossibilità.

Difatti agli apostoli attoniti e perplessi che esclamarono: “Allora è impossibile salvarsi”, Gesù rispose tranquillamente: “Ma ciò che è impossibile all’uomo è possibile a Dio”.

“A te tutto è possibile”, dirà Gesù al Padre nella preghiera del Getsemani. L’onnipotenza è davvero l’attributo di Dio.

***

Al contrario, c’è una cosa ch’è veramente mia: la piccolezza, la debolezza, la miseria, l’impotenza.

E ne ho in sì gran copia che è impossibile che non serva qualcosa.

Occorre pensarci, occorre sfruttare questo immenso capitale. Possibile che l’onda di fango, chiamato peccato, che ha invaso il mondo quasi all’origine dell’uomo e che prende in certi istantiproporzioni sì gigantesche e spaventose, sia materiale inutilizzato dall’onnipotenza di Dio?

Possibile che la debolezza nelle sue forme così generali di stanchezza, vecchiaia, malattia, incapacità, errore, morte sia solo qualcosa che mi schiaccia senza avere in sé qualche potere nascosto?

I detriti del mondo non servono più a nulla?

Il male resterà una sconfitta di Dio Amore?

Quando penso ai miei esami di coscienza serali li vedo come elencazione di cose non fatte o fatte male che il sunto di cose positive.

E anche ammettendo, per un momento, un certo equilibrio raggiunto dalla mia anima, una esclusione positiva dell’offesa volontaria a Dio, nulla mi dà più il senso della mia infinita piccolezza e miseria che la constatazione tremenda della mia impossibilità a dilatare il mio amore.

Mi ritorna sempre il ricordo bruciante della coperta negata a Kadà e la sensazione quasi fisica di essere incapace di fare un atto di amore perfetto.

La stessa cosa l’ho provata nella preghiera.

Abbandonato a me stesso con le mie sole forze, ho sentito fino allo spasimo la realtà che, senza l’aiuto di Dio, non possiamo nemmeno dire una sola volta “Abba, Padre”.

Ci sono degli istanti in cui Dio ci conduce sull’estremo limite della nostra impotenza ed è allora e solo allora che comprendiamo fino in fondo il nostro nulla.

Per tanti anni, per troppi anni, mi son battuto contro la mia impotenza, contro la mia debolezza. Il più sovente l’ho nascosta preferendo apparire in pubblico con una bella maschera di sicurezza.

È l’orgoglio che non vuole l’impotenza, è la superbia che non accetta di essere piccolo; e Dio, poco alla volta me lo ha fatto capire.

Ora non mi batto più, cerco di accettarmi, di considerare la mia realtà senza veli, senza sogni, senza romanzi.

È un passo innanzi, credo; e se l’avessi fatto subito, quando imparavo a memoria il catechismo, avrei guadagnato quarant’anni.

Ora, l’impotenza mia la metto tutta in faccia all’onnipotenza di Dio: il cumulo dei miei peccati sotto il sole della sua misericordia, l’abisso della mia piccolezza in verticale sotto l’abisso della sua grandezza.

E mi pare essere giunto il momento di un incontro con Lui mai conosciuto fino ad ora, uno stare assieme come mai avevo provato, uno spandersi del suo amore come mai avevo sentito. Sì, è proprio la mia miseria che attira la sua potenza, le mie piaghe che lo chiamano urlando, il mio nulla che fa precipitare a cateratte su di me il suo Tutto.

E in questo incontro tra il Tutto di Dio e il nulla dell’uomo sta la meraviglia più grande del creato.

È lo sposalizio più bello perché fatto da un Amore gratuito che si dona e da un Amore gratuito che accetta.

È, in fondo, tutta la verità di Dio e dell’uomo.

E l’accettazione di questa verità è dovuta all’umiltà ed è per questo che senza umiltà non c’è verità e senza verità non c’è umiltà.

«Respexit humilitatem ancillae suae», disse Maria quando vide precipitare sul suo nulla l’amore sostanziale di Dio e sentì che le sue carni divenivano dimora e nutrimento del Verbo Incarnato.

Quale meraviglia il Nulla di Maria attirare il Tutto di Dio.

Quale dolcezza nella sua preghiera, avendo essa totale la consapevolezza di trovarsi al polo estremo di Dio, là dove l’esser piccoli diventa non solo un’accettazione, ma è una esigenza d’amore.

Quale pace nell’abbandono totale di sé a “Lui” senza ritorni “egocentrici”, senza movimenti “introversi”, ma rapita in un solo radicale, saporoso sguardo contemplativo sulla grandezza e perfezioni dell’Amato.

Non esiste rapporto più perfetto, e Maria inaugura su un’altezza vertiginosa, irraggiungibile da noi, ma per noi esemplare, lo stap più assorbente dell’anima religiosa sotto la rugiada di Dio.

***

Mi par così d’aver trovato, dopo tanti anni, la soluzione del problema, di tutto il problema di quaggiù.

Ho toccato con mano la mia radicale impotenza e questo fu grazia.

Ho contemplato nella fede, nella speranza e nella carità, l’onnipotenza di Dio e anche questo fu grazia.

Dio può tutto, io non posso nulla. Ma se metto questo nulla a contatto orante, amoroso di Dio, il tutto diventa possibile in me.

Ritorno con la memoria sotto la grande pietra schiacciato dal mio egoismo, chiuso nel mio purgatorio per aver negata la coperta a Kadà.

È cosa certa: in me sento la totale incapacità a compiere l’atto di amore perfetto, a seguire Gesù sul Calvario ed a morire con Lui in croce.

Potremmo trascorrere millenni e millenni e la mia situazione non cambierà.

Però… Però ciò che è impossibile a me, perché sono ricco del Vangelo, è possibile a Dio!

E sarà Lui a darmi la grazia di trasformarmi e rendermi atto a compiere l’impossibile e a rovesciare la pietra che mi separa dal Regno.

È quindi questione di attesa, di preghiera umile e confidente, di paziente esercizio, di speranza.

Ma il Dio dell’impossibile non mancherà all’appello del mio amore.

 

 

 

 

 La notte amica

Quando venni nel Sahara, cinque anni fa, non amavo la notte. Essa era in me troppo legata al modo di vivere europeo, che non è certo il migliore e soprattutto è il meno adatto a farci conservare la calma e i nervi distesi.

Notte significa, per molti, fatica da aggiungere a quella del giorno; per altri dissipazione, per altri ancora insonnia, noia e cose del genere: il tutto sotto la grande insegna estenuante delle luci artificiali.

Qui è tutt’altra cosa.

La notte è innanzitutto riposo, vero riposo. Al tramontar del sole la natura si placa, si distende come sotto l’azione di un improvviso cenno divino.

Il vento che ci ha accompagnato col suo urlo e la sua rabbia quasi tutto il giorno, cessa, il caldo si mitiga, l’atmosfera si fa chiara e tersa, e ovunque si stende una grande pace, come se elementi e uomini volessero rifarsi dopo la gran battaglia del giorno e del sole.

Sì, la notte quaggiù è un’altra cosa; non ha perduto la sua verginità, il suo mistero: è rimasta come Dio l’ha fatta, creatura sua, apportatrice di bene e di vita.

Finito il lavoro, fermata la carovana, ti stendi sulla sabbia con una coperta sotto il capo e resti così a respirare lungamente e saporosamente la brezza che ha preso il posto di quel nemico, arido e infuocato vento del giorno.

Poi ti allontani dall’accampamento e vai sulle dune per la preghiera. Il tempo passa non turbato dalla fretta né dall’orologio. Nessun impegno ti assilla, nessun rumore ti disturba, nessun importuno ti attende; il tempo è tutto tuo. Ti sazi così di preghiera e di silenzio mentre nel cielo si accendono le stelle.

Chi non ha visto non può credere ciò che sono le stelle per il deserto! Sarà anche la mancanza assoluta di luci artificiali e la vastità immensa dell’orizzonte ad aumentarne il numero e il fulgore: è certo che è uno spettacolo impressionante.

Solo il fuocherello dell’accampamento sul quale bolle l’acqua per il the e sotto il quale cuoce il pane per la cena s’inquadra con una luce discreta e guizzante in tutto quello scintillio di cielo.

Mi sono bastate le prime notti vissute quaggiù per chiedere d’urgenza libri di astronomia e carte del cielo; e per mesi e mesi ho occupato il mio tempo libero a rendermi un tantino conto di ciò che mi transitava sul capo lassù, nelle profondità abissali del cosmo.

***

Tutto fu elemento di gioia e materia per la mia preghiera d’adorazione.

Inginocchiato sulla sabbia ho sprofondato per ore e ore gli occhi in quelle meraviglie, segnando come un fanciullo le nuove scoperte sul taccuino.

Ho capito ad esempio, che l’orientamento nel deserto, è molto più facile la notte che il giorno, che i punti di riferimento sono infinitamente più numerosi e sicuri.

In cinque anni, di cui quattro in pieno deserto, per motivo di lavoro, non mi sono mai smarrito, grazie alle stelle.

Quante volte alla ricerca di un accampamento Tuareg o di una stazione meteorologica sperduta, la luce del giorno, il vento di sabbia, il sole troppo alto mi facevano smarrire la pista.

Ebbene: attendevo la notte, e la strada perduta era ritrovata sull’orientamento preciso delle stelle.

La notte Sahariana, con suo firmamento, non è solo un fantastico quadrante di orientamento, ma è anche una dimora riposante per l’anima.

Dopo la giornata – con tutta quella luce – l’anima è ridotta a una casa con finestre senza gelosie, scardinate dal vento o bruciate dal sole.

Ma la notte!

A poco a poco le finestre dell’anima sono di nuovo sistemate, rinchiuse; megli, socchiuse dal buio; e gli occhi spalancati attraverso quelle fessure possono, senza sforzo e tensione, fissere pacatamente le cose attorno.

No; non dimenticherò mai le notti sotto le stelle del Sahara. Mi sento un punto fasciato dal buio amico trapuntato di stelle.

Sì; un buio amico, una oscurità affettuosa, tenebre riposanti, necessarie, vitali.

In esse la mia attività interiore non viene mortificata, ridotta; ma, al contrario, può distendersi, realizzarsi, accrescersi, gioire.

Mi sento come in casa, al sicuro, senza paura, fasciato da questa fedeltà amorosa della notte amica, desideroso solo di restare così per ore e ore, preoccupato solo della sua brevità e avido di leggere inme e fuori di me quei caratteri e quei simboli di un linguagio divino.

***

La notte amica è un’immagine della fede, cioè di quel dono di Dio definito da San Paolo «Realtà delle cose sperate e convincimento delle cose che non si vedono» (Ebr 11, 1).

Mai ho trovato un paragone più adeguato al mio rapporto con l’Eterno: un punto perduto nello spazio infinito, avvolto dalla notte fonda sotto la luce discreta delle stell.

Questo punto sperduto nello spazio sono io; il buio necessario, amico insostituibile, la fede; le stelle, la testimonianza di Dio.

Quando la mia fede era debole, non provata dallo sforzo né dall’esperienza religiosa, mi poteva apparire incomprensibile, quasi paurosa come la notte per il bimbo. Ma ora che l’ho conquistata, che è mia, provo gioia a vivere in essa, a navigare in essa come sul mare; non la sento più nemica, non mi fa più paura; anzi, mi dà gioia, proprio per la sua oscurità e trascendenza divina.

A volte amo perfino chiudere gli occhi per vedere più buio. Tanto, lo so che le stelle sono là, al loro posto, al giusto posto a testimoniarmi il cielo; ed io per poco tempo posso gustare il perché sia necessario il buio.

Necessario il buio, necessaria l’oscurità della fede per non essere feriti dalla troppa luce di Dio.

Per la mia natura d’uomo, non c’è altra possibilità e comprendo sempre più che la fede non è una misteriosa e crudele astuzia di un Dio che si nasconde senza dirmi il perché, ma è un velo necessario e insostituibile perché la mia scoperta di Lui avvenga gradualmente rispettando le tappe dello sviluppo della vita divina in me.

«Nessuno può vedere Dio senza morire» dice la Scrittura nel senso che il vederlo faccia a faccia è solo una possibilità per coloro che sono passati attraverso lo stadio della morte.

Per lo stadio terreno – che è il primo – tale è la luce, tale l’infinitezza del mistero e tale è l’inadeguatezza della natura umana, che debbo penetrarlo poco alla volta. Prima attraverso i simboli, poi nell’esperienza, poi nella contemplazione che mi può essere anticipata su questa terra se resto fedele all’amore di Dio.

Ma sarà solo un inizio, un abituare gli occhi dell’anima a sopportare tanta luce; ma il processo continuerà senza fine; e sempre rimarrà il mistero tanto ci sovrasta l’infinitezza di Dio.

In fondo, che cos’è la nostra vita quaggiù se non lo scoprire, il prendere coscienza, il penetrare, il contemplare, l’accettare, l’amare questo mistero di Dio, unica realtà che ci circonda e nella quale siamo immersi come meteoriti nel cosmo senza fine? «In Deo vivimus movemur et sumus!» (Atti 17, 28). Non ci sono molti misteri; ce n’è uno solo da cui tutto dipende e da cui non si può sfuggire, ma è talmente immenso da riempire tutto lo spazio.

Le scoperte umane non spostano di un dito il problema: i millenni che passeranno non scriveranno nulla di più di ciò che diceva già Isaia con la sua potente espresione sul «Deus absconditus» e Dio stesso dichiarava a Mosè in adorazione dinanzi al roveto ardente: «Ego sum qui sum» (Es 3, 14).

Forse il cielo era meno oscuro per Abramo e per gli uomini della tenda che per l’uomo moderno; e la fede era più facile per i poeti medioevali che per i tecnici di oggi; ma la situazione è la stessa e il rapporto con Dio è identico.

Capita forse all’umanità intera ciò che capita all’uomo singolo, al quale, più avanza verso la maturità, più è richiesta una fede nuda di sentimento e spoglia di poesia. Ma la via rimane la stessa fino all’ultimo uomo che nascerà su questa terra. «Questa è la vittoria che vince il mondo: la fede» (1Gv 5,4).

Dio chiede all’uomo un atto di confidenza in Lui; e questo atto è la vera, l’autentica sottomissione della creatura al Creatore, un atto di umiltà, d’amore.

Questo «confidare in Dio», questo «far credito all’Onnipotente», questo appagare la nostra sete di sapere nell’infinito mare della sua paternità, questo accettare il suo misterioso piano, questo entrare alla scuola per ascoltare la sua Parola, questo «saper attendere» è l’atto di adorazione degno dell’uomo su questa terra.

Ma se per orgoglio non vogliamo metterci sul sentiero della fede e voltiamo le spalle alla realtà divina e chiudiamo gli occhi dinanzi alla testimonianza delle stelle, che cosa risolviamo noi? Aumenta forse la nostra conoscenza del mistero? Troviamo altrove più luce alla nostra notte? In fondo che cosa sappiamo noi?

Senza giungere a parlare di Dio e della Incarnazione del Verbo e dell’Eucaristia, che cosa sappiamo noi dello stesso mondo fisico che ci circonda? Di ciò che capita dopo la nostra morte? Del dolore degli animali e del destino delle cose? Di ciò che capita su Andromeda e di ciò che avviene alla gazzella che muore?

Ciò che sappiamo è poco più di nulla; e quel poco che sappiamo è tutto instabile e relativo, se non veniamo a scoprire le cause prime.

Un senso di sgomento dovrebbe coglierci ad ogni scoperta, che è là per dirci: «Solo oggi arrivi?».

Come rimane vera e preziosa la raccomandazione di Gesù: «Se non vi farete piccoli… non entrerete…».

* * *

Ciò che ho cercato di dire sulla fede vale per tutti; nessuno può sfuggire a questa realtà che è un dono di Dio, ma che ha bisogno, per realizzarsi, del nostro sforzo.

Dio ci dà la barca e i remi, ma poi ci dice: «tocca a te remare». Fare «atti positivi di fede» è come allenare questa facoltà; e l’allenamento sviluppa la facoltà come la ginnastica il muscolo.

Davide sviluppò la sua fede accettando di battersi con Golia, Gedeone si esercitò nella fede non solo domamdando al Signore la prova del vello sotto la rugiada della notte, ma andando alla battaglia con pochi soldati contro un nemico più forte.

Abramo diventò un gigante della fede accettando fino all’estremo limite il buio di una obbedienza che gli chiedeva il sacrificio del figlio.

S. Paolo dirà nella lettera agli Ebrei: «Nella fede i nostri Padri ricevettero buona testimonianza» e continua «per la fede molti furono messi alla tortura, non accettando la liberazione per ottenere una risurrezione migliore; altri ebbero a provare scherni e sferze e anche ceppi e prigione; furono lapidati, sottoposti a dure prove, segati; morirono di spada, andarono in giro in pelle di capra, mancanti in tutto, perseguitati, maltrattati. Di essi non era degno il mondo e andarono errando per i deserti e i monti e le caverne e le spelonche e le grotte della terra» (Eb 11,2ss).

Ma su tutti gli uomini e tutte le donne, che vissero di fede, due creature giganteggiano, raggiungendo una maturità quasi sovrumana.

Esse sono poste sullo spartiacque del Vecchio e del Nuovo Testamento e chiamate da Dio ad una vocazione talmente unica e grandiosa che fa restare il cielo in sospeso ad attendere la loro risposta: Maria e Giuseppe.

Maria deve divenire la Madre del Verbo, deve dare carne e ossa al Figlio di Dio; e Giuseppe deve velare il mistero mettendosi accanto a Lei, per far credere a tutti che Gesù sia suo figlio.

Per queste due creature la notte della fede non fu solo buia; fu dolorosa.

Un giorno Giuseppe, fidanzato a Maria, s’accorge che Ella deve dare alla luce un figlio e sa che quel figlio non è suo.

Ci sono parole capaci di convincere un fidanzato che il mistero di quella nascita è dovuto nientemeno che alla paternità di Dio?

Nessun ragionamento poteva dar pace e serenità a Giuseppe. Solo la fede; ma essa era così buia da obbligare l’anima ad altezze vertiginose.

E sarà proprio questa fede nuda e dolorosa a sostenere questo gigante, a metterlo accanto alla Madre di Dio, ad accompagnarla nel suo destino, a partecipare in pieno alla sua missione.

Oh, non sarà facile mettersi sulla scia d’un uomo destinato a soffrire e sposo di una donna che sarà chiamata madre dei dolori.

Il Bimbo è nato.

Qualche Angelo è venuto, sì, a fugare un po’ di tutto quel buio; ma subito il cielo si richiude su un buio più grande ancora; i bimbi d’un intero villaggio sono trucidati a causa del loro bimbo; e Giuseppe e Maria, fuggendo, sentono il pianto e l’ululato dele donne di Betlemme.

Perché? Perché l’Onnipotente tace? Perché non uccide Erode? No; bisogna vivere di fede. Fuggire in Egitto, divenire esuli e profughi, lasciar trionfare la crudeltà e l’ingiustizia. E così fino alla fine.

Dio non ha facilitato la via a coloro che ha messo accanto a Suo Figlio; ha chiesto loro una fede così pura e così tagliente che solo due anime d’una umiltà così abissale potevano sostenere.

Quale avventura vivere per trent’anni in una casa dove vive Dio nelle carni d’un uomo terreno, mangiare con Lui, sentirlo parlare, vederlo dormire, scorgere sul suo volto il sudore e sulle mani i calli della fatica!

E il tutto con semplicità, come cosa normale, di ogni giorno: così normale da perderlo in un pellegrinaggio, come può capitare ad ogni altra famiglia; così normale che nessuno, nessuno svelerà il mistero, nessuno s’accorgerà che il figlio del fabbro era il figlio di Dio, il Verbo fatto carne, il nuovo Adamo, il Cielo in terra.

Dio mio, quale grandezza di fede!

Maria, Giuseppe, voi siete davvero e per sempre i maestri della fede, gli esemplari perfetti a cui ispirare le nostre azioni, correggere la nostra rotta, sorreggere la nostra debolezza.

Come allora accanto a Gesù, siate ancora accanto a noi per accompagnarci verso l’Eterno, per insegnarci ad essere piccoli e poveri nel nostro lavoro, pazienti nell’esilio, umili e nascosti nella vita, coraggiosi nelle prove, fedeli nella preghiera, ardenti nell’amore.

E quando verrà l’ora della nostra morte, cioè spunterà l’aurora sulla nostra notte amica, possano i nostri occhi, fissando il cielo, scorgere la stessa stella che fu sul vostro cielo quando Gesù venne su questa terra.

 

Francesco intervistato dall’agenzia argentina Telam

stamattina
20 giugno 2022

INTERVISTA INTEGRALE A FRANCESCO

di Bernarda Llorente, agenzia Telam (Argentina)
Fuori, il caldo torrido non sembra scoraggiare le migliaia di turisti che, in pieno sole, si dividono in lunghe file per entrare in Vaticano. A pochi metri da lì, a Santa Marta, il suo intenso programma si sta realizzando passo dopo passo. Alcuni movimenti sembrano annunciare che sta per arrivare. Francesco, Sua Santità, il Papa argentino, uno dei leader che oggi detta l’agenda sociale e politica del mondo, cammina con un sorriso radioso. Sembra essersi ripreso. Consapevole di tutte le trasformazioni attuate durante i suoi nove anni di pontificato e con uno sguardo lungimirante sul futuro dell’umanità, della fede e del bisogno di nuove risposte. Mentre entriamo insieme nella stanza dove tutto è pronto per l’intervista con l’agenzia stampa internazionale Télam, che durerà un’ora e mezza, so che questo 20 giugno sto vivendo un momento eccezionale e unico.
D
Francesco, lei è stato una delle voci più importanti in un periodo di grande solitudine e paura nel mondo durante la pandemia. Ha saputo descriverlo come i limiti di un mondo in crisi in campo economico, sociale e politico. E in quell’occasione ha detto una frase: “Da una crisi non si esce mai uguali, si esce migliori o peggiori”. Come pensa che ne stiamo uscendo? Dove siamo diretti?
R
Non mi sta piacendo. In alcuni settori c’è stata una crescita, ma in generale non mi piace perché è diventata selettiva. Guarda, il fatto stesso che l’Africa non abbia i vaccini o abbia le dosi minime significa che la salvezza della malattia è stata dosata anche in base ad altri interessi. Il fatto che l’Africa abbia così tanto bisogno di vaccini indica che qualcosa non ha funzionato. Quando dico che non si esce mai uguali, è perché la crisi inevitabilmente ti cambia. Inoltre, le crisi sono momenti della vita in cui si compie un passo avanti. C’è la crisi dell’adolescenza, quella della maggiore età, quella dei quarant’anni. La vita segna le tappe con le crisi. Perché la crisi ti mette in movimento, ti fa ballare. E bisogna saperle affrontare, perché se non lo fai, le trasformi in conflitto. E il conflitto è qualcosa di chiuso, cerca la soluzione al suo interno e si autodistrugge. Invece, la crisi è necessariamente aperta, ti fa crescere. Una delle cose più serie della vita è saper vivere una crisi, non con amarezza. Ebbene, come abbiamo vissuto la crisi? Ognuno ha fatto quello che ha potuto. Ci sono stati degli eroi, posso parlare di quelli che ho avuto più vicini qui: medici, infermieri, infermiere, sacerdoti, suore, laici, laiche che hanno davvero dato la vita. Alcuni sono morti. Credo che in Italia ne siano morti più di sessanta. Dare la vita per gli altri è una delle cose emerse in questa crisi. Anche i sacerdoti si sono comportati bene, in generale, perché le chiese erano chiuse, ma hanno telefonato alla gente. C’erano giovani sacerdoti che chiedevano agli anziani di che cosa avessero bisogno al mercato e facevano la spesa per loro. Cioè, le crisi ti costringono a essere solidale perché tutti sono in crisi. Ed è lì che si cresce.
Molti pensavano che la pandemia avesse posto dei limiti: all’estrema disuguaglianza, alla noncuranza verso il riscaldamento globale, all’individualismo esacerbato, al malfunzionamento dei sistemi politici e di rappresentanza. Tuttavia, ci sono settori che insistono nel ricostruire le condizioni pre-pandemiche.
Non possiamo tornare alla falsa sicurezza delle strutture politiche ed economiche che avevamo prima. Così come dico che non si esce dalla crisi uguali, ma si esce migliori o peggiori, dico anche che dalla crisi non si esce da soli. O ne usciamo tutti o nessuno. La presunzione che un singolo gruppo possa uscire dalla crisi sul momento ti può dare una salvezza, ma è una salvezza parziale, economica, politica o di alcuni settori del potere. Ma non se ne esce completamente. Resti imprigionato dalla scelta di potere che hai fatto. Ad esempio, l’hai trasformata in un affare o ti sei rafforzato culturalmente durante la crisi? Usare la crisi a proprio vantaggio significa uscirne male e, soprattutto, uscirne da soli. Dalla crisi non si esce da soli, si esce correndo rischi e prendendo l’altro per mano. Se non lo fai, non puoi uscirne. Quindi, questo è l’aspetto sociale della crisi. È una crisi di civiltà. E si dà il caso che anche la natura sia in crisi. Ricordo che qualche anno fa ho ricevuto diversi capi di governo e capi di Stato dei Paesi polinesiani. E uno di loro ha detto: “Il nostro Paese sta pensando di comprare terre a Samoa, perché tra 25 anni forse non esisteremo più perché il mare si sta alzando tanto”. Non ce ne rendiamo conto, ma c’è un detto spagnolo che deve farci riflettere: Dio perdona sempre. Siate certi che Dio perdona sempre e noi uomini perdoniamo di tanto in tanto. Ma la natura non perdona mai. La fa pagare. Usi la natura, e lei ti travolge. Un mondo surriscaldato ci allontana anche dalla costruzione di una società giusta e fraterna. Ci sono la crisi, la pandemia e il famoso covid. Quando ero studente, il massimo che ti provocavano i virus “corona” era il raffreddore. Ma poi sono mutati ed è successo quello che è successo. È molto curiosa la mutazione dei virus, perché siamo di fronte a una crisi virale, ma anche a una crisi mondiale. Una crisi mondiale nel nostro rapporto con l’universo. Non viviamo in armonia con la creazione, con l’universo. E lo prendiamo a schiaffi in continuazione. Usiamo male le nostre forze. Ci sono persone che non immaginano il pericolo che l’umanità corre oggi con questo surriscaldamento e questa manipolazione della natura.
Vi racconto un’esperienza personale. Nel 2007 ero nel gruppo di redazione del Documento di Aparecida e allora arrivavano le proposte dei brasiliani che parlavano di cura della natura. “Ma questi brasiliani, cosa hanno in testa?”, mi chiedevo all’epoca, non ne capivo nulla. Ma a poco a poco mi sono svegliato ed è stato allora che ho sentito l’urgenza di scrivere qualcosa. Anni dopo, quando mi sono recato a Strasburgo, il presidente François Hollande ha mandato a ricevermi il suo ministro dell’ambiente, che all’epoca era Ségolène Royale. A un certo punto mi ha chiesto: “È vero che sta scrivendo qualcosa sull’ambiente?”. Quando ho risposto di sì, mi ha chiesto: “Per favore, lo pubblichi prima della Conferenza di Parigi”. Così ho incontrato di nuovo gli scienziati che mi hanno consegnato una bozza, poi ho incontrato i teologi che mi hanno consegnato un’altra bozza, ed è così che è nata la “Laudato si'”. È stata un’esigenza per creare la consapevolezza che stiamo prendendo a schiaffi la natura. E la natura la farà pagare… La sta facendo pagare.
D
Nell’enciclica “Laudato si'” lei avverte che si parla spesso di ecologia, ma separandola dalle condizioni sociali e di sviluppo. Quali sarebbero queste nuove regole in termini economici, sociali e politici, nel mezzo di quella che lei ha definito una crisi di civiltà e con una Terra che per di più sta dicendo “non ce la faccio più”?
R
È tutto unito, è armonioso. Non puoi pensare alla persona umana senza la natura e non pensare alla natura senza la persona umana. È come quel passo della Genesi: “Siate fecondi, moltiplicatevi e soggiogate la terra”. Soggiogare significa entrare in armonia con la Terra per renderla feconda. E noi abbiamo questa vocazione. C’è un’espressione degli aborigeni dell’Amazzonia che amo: “il vivere bene”. Hanno questa filosofia del vivere bene, che non ha nulla a che vedere con il nostro porteño “divertirsi” o con la “dolce vita” italiana. Per loro si tratta di vivere in armonia con la natura. È necessaria qui una scelta interiore da parte delle persone e dei Paesi. Una conversione, diremmo noi. Quando mi dicevano che la “Laudato si'” era una bella enciclica sull’ambiente, rispondevo che non lo era, che era “un’enciclica sociale”. Perché non possiamo separare il sociale dall’ambiente. La vita di uomini e donne si sviluppa all’interno di un ambiente. Mi viene in mente un detto spagnolo, spero non troppo guarango, che dice “chi sputa al cielo, gli cade in testa”. Il maltrattamento della natura è un po’ questo. La natura la fa pagare. Ripeto: la natura non perdona mai, ma non perché sia vendicativa, bensì perché noi mettiamo in moto processi di degenerazione che non sono in armonia con il nostro essere.
Qualche anno fa sono rimasto raggelato quando ho visto la foto di una nave che aveva superato per la prima volta il Polo Nord. Il Polo Nord navigabile! Cosa significa? Che i ghiacci si stanno distruggendo, si stanno dissolvendo, a causa del riscaldamento. Quando si vedono queste cose, dobbiamo mettere un freno. E sono i giovani a notarlo di più. Noi adulti non ci siamo abituati male, diciamo “non è un problema” o semplicemente non capiamo.
D
I giovani, come sottolinea, sembrano avere una maggiore consapevolezza ecologica, ma spesso sembra essere segmentata. Oggi vediamo meno impegno politico e anche quando si tratta di votare, la partecipazione è molto bassa tra gli under 35. Cosa direbbe a questi giovani? Come aiutarli a ricostruire la loro speranza?
R
Hai toccato un punto difficile, ovvero il disimpegno politico dei giovani: perché non si impegnano in politica, perché non se la giocano? Perché sono come scoraggiati. Hanno visto – non dico tutti, per carità – situazioni di accordi mafiosi e di corruzione. Quando i giovani di un Paese vedono, come si suol dire, che “ci si vende perfino la madre” pur di fare un affare, allora la cultura politica si abbassa. Ed è per questo che non vogliono mettersi in politica. Eppure abbiamo bisogno di loro perché sono loro a dover proporre la salvezza della politica universale. E perché la salvezza? Perché se non cambiamo il nostro atteggiamento nei confronti dell’ambiente, andiamo tutti a fondo.
A dicembre abbiamo avuto un incontro scientifico-teologico su questa situazione ambientale. E ricordo che il direttore dell’Accademia Italiana delle Scienze ha detto: “Se non si cambia, mia nipote che è nata ieri dovrà vivere tra 30 anni in un mondo inabitabile”. Per questo dico ai giovani che non si tratta solo di protestare, ma che devono anche trovare il modo di farsi carico dei processi che ci aiuteranno a sopravvivere.
D
Pensa che parte della frustrazione di alcuni giovani fa sì che siano sedotti dai discorsi di odio e dalle opzioni politiche estreme?
R
Il processo di un Paese, il processo di sviluppo sociale, economico e politico, necessita di una continua rivalutazione e di un continuo scontro con gli altri. Il mondo politico è questo scontro di idee, di posizioni, che ci purifica e ci fa andare avanti insieme. I giovani devono imparare questa scienza della politica, della convivenza, ma anche della lotta politica che ci purifica dagli egoismi e ci fa progredire. È importante aiutare i giovani in questo impegno socio-politico e anche a non “farsi vendere una cassetta delle lettere”. Ma oggi credo che i giovani siano più svegli. Ai miei tempi non ci “vendevano una cassetta delle lettere”, ci vendevano la Posta Centrale. Oggi sono più svegli, più vivi. Ho molta fiducia nei giovani. “Sì, ma non vengono a Messa!”, mi dice un sacerdote. Rispondo che dobbiamo aiutarli a crescere e accompagnarli. Poi Dio parlerà a ciascuno di loro. Ma dobbiamo lasciarli crescere. Se i giovani non sono i protagonisti della storia, siamo fritti. Perché sono il presente e il futuro.
D
Qualche giorno fa ha parlato dell’importanza del dialogo intergenerazionale.
R
A questo proposito, vorrei dire una cosa che mi piace sempre sottolineare: dobbiamo ripristinare il dialogo tra giovani e anziani. I giovani devono dialogare con le loro radici e gli anziani devono rendersi conto che stanno lasciando un’eredità. Il giovane, quando incontra il nonno o la nonna, riceve linfa, riceve cose e le porta avanti. E l’anziano, quando incontra il nipote o la nipote, ha speranza. C’è un verso molto bello di Bernárdez, non so in quale poesia, che dice: “Quello che l’albero ha di fiorito, viene da quello che ha di sotterrato”. Non dice “i fiori vengono da laggiù”. No, i fiori sono sopra. Ma questo dialogo dall’alto verso il basso, del prendere dalle radici e portare avanti, è il vero significato della tradizione. Mi ha colpito anche una frase del compositore Gustav Mahler: “La tradizione è la garanzia del futuro”. Non è un pezzo da museo. È ciò che ti dà vita, purché ti faccia crescere. Tutt’altra cosa è andare indietro, il che è un conservatorismo malsano. “Poiché si è sempre fatto così, non me la rischio per un passo avanti”, ragionano. Forse questo ha bisogno di ulteriori spiegazioni, ma io vado all’essenza del dialogo dei giovani con gli anziani, perché è da lì che nasce il vero significato della tradizione. Non è tradizionalismo. È la tradizione che ti fa crescere, è la garanzia del futuro.
D
Francesco, lei descrive spesso tre mali del tempo: il narcisismo, lo scoraggiamento e il pessimismo. Come si combattono?
R
Le tre cose che ha citato – narcisismo, scoraggiamento e pessimismo – fanno parte della cosiddetta psicologia dello specchio. Narciso, naturalmente, guardava lo specchio. E questo guardarsi non è guardare avanti, ma tornare su se stessi e leccarsi continuamente la ferita. Quando, in realtà, ciò che ti fa crescere è la filosofia dell’alterità. Quando nella vita non c’è confronto, non si cresce. Le tre cose che hai citato sono quelle dello specchio: lo guardo per guardare me stesso e lamentarmi. Ricordo una suora che si lamentava tutto il tempo e in convento la chiamavano “Suor Lamentela”. Ebbene, ci sono persone che si lamentano continuamente dei mali del tempo. Ma c’è qualcosa che aiuta molto contro questo narcisismo, scoraggiamento e pessimismo: il senso dell’umorismo. È ciò che rende più umani. C’è una bellissima preghiera di San Tommaso Moro, che recito ogni giorno da più di 40 anni, che inizia chiedendo: “Dammi, Signore, una buona digestione e anche qualcosa da digerire”. Dammi il senso dell’umorismo, affinché io sappia apprezzare uno scherzo [“Dammi, o Signore, il senso dell’umorismo, concedimi la grazia di comprendere uno scherzo”, ndr]. Il senso dell’umorismo relativizza molto e fa molto bene. Va contro questo spirito di pessimismo, di “lamentela”. Era Narciso, vero? Torniamo allo specchio. Tipico narcisismo.
D
Già nel 2014 lei sosteneva che il mondo stava entrando in una terza guerra mondiale e oggi la realtà non fa che confermare le sue previsioni. La mancanza di dialogo e di ascolto è un fattore aggravante della situazione attuale?
R
L’espressione che ho usato allora è stata “guerra mondiale a pezzi”. Quello che accade in Ucraina lo viviamo da vicino e per questo ci preoccupiamo, ma pensiamo al Rwanda 25 anni fa, alla Siria 10 anni fa, al Libano con le sue lotte interne o al Myanmar oggi. Quello che stiamo vedendo sta accadendo da molto tempo. Una guerra, purtroppo, è una crudeltà al giorno. In guerra non si balla il minuetto, si uccide. E c’è un’intera struttura di vendita di armi che la favorisce. Qualcuno esperto di statistiche mi ha detto, non ricordo i numeri, che se non si fabbricassero armi per un anno, non ci sarebbe più fame nel mondo. Credo sia giunto il momento di ripensare il concetto di “guerra giusta”. Ci può essere una guerra giusta, c’è il diritto di difendersi, ma il modo in cui il concetto viene usato oggi deve essere ripensato. Ho affermato che l’uso e il possesso di armi nucleari è immorale. Risolvere le cose con una guerra significa dire no alla capacità di dialogo, di essere costruttivi, che gli uomini hanno. Questa capacità di dialogo è molto importante. Esco dalla guerra e passo al comportamento comune. Pensa a quando stai parlando con qualche persona e, prima che finisci, ti interrompe e ti risponde. Non sappiamo ascoltarci. Non permettiamo all’altro di dire la sua. Bisogna ascoltare. Ascoltare quello che dice, ricevere. Dichiariamo guerra prima, cioè interrompiamo il dialogo. Perché la guerra è essenzialmente una mancanza di dialogo.
Quando sono andato a Redipuglia nel 2014, per il centenario della guerra del 1914, ho visto l’età dei morti nel cimitero e ho pianto. Quel giorno ho pianto. Il 2 novembre, qualche anno dopo, sono andato al cimitero di Anzio e quando ho visto l’età di quei ragazzi morti, ho di nuovo pianto. Non mi vergogno di dirlo. Che crudeltà. E quando è stato commemorato l’anniversario dello sbarco in Normandia, ho pensato ai 30.000 ragazzi rimasti senza vita sulla spiaggia. Aprivano le barche e ordinavano loro: “Scendere, scendere”, mentre i nazisti li aspettavano. È giustificabile, questo? Visitare i cimiteri militari in Europa aiuta a rendersene conto.
D
Forse gli organismi multilaterali stanno fallendo di fronte a queste guerre? È possibile raggiungere la pace attraverso di essi? È possibile cercare soluzioni comuni?
R
Dopo la Seconda Guerra Mondiale c’era molta speranza nelle Nazioni Unite. Non voglio offendere, so che ci sono ottime persone che lavorano, ma su questo punto non hanno il potere di imporsi. Contribuiscono sì a evitare guerre, e penso a Cipro, dove ci sono truppe argentine. Ma per fermare una guerra, per risolvere una situazione di conflitto come quella che stiamo vivendo oggi in Europa, o come quelle vissute in altre parti del mondo, non hanno alcun potere. Senza offesa. È solo che la costituzione di cui dispongono non danno loro potere.
D
Sono cambiati i poteri nel mondo e il peso di alcune istituzioni?
R
È una domanda che non voglio generalizzare troppo. Voglio metterla così: ci sono alcune istituzioni benemerite che sono in crisi o, peggio ancora, che sono in conflitto. Quelle in crisi mi fanno sperare in un possibile progresso. Ma quelle in conflitto sono impegnate a risolvere questioni interne. In questo momento servono coraggio e creatività. Senza questi due elementi, non avremo istituzioni internazionali che possano aiutarci a superare questi gravissimi conflitti, queste situazioni mortali di morte.
D
Nel 2023 ricorreranno 10 anni dalla sua elezione, un anniversario ideale per tracciare un bilancio: è riuscito a realizzare tutti i suoi obiettivi? Quali progetti sono ancora in sospeso?
R
Le cose che ho fatto non le ho inventate né sognate dopo una notte di indigestione. Ho raccolto tutto ciò che i cardinali avevano detto nelle riunioni pre-conclave che il prossimo Papa avrebbe dovuto fare. Poi abbiamo detto le cose che dovevano essere cambiate, i punti che dovevano essere toccati. Quello che ho messo in moto è stato quello che mi è stato chiesto. Non credo che ci sia nulla di originale da parte mia, ma ho avviato ciò che avevamo deciso tutti insieme. Ad esempio, la Riforma della Curia si è conclusa con la nuova Costituzione Apostolica Praedicate Evangelium, con la quale, dopo otto anni e mezzo di lavoro e consultazioni, siamo riusciti a mettere in atto ciò che i cardinali avevano chiesto, cambiamenti che già si stavano mettendo in pratica. Oggi c’è un’esperienza di tipo missionario. Praedicate Evangelium, cioè “siate missionari”. Predicate la Parola di Dio. In altre parole, l’essenziale è uscire. Curioso. In quegli incontri c’era un cardinale che ricordava che nel testo dell’Apocalisse Gesù dice: “Sto alla porta e busso. Se qualcuno apre, io entrerò”. Poi ha detto: “Gesù continua a bussare, ma affinché lo lasciamo uscire, perché lo abbiamo imprigionato”. Questo è ciò che è stato chiesto in quelle riunioni di cardinali. E quando sono stato eletto, l’ho messo in moto. Dopo alcuni mesi, si sono tenute consultazioni fino alla stesura della nuova Costituzione. E nel frattempo si stavano apportando dei cambiamenti. Cioè non sono idee mie. Che sia chiaro. Sono le idee di tutto il Collegio Cardinalizio che ha chiesto questo.
D
Ma c’è un’impronta sua, c’è un’impronta della chiesa latinoamericana…
R
Questo sì.
D
In che modo questa prospettiva ha reso possibili i cambiamenti a cui assistiamo oggi?
R
La Chiesa latinoamericana ha una lunga storia di vicinanza al popolo. Se prendiamo le conferenze episcopali – la prima a Medellín, poi a Puebla, Santo Domingo e Aparecida – è stata sempre in dialogo con il popolo di Dio. E questo ha aiutato molto. È una Chiesa popolare, nel vero senso della parola. È una Chiesa del popolo di Dio, che è stata snaturata quando il popolo non ha potuto esprimersi e ha finito per essere una Chiesa di caporali, con gli agenti pastorali al comando. Il popolo si è espresso sempre più in ambito religioso e ha finito con l’essere protagonista della propria storia. C’è un filosofo argentino, Rodolfo Kush, che è quello che meglio ha colto cosa sia un popolo. Poiché so che mi ascolterete, vi consiglio di leggere Kush. È una delle grandi menti argentine, con libri sulla filosofia del popolo. In parte, questo è ciò che ha vissuto la Chiesa latinoamericana, anche se ha avuto tentativi di ideologizzazione, come lo strumento di analisi marxista della realtà per la Teologia della Liberazione. È stata una strumentalizzazione ideologica, un percorso di liberazione – mettiamola così – della Chiesa popolare latinoamericana. Ma una cosa sono i popoli, un’altra i populismi.
D
Qual è la differenza tra i due?
R
In Europa devo spiegarlo sempre. Qui hanno un’esperienza molto triste del populismo. È appena uscito un libro, Sindrome 1933, che mostra come si è generato il populismo di Hitler. Per questo mi piace dire: non confondiamo il populismo con il popolarismo. Il popolarismo è quando il popolo porta avanti le proprie cose, esprime il suo pensiero nel dialogo ed è sovrano. Il populismo è un’ideologia che unisce il popolo, che cerca di raggrupparlo in un’unica direzione. E qui, quando parli loro di fascismo e di nazismo, capiscono cos’è il populismo. La Chiesa latinoamericana presenta in alcuni casi aspetti di sudditanza ideologica. Ci sono stati e continueranno ad esserci, perché questo è un limite umano. Ma è una Chiesa che ha saputo e sa esprimere sempre meglio la sua pietà popolare, ad esempio la sua religiosità e la sua organizzazione popolare. Quando scopri che per la festa patronale del Miracolo di Salta i Misachicos scendono da 3.000 metri, c’è lì un’entità religiosa che non è superstizione, perché si sentono identificati con essa. La Chiesa latinoamericana è cresciuta molto in questo senso. Ed è anche una Chiesa che ha saputo coltivare le periferie, perché la vera realtà si vede da lì.
D
Perché la vera trasformazione viene dalla periferia?
R
Mi ha colpito una conferenza di Amelia Podetti, una filosofa ora scomparsa, in cui diceva: “L’Europa ha visto l’Universo quando Magellano è arrivato al Sud”. In altre parole, dalla periferia più ampia, ha capito sé stessa. La periferia ci fa capire il centro. Si può essere d’accordo o meno, ma se vuoi sapere cosa prova un popolo, vai in periferia. Le periferie esistenziali, non solo quelle sociali. Vai dagli anziani pensionati, dai bambini, vai nei quartieri, nelle fabbriche, nelle università, dove si gioca il quotidiano. Ed è lì che si mostra il popolo. I luoghi in cui il popolo può esprimersi più liberamente. Per me questo è fondamentale. Una politica a partire dal popolo che non è populismo. Rispettare i valori del popolo, rispettare il ritmo e la ricchezza di un popolo.
D
Negli ultimi anni l’America Latina ha iniziato a mostrare alternative al neoliberalismo attraverso la costruzione di progetti popolari e inclusivi. Come vede l’America Latina come regione?
R
L’America Latina è ancora in questo lento cammino, di lotta, del sogno di San Martín e Bolívar, per l’unità della regione. È sempre stata vittima, e lo sarà sempre finché non si libererà del tutto dagli imperialismi sfruttatori. Tutti i Paesi hanno questo problema. Non voglio menzionarli perché sono così evidenti che tutti li vedono. Il sogno di San Martin e Bolivar è una profezia, quell’incontro di tutto il popolo latinoamericano, al di là delle ideologie, con la sovranità. È su questo che dobbiamo lavorare per raggiungere l’unità latinoamericana. Dove ogni popolo senta di avere la propria identità e, allo stesso tempo, abbia bisogno dell’identità dell’altro. Non è facile.
D
Lei indica un percorso basato su alcuni principi politici.
R
Ci sono quattro principi politici che mi aiutano, non solo per questo, ma anche per risolvere le cose nella Chiesa. Quattro principi che sono filosofici, politici o sociali se vogliamo. Li cito: “La realtà è superiore all’idea”, cioè, quando punti sugli idealismi, hai perso; è la realtà, toccare la realtà. “Il tutto è superiore alla parte”, cioè cercare sempre l’unità del tutto. “L’unità è superiore al conflitto”, in altre parole, quando privilegi i conflitti, danneggi l’unità. “Il tempo è superiore allo spazio”, pensa che gli imperialismi cercano sempre di occupare spazi, e la grandezza dei popoli è quella di avviare processi. Questi quattro principi mi hanno sempre aiutato a capire un Paese, una cultura o la Chiesa. Sono principi umani, di integrazione. E ci sono altri principi, più ideologici, di disintegrazione. Ma riflettere su questi quattro principi aiuta molto.
D
Lei è forse la voce più importante al mondo in termini di leadership sociale e politica. A volte sente che, dalla sua voce dissonante, ha la possibilità di cambiare molte cose?
R
Che sia dissonante, a volte l’ho sentito. Credo che la mia voce possa cambiare… ma non ci credo tanto perché questo può farti male. Dico quello che sento davanti a Dio, davanti agli altri, con onestà e con il desiderio che serva. Non mi preoccupa tanto il fatto che cambierà o non cambierà le cose. Mi preoccupo di più di dire le cose e di aiutarle a cambiare da sole. Credo che nel mondo, e soprattutto in America Latina, ci sia una grande forza per cambiare le cose con questi quattro principi che ho appena citato. Ed è vero che se parlo io, tutti dicono “il Papa ha parlato e ha detto questo”. Ma è anche vero che prendono una frase fuori dal contesto e ti fanno dire ciò che non intendevi dire. In altre parole, bisogna fare molta attenzione. Per esempio, con la guerra, c’è stata un’intera controversia per una mia dichiarazione su una rivista dei gesuiti: ho detto che “qui non ci sono né buoni né cattivi” e ho spiegato perché. Ma hanno preso questa dichiarazione da sola e hanno detto: “Il Papa non condanna Putin!”. La realtà è che lo stato di guerra è qualcosa di molto più universale, più serio, e non ci sono buoni e cattivi. Siamo tutti coinvolti e questo è ciò che dobbiamo imparare.
D
Il mondo è diventato sempre più diseguale e questo si riflette anche nei media che, grazie a una grande concentrazione imprenditoriale e alle piattaforme digitali e ai social network, stanno diventando sempre più potenti in termini di produzione di discorso. In questo contesto, quale pensa debba essere il ruolo dei media?
R
Io faccio mio il principio “la realtà è superiore all’idea”. Mi viene in mente un libro scritto dal filosofo Simone Paganini, docente all’Università di Aquisgrana, in cui parla della comunicazione e delle tensioni che esistono tra l’autore di un libro, il lettore e la forza del libro stesso. Sostiene che si sviluppa una tensione sia nella comunicazione che nella lettura del libro. E questo è fondamentale nella comunicazione. Perché, in qualche modo, la comunicazione deve entrare in un rapporto di sana tensione, che faccia riflettere l’altro e lo porti a rispondere. Se questo non c’è, è solo informazione. La comunicazione umana – e lui parla di giornalisti, comunicatori o altro – deve entrare nella dinamica di questa tensione. Dobbiamo essere consapevoli che comunicare significa impegnarci. E dobbiamo essere molto consapevoli della necessità di impegnarci bene. Per esempio, c’è l’obiettività. Comunico qualcosa e dico: “È successo questo, penso questo”. Qui mi metto in gioco e mi apro alla risposta dell’altro. Ma se comunico quello che è successo potandolo, senza dire che lo sto potando, sono disonesto perché non comunico una verità. Non si può comunicare una verità in modo obiettivo, perché se la sto comunicando, ci metto del mio. Ecco perché è importante distinguere “è successo questo e penso che sia questo”. Oggi, purtroppo, il “penso” porta a una distorsione della realtà. E ciò è molto grave.
Lei ha parlato in diverse occasioni dei peccati della comunicazione. L’ho detto per la prima volta in una conferenza a Buenos Aires quando ero arcivescovo. Mi è venuto in mente di parlare dei quattro peccati della comunicazione, del giornalismo. In primo luogo, la disinformazione: dire ciò che mi fa comodo e tacere sul resto. No, di’ tutto, non puoi disinformare. In secondo luogo, la calunnia. Inventano cose e a volte distruggono una persona con una comunicazione. In terzo luogo, la diffamazione, che non è calunnia, ma è come attribuire a una persona un pensiero che ha avuto in un altro momento e che ora è cambiato. È come se a un adulto si portassero i pannolini sporchi di quando eri bambino. Ero un bambino e la pensavo così. È cambiato, ora è così. E per il quarto peccato ho usato la parola tecnica coprofilia, cioè l’amore per la cacca, l’amore per la sporcizia. Vale a dire, cercare di infangare, cercare lo scandalo per il gusto dello scandalo. Ricordo che il cardinale Antonio Quarracino diceva: “Non leggo quel giornale, perché faccio così e sgorga sangue”. È l’amore per lo sporco e il brutto. Credo che i media debbano stare attenti a non cadere nella disinformazione, nella calunnia, nella diffamazione e nella coprofilia. Il loro valore è quello di esprimere la verità. Dico la verità, ma sono io a esprimerla e ci metto del mio. Ma chiarisco bene ciò che è mio e ciò che è oggettivo. E lo trasmetto. Anche se a volte in quella trasmissione si perde un po’ di onestà, poi dal passaparola della trasmissione passi a un primo passo con Cappuccetto Rosso che scappa dal Lupo che vuole mangiarla e finisci, dopo la comunicazione, in un banchetto dove la nonna e Cappuccetto Rosso stanno mangiando il Lupo. Bisogna fare attenzione che la comunicazione non cambi l’essenza della realtà.
D
Che valore attribuisce alla comunicazione?
R
La comunicazione è qualcosa di sacro. È forse una delle cose più belle che un essere umano abbia. Comunicare è divino e bisogna saperlo fare con onestà e autenticità. Senza aggiungere cose di mia invenzione e non dirlo. “È successo questo. Penso che debba essere questo o lo interpreto così”, ma che sia chiaro che è il tuo pensiero. Oggi i media hanno una grande responsabilità didattica: insegnare alla gente l’onestà, insegnare a comunicare con l’esempio, insegnare a vivere insieme. Ma se ci sono media che danno l’impressione di avere in mano una granata per distruggere le persone – con la selezione della verità, con la calunnia, con la diffamazione o con il fango – questo non farà mai crescere un popolo. Chiedo che i media abbiano questa sana obiettività, il che non vuol dire che sia acqua distillata. Ribadisco: “Le cose stanno così e io la penso così”. E scendi nell’arena, ma che sia chiaro quello che pensi. Ciò è molto nobile. Ma se parli con il programma che t’impone un movimento politico, un partito, senza dire che è così, questo è ignobile e non è corretto. Il comunicatore, per essere un buon comunicatore, deve essere una persona corretta. Molti media, dando priorità ai loro interessi, danno spazio a un’agenda di globalizzazione dell’indifferenza. Sono questi i temi che i media decidono di rendere visibili o di nascondere per motivi diversi. Sì, quando a volte penso ad alcuni media che purtroppo non svolgono bene la loro missione, quando penso a queste cose della nostra cultura in generale, della cultura mondiale, che danneggiano la società stessa, mi viene in mente una frase della nostra filosofia che sembra pessimista, ma è la verità: “Dai che va tutto bene! Tutto è uguale, tanto laggiù all’inferno c’incontreremo” [ dal tango Cambalache]. In altre parole, non importa cosa sia la verità e cosa no. Non importa se questa persona vince o perde. Tutto è uguale. Dai che va tutto bene! Quando questa filosofia viene diffusa dai media è disastrosa perché crea una cultura dell’indifferenza, del conformismo e del relativismo che danneggia tutti noi.
Alla tecnologia viene spesso attribuita una certa vita propria, come responsabile di mali che vengono commessi al di là del suo utilizzo. Come recuperare l’umanesimo in questo mondo tecnologico?
Una sala operatoria è un luogo in cui la tecnologia viene utilizzata al millimetro. Eppure, quanta attenzione viene posta in un intervento chirurgico con le nuove tecnologie. Perché c’è una vita in gioco di cui bisogna prendersi cura. Il criterio è questo: che la tecnologia abbia sempre presente che sta lavorando con vite umane. Bisogna pensare alle sale operatorie. Questa è l’onestà che dobbiamo sempre avere, anche nella comunicazione. Sono in gioco vite umane. Non possiamo fare le cose come se poi non accadesse nulla.
D
È sempre stato un pastore, ma come trasmettere questa Chiesa di pastori, la Chiesa di strada che parla ai fedeli? Forse oggi la fede è diversa? Il mondo ha meno fede? La fede si può recuperare?
R
Mi piace fare una distinzione tra pastori del popolo e chierici dello Stato. Un chierico di Stato è un ecclesiastico dei tribunali francesi, come Monsieur L’Abbé, e a volte noi sacerdoti siamo tentati di flirtare con il potere, ma non è questa la strada. La vera via è pascolare [il gregge]. Stare in mezzo al tuo popolo, davanti al tuo popolo e dietro al tuo popolo. Stare in mezzo per sentire bene il suo odore, per conoscerlo bene, perché sei stato preso da lì. Stare davanti al tuo popolo per a volte segnare il passo. E stare dietro al tuo popolo per aiutare quelli che sono rimasti indietro e per lasciare che cammini da solo per vedere dove sta andando, perché le pecore a volte sanno per intuito dove sta il pascolo. Il pastore è questo. Un pastore che è solo davanti al popolo non va. Deve essere coinvolto e partecipare alla vita del suo popolo. Se Dio ti mette a fare il pastore, è per fare il pastore, non per condannare. Dio è venuto qui per salvare, non per condannare. Lo dice San Paolo, non io. Salviamo le persone, non siamo troppo severi.
A qualcuno non piacerà quello che sto per dire: c’è un capitello nella Basilica di Vèzelay, non ricordo se del 900 o del 1100. Si sa che, nell’epoca medievale, la catechesi si faceva con le sculture, con i capitelli. La gente li vedeva e imparava. E un capitello di Vèzelay che mi ha davvero colpito è quello di Giuda impiccato, con il diavolo che lo tira verso il basso e, dall’altra parte, un buon pastore che lo afferra e lo porta via con un sorriso ironico. Con questo insegna al popolo che Dio è più grande del tuo peccato, che Dio è più grande del tuo tradimento, che non devi disperare per i torti commessi, che c’è sempre qualcuno che ti porterà sulle sue spalle. È la migliore catechesi sulla persona di Dio, sulla misericordia di Dio. Perché la misericordia di Dio non è un dono che vi fa, è lui stesso. Non può essere altrimenti.
Quando presentiamo questo Dio severo, che punta tutto sulla punizione, non è il nostro Dio. Il nostro Dio è il Dio della misericordia, della pazienza, il Dio che non si stanca di perdonare. Questo è il nostro Dio. Non quello che noi sacerdoti a volte sfiguriamo.
Se la società ascolta questo Dio e questo popolo che a volte non viene ascoltato, pensa che sarà possibile costruire un discorso diverso, alternativo al discorso egemonico?
Sì, certo. L’egemonia non è mai salutare. Vorrei parlare di una cosa prima di concludere: nella nostra vita liturgica, nel Vangelo, c’è la fuga in Egitto. Gesù deve fuggire, insieme a suo padre e sua madre, perché Erode vuole ucciderlo. I Magi e tutto il resto. Poi c’è la fuga in Egitto, che spesso pensiamo come abbiano fatto in carrozza e non tranquilli su un asinello. Due anni fa, un pittore piemontese ha pensato al dramma di un padre siriano in fuga con il figlio e ha detto: “Quello è San Giuseppe con il bambino”. Ciò che quell’uomo sta soffrendo è ciò che San Giuseppe ha sofferto in quel momento. È quel quadro lì, me lo ha regalato.
D
Al di là dell’orgoglio di avere un Papa argentino, penso sempre a come lei si vede: come il Papa vede Bergoglio e come Bergoglio vedrebbe Francesco?
R
Bergoglio non avrebbe mai immaginato di finire qui. Mai. Sono arrivato in Vaticano con una valigetta, con i vestiti che avevo addosso e poco più. Inoltre, ho lasciato a Buenos Aires le prediche preparate per la Domenica delle Palme. Ho pensato: nessun Papa inizia il suo ministero la Domenica delle Palme, quindi tornerò a casa il sabato. In altre parole, non avrei mai immaginato che sarei stato qui. E quando vedo il Bergoglio di lì e tutta la sua storia, le fotografie parlano da sole. È la storia di una vita che è andata avanti con molti doni di Dio, molte mancanze da parte mia, molte posizioni non tanto universali. Nella vita si impara a essere universali, a essere caritatevoli, a essere meno cattivi. Credo che tutte le persone siano buone. In altre parole, vedo un uomo che ha camminato, che ha preso una strada, con alti e bassi, e tanti amici lo hanno aiutato a continuare a camminare. Non ho mai camminato da solo nella mia vita. Ci sono sempre stati uomini e donne, a partire dai miei genitori, i miei fratelli – una è ancora viva – che mi hanno accompagnato. Non riesco a immaginarmi come una persona solitaria, perché non lo sono. Una persona che ha percorso la sua vita, che ha studiato, che ha lavorato, che è diventato sacerdote, che ha fatto quello che poteva. Non riesco a pensare a nessun altro modo.
D
E come guarderebbe Bergoglio il Papa?
R
Non so come lo guarderebbe. Penso che in fondo direbbe: “Poverino, che cosa ti è toccato!”. Ma non è così tragico essere papa. Si può essere un buon pastore. Forse lo guarderei come lo guardiamo tutti: lo scoprirei.
Sì, forse. Ma non mi è venuto in mente di pormi questa domanda, di mettermi lì. Ci penserò.
D
Sente di essere cambiato molto da quando è Papa?
R
Alcune persone mi dicono che le cose che stavano germogliando nella mia personalità sono venute in superficie. Che sono diventato più misericordioso. Nella mia vita ho avuto periodi rigidi, in cui ho preteso troppo. Poi ho capito che non si può seguire quella strada, che bisogna saper guidare. È questa la paternità che ha Dio. C’è una canzone napoletana molto bella che descrive cosa sia un padre napoletano. Dice: “Il padre sa cosa ti succede, ma fa finta di non saperlo”. Questo saper aspettare gli altri è proprio di un padre. Sa cosa ti sta succedendo, ma fa in modo di farti andare da solo, ti aspetta come se nulla fosse. È un po’ quello che oggi criticherei di quel Bergoglio che, in qualche tappa, non sempre, come vescovo è stato un po’ più benevolo. Ma nella tappa da gesuita è stato molto severo. E la vita è molto bella con lo stile di Dio, di saper sempre aspettare. Sapere, ma fare finta di non sapere e lasciare che maturi. È una delle saggezze più belle che la vita ci regala.
D
La trovo bene, Francesco. Avremo Papa Francesco ancora per un po’?
R
Lasciamo che lo dica Lui lassù.
( Fonte: Vatican News)

Ripartire dalla Cura. La Lettera di Natale 2021 del Centro di Accoglienza Balducci



di Piero Murineddu

Zugliano, 1200 abitanti, una frazione di Pozzuolo del Friuli, pochi chilometri dal capoluogo Udine. É qui che nei primissimi anni ottanta é arrivato il giovane prete Pierluigi Di Piazza, origini montanare, figlio di Tranquillo e di Maria, due genitori dal cuore grande, come spesso lo sono i montanari.

Il babbo, ciabattino, più che ai soldi dava importanza alle persone e ai loro bisogni, ed é per questo che per risuolare gli scarponi dei suoi compaesani chiedeva il minimo.

Questa Priorità acquisita in famiglia, Pierluigi l’ ha fatta propria dal primo momento in cui gli fu affidata la cura della parrocchia di San Michele a Zugliano. Coi finanziamenti stanziati dopo il terremoto del ’76, invece di far ricostruire una bella e comoda casa parrocchiale, decise di usarli per edificare un piccolo ed essenziale appartamento per lui ed un’ altra casa più spaziosa per dare ospitalità a chi ne avesse bisogno.

Andata avanti la cosa, in quel villaggio immerso nella campagna col tempo é nato un Centro di Accoglienza intitolato ad Ernesto Balducci, verso cui evidentemente Pierluigi ha avuto sempre stima. Se poi Lorenzo Milani ha avuto particolare importanza nella formazione umana e spirituale dell’oggi 74enne prete nativo della frazioncina di montagna Tualis , si capisce come del Servizio, della Condivisione e del Noi abbia fatto il moto principale della sua vita. Altro che limitarsi a consegnare la seppur spesso necessaria busta di alimenti al poveraccio che suona timidamente il campanello della sacrestia!

Oltre che luogo di vita comunitaria tra persone di diversa provenienza, non solo geografica, il Centro Balducci é diventato riferimento di incontri culturali di livello internazionale e di sensibilizzazione al dialogo e alla pace, con particolare spirito critico (propositivo e quindi costruttivo) a quanto succede nel mondo.

La Lettera di Natale che segue, dal 2005 é diventato l’ appuntamento fisso di fine anno, e se si legge con attenzione e senza fretta, si riesce a coglierne la grande e coraggiosa portata. In un certo senso profetica.

Grazie a Pierluigi e agli altri firmatari

Lettera di Natale

1. L’esigenza di ripartire

Viviamo un tempo complesso e difficile. La pandemia ha segnato e continua a incidere nelle nostre vite, nelle relazioni, nella visione del mondo, negli atteggiamenti e nelle scelte quotidiane, a livello personale, sociale, culturale, politico, legislativo ed ecclesiale.

L’esperienza della paura e dell’incertezza ci riguarda; le diversità di pensieri e atteggiamenti ci interrogano. Condividiamo le fatiche, i dolori e insieme l’esigenza profonda di accoglienza, fiducia, incoraggiamento e sostegno reciproci.

Spesso si sperimenta in modo accentuato che la percezione dell’identità personale, comunitaria, sociale non dipende dall’incontro, dal dialogo e dal confronto, dalla gestione dell’eventuale conflitto, ma dall’avversione e dall’inimicizia nei confronti dell’altro e delle sue diversità.

Siamo legati a una visione culturale conflittuale, che usa «il meccanismo di esasperare, esacerbare e polarizzare. Con varie modalità si nega ad altri il diritto di esistere e di pensare, e a tale scopo si ricorre alla strategia di ridicolizzarli, di insinuare sospetti su di loro, di accerchiarli. Non si accoglie la loro parte di verità, i loro valori, e in questo modo la società si impoverisce e si riduce alla prepotenza del più forte» (papa Francesco, Fratelli Tutti).

Una visione culturale capace unicamente di riflettere una inospitalità per l’altro e di perpetuare nella sua visione debole la violenza. Ce ne accorgiamo quanto questo si stia alimentando sui social e nelle relazioni con particolari categorie, come in occasione delle manifestazioni No-Vax e No-Green Pass sui giornalisti nello svolgimento del loro lavoro.

È questo certamente un fatto etico su cui meditare, anche perché supportato da continui fatti di cronaca che portano alla luce la violenza verso qualsiasi alterità: in particolare vogliamo esprimere il nostro dolore e la nostra prossimità alle vittime delle diverse forme di odio verso le donne (i casi in Italia sono 97 ogni giorno, mentre nell’arco dell’anno si sono contati più di 110 femminicidi) e verso le persone lgbtq+, uscite ancor più emarginate con l’imbarazzante plaudente bocciatura al Senato del ddl Zan contro l’omotransfobia, legge che riteniamo, da un lato, sicuramente migliorabile e, dall’altro, una necessità da approvare quanto prima seppur in forma diversa per porre fine a ingiuste discriminazioni e a ingiustificabili violenze.

Ci sentiamo inoltre particolarmente interpellati dalla questione della libertà, non vincolata in modo inscindibile alla responsabilità per il bene comune, quindi alla solidarietà , ma intesa come affermazione individualistica di sé stessi.

Se da una parte è sempre più necessario adottare politiche che possano incidere sulle cause strutturali delle disuguaglianze economiche e sociali, dall’altro le parole solidarietà, sussidiarietà e cittadinanza attiva assumono un peso quanto mai decisivo per il contrasto alle povertà e alla riduzione della forbice delle disuguaglianze.

Ci sentiamo colpiti dalla sfiducia nelle istituzioni che, certo, si presentano con limiti e contraddizioni, ma sono frutto di lotte, dedizioni, conquiste espresse in modo così autorevole dalla nostra Costituzione. Noi cerchiamo di camminare insieme riferendoci al Vangelo e alla Costituzione.

È messa in discussione l’istituzione della scienza, la conoscenza che, con fiducia, dovrebbe rassicurare, anche se non in modo assoluto, con i saperi via via acquisiti.
Questa fiducia non c’è come dovrebbe esserci e la sua mancanza determina diffidenza, sospetto, risentimento e raccoglie esperienze di altri disagi, sofferenze, ingiustizie.

Come conseguenza viene a mancare quel senso di gratitudine per il bene ricevuto che dovrebbe diventare parte importante del nostro patrimonio interiore, da custodire e da alimentare personalmente nelle relazioni, nella società, nelle comunità di fede, come cura dell’anima.

Condividiamo le fatiche e insieme il desiderio di vita che ci chiede di risollevarci, di ripartire, riprendere il cammino con l’ottimismo della volontà e la speranza della fede, nella convinzione che ci si può salvare solo insieme.

Pensiamo all’importanza decisiva dei vaccini per tutti i popoli. Così come solo insieme, con una sinergia che coinvolga Governo, istituzioni e cittadini, si potrà uscire da una delle emergenze nazionali che porta il nome dei “morti sul lavoro”: quest’anno la media è stata di tre morti al giorno, un dramma per superare il quale vanno create maggiori condizioni di sicurezza a partire da un’azione capillare, anche a livello culturale, che si opponga all’idea del lavorare a tutti i costi e in tutte le condizioni, in sprezzo del rischio e del valore della vita umana. Con i vescovi italiani diciamo anche noi: “Basta morti sul lavoro!”.

2. La questione dei migranti

Ne abbiamo riflettuto anche nella lettera dello scorso Natale. È doveroso farlo anche attualmente. Diciamo ancora come le migrazioni, che riguardano 82 milioni di persone in cammino sul Pianeta, siano una rivelazione:

– delle cause strutturali delle forzate partenze, quindi delle situazioni disumane sul Pianeta;

– di chi sono “loro” come esseri umani con le loro diversità; di chi siamo “noi”;

– qual è il grado della nostra umanità, cultura, etica, attuazione dei diritti umani, politica, legislazione, fede religiosa.

Uno sguardo complessivo e le situazioni drammatiche presenti mentre prepariamo questa Lettera ci portano ad affermare, pur riconoscendo esperienze positive, che la questione dei migranti non è stata ancora affrontata come la stessa con urgenza richiederebbe: continuano i drammi del Mediterraneo, immenso cimitero, preceduti dalla gravissima, sistematica violazione dei diritti umani nei lager della Libia, la cui Guardia costiera, finanziata anche dall’Italia, riporta i migranti delle imbarcazioni, che cercano drammaticamente speranza e salvezza, nei lager in cui si attuano continue violenze.

Continua l’inferno della Rotta balcanica con testimonianze oculari e con documentazioni videoregistrate che evidenziano la totale e continua disumanità presente nei campi profughi e, più a Sud, in Grecia e nelle isole.

Le immagini che in questo periodo ci giungono dal confine tra Bielorussia e Polonia creano in noi sgomento e dolore. Migliaia di persone, molti bambini, si trovano di fronte muri, fili spinati, eserciti schierati, costretti al freddo, all’addiaccio.

L’Europa tradisce in modo clamoroso, del tutto inaccettabile, lo spirito da cui è nata e le affermazioni sui diritti umani, che ne sono state conseguenza, come ancor più il riferimento alle radici cristiane.

La sua politica sui migranti è dettata dal rifiuto, dal respingimento, dall’utilizzo di somme ingenti di denaro – a cominciare dai 9 miliardi di euro dati al dittatore Erdogan e dall’enormità dei contributi consegnati alla Croazia, che usa violenza contro i migranti – con l’unico scopo di esternalizzare le frontiere e far sì che i migranti non entrino.

Mentre papa Francesco, con il suo recente viaggio a Cipro, in Grecia e in particolare a Lesbo, ha voluto ribadire che le sorgenti del vivere insieme stanno nell’accoglienza reciproca, l’Europa si presenta sempre più come fortezza; dopo aver colonizzato e depauperato, dichiara a intermittenza di voler contribuire a progetti di vita dei Paesi impoveriti, ma poi non li attua in modo responsabile e concreto. L’Italia, paese d’approdo, continua ad essere sola, come anche la Grecia.

Come già accennato, non mancano certo le esperienze positive. Ad esemplificazione ricordiamo l’esperienza già realizzata e in atto dei Corridoi umanitari promossi dalla Comunità di Sant’Egidio insieme alle Chiese Valdesi, con protocolli condivisi con i Ministeri competenti, e le esperienze di accoglienza diffusa.

E non per un facile recupero della speranza, ma perché i segni di umanità accogliente ci confortano, ricordiamo che in mezzo ai fili spinati e ai muri, che alcuni paesi – prima la Polonia – decidono di aumentare, gruppi di contadini polacchi attuano tutti i tentativi possibili per recapitare viveri e bevande ai profughi; che gruppi di persone in modo creativo hanno voluto dare un segno: una luce verde alle finestre per indicare ai migranti le case accoglienti.

Avvertiamo la continua necessità, riguardo alle migrazioni, di una diffusa crescita culturale ed etica, di una consapevolezza e informazione veritiere delle situazioni, di una politica completamente diversa capace di attuazione e di decisioni rispondenti alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, alla nostra Costituzione, alla Convenzione di Ginevra, a tutte le dichiarazioni che impegnano all’accoglienza e all’affermazione concreta dei diritti umani.

Per chi si riferisce al Vangelo di Gesù di Nazareth l’indicazione è chiara, l’appello è vincolante: se ero forestiero e mi avete accolto, o non accolto; l’avete fatto o non fatto a me.

Anche in questo caso ci sentiamo di esprimere la nostra solidarietà a sei amici che con lungimiranza evangelica si sono fatti “buoni samaritani” sulle strade dei migranti e ai quali guardiamo con affetto e riconoscenza, confidando che nei confronti della solidarietà venga meno il perdurante clima ostile.

Si tratta di Gian Andrea Franchi e della moglie Lorena Fornasir, che ogni giorno, da anni, con la loro Associazione “Linea d’Ombra” nel giardino davanti alla stazione ferroviaria di Trieste curano i piedi delle persone provenienti dalla Rotta balcanica: nei giorni scorsi, su richiesta del pubblico ministero, il gip di Bologna ha archiviato il procedimento giudiziario nei loro confronti, che li vedeva accusati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina a scopo di lucro;

Si tratta ancora di Gabriella Loebau, Elisabetta Michielin e Luigina Perosa, tre attiviste della Rete Solidale di Pordenone che, nel 2017, in piena emergenza profughi, si adoperarono portando coperte e viveri a una settantina di stranieri senza fissa dimora occupanti parte dei parcheggi del centro direzionale Galvani, conosciuto come Bronx, per ripararsi da pioggia e freddo, assolte “perché il fatto non sussiste” dall’accusa di occupazione abusiva e di deturpamento di terreno altrui e pubblico;

Non per ultimo, si tratta di Mimmo Lucano, ex sindaco e uomo simbolo del progetto di accoglienza e d’integrazione a Riace, condannato in primo grado a 13 anni e 2 mesi di reclusione e a 5 anni di interdizione dai pubblici uffici, il doppio di quanto aveva chiesto l’accusa, per “aver istituito un’associazione a delinquere responsabile di abuso d’ufficio, truffa, concussione, peculato, turbativa d’asta, falsità ideologica e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina”. Confidiamo che nei successivi gradi di giudizio vengano riconosciute la sua buona fede e le finalità umanitarie.

3. Sulla produzione e il commercio di armi

Un’altra questione su cui non si può tacere è la produzione e il commercio delle armi per alimentare le guerre diffuse in tanti luoghi del Pianeta. Anche di recente, come in altre occasioni, papa Francesco ha chiesto in modo pressante ai costruttori di armi di fermarsi.

Il nostro Paese, contravvenendo alla legge, vende armi anche a Stati, più precisamente regimi, che violano sistematicamente i diritti umani come l’Egitto in cui è stato arrestato, brutalmente torturato e ucciso Giulio Regeni e dove, pur essendo stato liberato dopo 22 mesi, è ancora ingiustamente sotto processo Patrick Zaki. Continuiamo ad esprimere ai genitori di Giulio, Paola e Claudio, alla sorella Irene, all’avvocata Alessandra Ballerini la nostra vicinanza e sostegno nel chiedere verità e giustizia.

L’Italia nel 2021 ha investito per le spese militari 24 miliardi di euro: pensiamo come potrebbe essere impegnata questa somma ingente per la salute, la scuola e la ricerca, i servizi sociali, a partire dall’attenzione alle persone più fragili, deboli, ai margini, compresi i carcerati.

Esprimiamo ancora la doverosa necessità di svincolare in modo definitivo la guerra dalla strumentale copertura e legittimazione della religione: dalla prima tragedia mondiale all’immane secondo conflitto, con i campi di sterminio organizzati dai nazisti che osavano affermare che «Dio è con noi». Il Dio di Gesù, “della non violenza” e “della pace” non può mai essere strumentalizzato in modo vergognoso per legittimare avversione, inimicizia, armi, guerre, uccisione di persone.

Poniamo sempre doverosa attenzione alla presenza nella regione Friuli Venezia Giulia della Base Usaf di Aviano, davanti alla quale più volte abbiamo concluso l’annuale Via Crucis e ci siamo raccolti per vivere la memoria delle vittime di Hiroshima e Nagasaki.

4 La casa comune

Il G20 di Roma e la COP26 di Glasgow hanno evidenziato, da una parte, le titubanze e le incertezze dei “grandi” della terra e, dall’altra, la presenza attiva di milioni di giovani su tutto il Pianeta. Desideriamo partire dall’ascolto dei giovani, che dicono di non essere ascoltati, evidenziando che sono in maggioranza ragazze, giovani donne, a conferma dell’attenzione primaria alla cura dell’ambiente, nostra casa comune e delle persone strettamente interdipendenti, pensando alle generazioni future di cui loro sono espressione qualificata per sensibilità, decisioni e determinazione.

Non ci addentriamo nei diversi aspetti; sottolineiamo ancora una volta la drammaticità della situazione e l’esigenza di decisioni urgenti, chiare, non procrastinabili neanche di un momento. Il contenuto dell’enciclica di papa Francesco «Laudato si’» ci guida nell’urgente e doveroso passaggio da una visione antropocentrica, tecnocratica, finanziaria e utilitarista, a quella radicalmente alternativa che chiede attenzione, premura, cura, ascolto del grido della terra e del grido dei poveri che diventano un unico grido.

È un’impresa indispensabile e ardua per la sua vastità e le sue implicazioni: riguarda la giustizia, le risorse, la produzione e il consumo; la cultura, la politica, le diverse spiritualità.

5 L’”I care” e la cura

Assumiamo a orientamento, visione e sostegno prima di tutto, come già si accennava, il Vangelo e la Costituzione e la loro attuazione espressa dall’«I Care» della Scuola di Barbiana da cui deriva la cura che ne rappresenta l’implicazione e il coinvolgimento.

«I Care» significa interessarsi, sentirsi interpellati e coinvolti. Don Lorenzo e i suoi alunni hanno detto che è il contrario del motto fascista «me ne frego», mi disinteresso, non mi riguarda; anzi, questo disinteresse diventa negazione delle libertà, oppressione, violazione dei diritti umani, a cominciare da quelli delle persone povere, fragili, indifese, escluse.

Dall’«I Care» deriva la cura: è una parola ricca di significati, attitudini e qualità riconoscibili come pienamente umane: sensibilità, attenzione all’umanità e alla storia delle persone, accoglienza, ascolto, partecipazione, condivisione, accompagnamento.

La pandemia e le risposte che i servizi hanno dato alle persone coinvolte hanno messo ancor più in evidenza la necessità di una medicina che si appropri di una visione della malattia e della salute in cui la competenza tecnico-professionale si unisca con il pieno riconoscimento dell’umanità della persona che riceve l’assistenza proprio per dare pieno riconoscimento all’esperienza della sofferenza.

La cura vive inoltre di reciprocità: si dona cura e si riceve cura come dono, gratuità, gratitudine. Esige la concretezza che esprime la profondità dell’animo di cui siamo tutti chiamati a farci carico. Riguarda la complessità della vita, l’amore e il dolore, la ricerca di senso, l’equilibrio interiore e quello nelle relazioni.

6 Lo stile del camminare insieme

Qualche parola la vogliamo dedicare anche allo stile del camminare insieme. Per questo siamo interessati a valorizzare e a dar seguito al cammino sinodale promosso dal Vescovo di Roma e iniziato lo scorso mese di ottobre anche a livello di Chiese locali.

A fronte di chi tenterà sempre di ritualizzare, burocratizzare e gerarchizzare tale esperienza per non far cambiar nulla di fatto, accogliamo come una necessità il metterci in ascolto del popolo, dando voce anche a chi finora per qualche motivo ne è stato escluso, fino a respirarvi la volontà a cui Dio ci chiama.

Non è una novità, ce l’eravamo solamente dimenticati: più il discernimento parte dall’ascolto, più è profondo e radicato il rinnovamento della Chiesa.

7 Memoria del Natale nella Chiesa e nella Società

La memoria del Natale è rivivere la nascita di Gesù nella stalla di Betlemme, bambino fra i bambini di un popolo povero e oppresso.

Dio si manifesta così: nella povertà, nella semplicità, non nella forza, nell’apparenza e nell’onnipotenza, perché l’unica sua potenza da Betlemme al Calvario è quella dell’amore completo e incondizionato verso tutte le persone, senza distinzione e differenza alcuna.

Vivere il Natale è sentire Dio che cammina con noi nell’umanità, nei gesti, nelle parole di Gesù di Nazareth. Rivivere il Natale significa vivere la concretezza e il mistero di una presenza, che ci sollecita continuamente ad incontrarlo nelle persone, le donne e gli uomini che incontriamo e quelli di ogni parte del Pianeta, solo geograficamente lontani, ma presenti nelle nostre vite.

Le comunità cristiane, la Chiesa tutta che vivono la memoria del Natale si riconoscono come fedeli e coerenti se sono caratterizzate dall’accoglienza, dall’ascolto e dalla cura, senza alcuna distinzione, peggio discriminazione.

Vivere il Natale diventa luce, incoraggiamento e sostegno da condividere con il NOI che siamo chiamati continuamente a costruire.

Può diventare un segno di luce nella laicità della storia per tutte le donne e gli uomini in cammino per costruire un’umanità di giustizia, pace e fratellanza.

 

I firmatari:
i preti Pierluigi Di Piazza, Franco Saccavini, Mario Vatta, Pierino Ruffato, Paolo Iannaccone, Fabio Gollinucci, Giacomo Tolot, Piergiorgio Rigolo, Renzo De Ros, Luigi Fontanot, Alberto De Nadai, Albino Bizzotto, Antonio Santini, Nandino Capovilla, Gianni Manziega, Lionello Dal Molin, Massimo Cadamuro, Giorgio Scatto;
Andrea Bellavite;

il Gruppo “Camminare Insieme” di Trieste; il Centro “Ernesto Balducci” di Zugliano (UD); l’Associazione “Esodo” di Venezia, la Comunità Monastica di Marango di Caorle (VE).

 

 

https://youtu.be/0G2BDJ35yNI

Riguardo alle 18 paginone scritte dal papa “emerito”

 

di Piero Murineddu

Bè, questa volta voglio buttarmi a fare una cosa umbè ma umbè azzardata, del tutto inusuale per feisbuk, abituati come si è a pubblicare slogans ad effetto e non di rado pappagallare frasi fatte, oppure scimmiottare stralci di pensieri altrui. Non tutti, certamente. Ma questa tentazione non si può negare che è abbastanza comune e non è facile divincolarsene. C’è poi il partito preso a prescindere, posizioni in cui ci si riconosce, o almeno si pensa di riconoscersi. Ripeto, non voglio generalizzare, ma la cosa è verosimile.

Prendiamo l’esempio su quanto ha scritto e fatto pubblicare il papa dimessosi, per motivi che presumiamo di sapere e su cui ci siamo sbizzarriti a fare le più svariate ipotesi. Anch’io sul mio “profilo” ho pubblicato un parere in merito, e se ho deciso di metterlo in questa mio diario, segno evidente che in qualche modo mi ritrovo. Ecco, questo è il tipico caso di partito preso. La fonte, cioè le 18 pagine con le quali il 265° papa della Chiesa Cattolica, Benedetto XVI, tra qualche giorno 92enne, non le avevo lette, ma siccome verso di lui non ho provato mai molta simpatia, oltre che non riconoscermi in certe sue posizioni prese durante il suo pontificato, ho divulgato un parere di un mio “amico” feisbuchino. Rispettabilissimo, per carità, ma nel mio piccolo mi son fatto divulgatore di un punto di vista prima ancora che conoscessi la fonte. Spaziando sul web, ho visto espresse tante considerazioni, ognuna giustamente secondo la lettura fatta, almeno credo e spero.

Ecco appunto la cosa “azzardata”: pubblicare l’intero testo e far si che ciascuno, volendolo e potendolo, si faccia un’idea personale. So benissimo che saranno mosche bianche quelli che leggeranno un testo che supera di molto i cinquanta caratteri, pressapoco la soglia limite dei lettori di questo social. I più volenterosi probabilmente tireranno un lungo fiato e arriveranno a leggerne una buona parte. I più, legittimamente, lasceranno perdere da subito. Ciascuno faccia come crede…

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APPUNTI SULLA CRISI DELLA FEDE A SEGUITO DELLA PEDOFILIA DI CHIERICI ED ALTRO

di Joseph Aloisius Ratzinger

 

Dal 21 al 24 febbraio 2019, su invito di Papa Francesco, si sono riuniti in Vaticano i presidenti di tutte le conferenze episcopali del mondo per riflettere insieme sulla crisi della fede e della Chiesa avvertita in tutto il mondo a seguito della diffusione delle sconvolgenti notizie di abusi commessi da chierici su minori. La mole e la gravità delle informazioni su tali episodi hanno profondamente scosso sacerdoti e laici e non pochi di loro hanno determinato la messa in discussione della fede della Chiesa come tale. Si doveva dare un segnale forte e si doveva provare a ripartire per rendere di nuovo credibile la Chiesa come luce delle genti e come forza che aiuta nella lotta contro le potenze distruttrici.

Avendo io stesso operato, al momento del deflagrare pubblico della crisi e durante il suo progressivo sviluppo, in posizione di responsabilità come pastore nella Chiesa, non potevo non chiedermi – pur non avendo più da Emerito alcuna diretta responsabilità – come, a partire da uno sguardo retrospettivo, potessi contribuire a questa ripresa. E così, nel lasso di tempo che va dall’annuncio dell’incontro dei presidenti delle conferenze episcopali al suo vero e proprio inizio, ho messo insieme degli appunti con i quali fornire qualche indicazione che potesse essere di aiuto in questo mo­mento difficile. A seguito di contatti con il Segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, e con lo stesso Santo Padre, ritengo giusto pubblicare su «Klerusblatt» il testo così concepito.

Il mio lavoro è suddiviso in tre parti. In un primo punto tento molto breve­mente di delineare in generale il contesto sociale della questione, in mancanza del quale il problema risulta incomprensibile. Cerco di mostrare come negli anni ’60 si sia verificato un processo inaudito, di un ordine di grandezza che nella storia è quasi senza precedenti. Si può affermare che nel ventennio 1960-1980 i criteri validi sino a quel momento in tema di sessualità sono venuti meno completamente e ne è risultata un’assenza di norme alla quale nel frattempo ci si è sforzati di rimediare.

In un secondo punto provo ad accennare alle conseguenze di questa si­tuazione nella formazione e nella vita dei sacerdoti.

Infine, in una terza parte, svilupperò alcune prospettive per una giusta ri­sposta da parte della Chiesa.

I

Il processo iniziato negli anni ’60 e la teologia morale

1. La situazione ebbe inizio con l’introduzione, decretata e sostenuta dallo Stato, dei bambini e della gioventù alla natura della sessualità. In Ger­mania Käte Strobel, la Ministra della salute di allora, fece produrre un film a scopo informativo nel quale veniva rappresentato tutto quello che sino a quel momento non poteva essere mostrato pubblicamente, rap­porti sessuali inclusi. Quello che in un primo tempo era pensato solo per informare i giovani, in seguito, come fosse ovvio, è stato accettato come possibilità generale.

Sortì effetti simili anche la «Sexkoffer» (valigia del sesso) curata dal governo austriaco. Film a sfondo sessuale e pornografici divennero una realtà, sino al punto da essere proiettati anche nei cinema delle stazioni. Ricordo ancora come un giorno, andando per Ratisbona, vidi che attendeva di fronte a un grande cinema una massa di persone come sino ad allora si era vista solo in tempo di guerra quando si sperava in qual­che distribuzione straordinaria. Mi è rimasto anche impresso nella memoria quando il Venerdì Santo del 1970 arrivai in città e vidi tutte le colonnine della pubblicità tappezzate di manifesti pubblicitari che presentavano in grande formato due persone completamente nude abbracciate strettamente.

Tra le libertà che la Rivoluzione del 1968 voleva conquistare c’era anche la completa libertà sessuale, che non tollerava più alcuna norma. La propensione alla violenza che caratterizzò quegli anni è strettamente legata a questo collasso spirituale. In effetti negli aerei non fu più consentita la proiezione di film a sfondo sessuale, giacché nella piccola comu­nità di passeggeri scoppiava la violenza. Poiché anche gli eccessi nel ve­stire provocavano aggressività, i presidi cercarono di introdurre un abbigliamento scolastico che potesse consentire un clima di studio.

Della fisionomia della Rivoluzione del 1968 fa parte anche il fatto che la pedofilia sia stata diagnosticata come permessa e conveniente. Quantomeno per i giovani nella Chiesa, ma non solo per loro, questo fu per molti versi un tempo molto difficile. Mi sono sempre chiesto come in questa situazione i giovani potessero andare verso il sacerdozio e accet­tarlo con tutte le sue conseguenze. Il diffuso collasso delle vocazioni sa­cerdotali in quegli anni e l’enorme numero di dimissioni dallo stato cle­ricale furono una conseguenza di tutti questi processi.

2. Indipendentemente da questo sviluppo, nello stesso periodo si è verifica­to un collasso della teologia morale cattolica che ha reso inerme la Chiesa di fronte a quei processi nella società. Cerco di delineare molto brevemente lo svolgimento di questa dinamica. Sino al Vaticano II la teologia morale cattolica veniva largamente fondata giusnaturalistica­mente, mentre la Sacra Scrittura veniva addotta solo come sfondo o a supporto. Nella lotta ingaggiata dal Concilio per una nuova compren­sione della Rivelazione, l’opzione giusnaturalistica venne quasi comple­tamente abbandonata e si esigette una teologia morale completamente fondata sulla Bibbia. Ricordo ancora come la Facoltà dei gesuiti di Francoforte preparò un giovane padre molto dotato (Bruno Schüller) per l’elaborazione di una morale completamente fondata sulla Scrittura. La bella dissertazione di padre Schüller mostra il primo passo dell’elaborazione di una morale fondata sulla Scrittura. Padre Schüller venne poi mandato negli Stati Uniti d’America per proseguire gli studi e tornò con la consapevolezza che non era possibile elaborare sistemati­camente una morale solo a partire dalla Bibbia. Egli tentò successiva­mente di elaborare una teologia morale che procedesse in modo più pragmatico, senza però con ciò riuscire a fornire una risposta alla crisi della morale.

Infine si affermò ampiamente la tesi per cui la morale dovesse essere de­finita solo in base agli scopi dell’agire umano. Il vecchio adagio «il fine giustifica i mezzi» non veniva ribadito in questa forma così rozza, e tut­tavia la concezione che esso esprimeva era divenuta decisiva. Perciò non poteva esserci nemmeno qualcosa di assolutamente buono né tantome­no qualcosa di sempre malvagio, ma solo valutazioni relative. Non c’era più il bene, ma solo ciò che sul momento e a seconda delle circostanze è relativamente meglio.

Sul finire degli anni ’80 e negli anni ’90 la crisi dei fondamenti e della presentazione della morale cattolica raggiunse forme drammatiche. Il 5 gennaio 1989 fu pubblicata la «Dichiarazione di Colonia» firmata da 15 professori di teologia cattolici che si concentrava su diversi punti critici del rapporto fra magistero episcopale e compito della teologia. Questo testo, che inizialmente non andava oltre il livello consueto delle rimo­stranze, crebbe tuttavia molto velocemente sino a trasformarsi in grido di protesta contro il magistero della Chiesa, raccogliendo in modo ben visibile e udibile il potenziale di opposizione che in tutto il mondo anda­va montando contro gli attesi testi magisteriali di Giovanni Paolo II (cfr. D. Mieth, Kölner Erklärung, LThK, VI3,196).

Papa Giovanni Paolo II, che conosceva molto bene la situazione della teologia morale e la seguiva con attenzione, dispose che s’iniziasse a la­vorare a un’enciclica che potesse rimettere a posto queste cose. Fu pubblicata con il titolo Veritatis splendor il 6 agosto 1993 suscitando violente reazioni contrarie da parte dei teologi morali. In precedenza già c’era stato il Catechismo della Chiesa cattolica che aveva sistematica­mente esposto in maniera convincente la morale insegnata dalla Chiesa.

Non posso dimenticare che Franz Böckle – allora fra i principali teologi morali di lingua tedesca, che dopo essere stato nominato professore emerito si era ritirato nella sua patria svizzera -, in vista delle possibili decisioni di Veritatis splendor, dichiarò che se l’Enciclica avesse deciso che ci sono azioni che sempre e in ogni circostanza vanno considerate malvagie, contro questo egli avrebbe alzato la sua voce con tutta la forza che aveva. Il buon Dio gli risparmiò la realizzazione del suo proposito; Böckle morì l’8 luglio 1991. L’Enciclica fu pubblicata il 6 agosto 1993 e in effetti conteneva l’affermazione che ci sono azioni che non possono mai diventare buone. Il Papa era pienamente consapevole del peso di quella decisione in quel momento e, proprio per questa parte del suo scritto, aveva consultato ancora una volta esperti di assoluto livello che di per sé non avevano partecipato alla redazione dell’Enciclica. Non ci poteva e non ci doveva essere alcun dubbio che la morale fondata sul principio del bilanciamento di beni deve rispettare un ultimo limite. Ci sono beni che sono indisponibili. Ci sono valori che non è mai lecito sacrificare in nome di un valore ancora più alto e che stanno al di sopra anche della conservazione della vita fisica. Dio è di più anche della sopravvivenza fisica. Una vita che fosse acquistata a prezzo del rinnegamento di Dio, una vita basata su un’ultima menzogna, è una non-vita. Il martirio è una categoria fondamentale dell’esistenza cristiana. Che esso in fondo, nella teoria sostenuta da Böckle e da molti altri, non sia più moralmente necessario, mostra che qui ne va dell’essenza stessa del cristianesimo.

Nella teologia morale, nel frattempo, era peraltro divenuta pressante un’altra questione: si era ampiamente affermata la tesi che al magistero della Chiesa spetti la competenza ultima e definitiva («infallibilità») solo sulle questioni di fede, mentre le questioni della morale non potrebbero divenire oggetto di decisioni infallibili del magistero ecclesiale. In questa tesi c’è senz’altro qualcosa di giusto che merita di essere ulteriormente discusso e approfondito. E tuttavia c’è un minimum morale che è inscindibilmente connesso con la decisione fondamentale di fede e che deve essere difeso, se non si vuole ridurre la fede a una teoria e si riconosce, al contrario, la pretesa che essa avanza rispetto alla vita concreta. Da tutto ciò emerge come sia messa radicalmente in discussione l’autorità della Chiesa in campo morale. Chi in quest’ambito nega alla Chiesa un’ultima competenza dottrinale, la costringe al silenzio proprio dove è in gioco il confine fra verità e menzogna.

Indipendentemente da tale questione, in ampi settori della teologia mo­rale si sviluppò la tesi che la Chiesa non abbia né possa avere una propria morale. Nell’affermare questo si sottolinea come tutte le affermazioni morali avrebbero degli equivalenti anche nelle altre religioni e che dunque non potrebbe esistere un proprium cristiano. Ma alla questione del proprium di una morale biblica, non si risponde affermando che, per ogni singola frase, si può trovare da qualche parte un’equivalente in al­tre religioni. È invece l’insieme della morale biblica che come tale è nuo­vo e diverso rispetto alle singole parti. La peculiarità dell’insegnamento morale della Sacra Scrittura risiede ultimamente nel suo ancoraggio all’immagine di Dio, nella fede nell’unico Dio che si è mostrato in Gesù Cristo e che ha vissuto come uomo. Il Decalogo è un’applicazione alla vi­ta umana della fede biblica in Dio. Immagine di Dio e morale vanno in­sieme e producono così quello che è specificamente nuovo dell’atteggiamento cristiano verso il mondo e la vita umana. Del resto, sin dall’inizio il cristianesimo è stato descritto con la parola hodòs. La fede è un cammino, un modo di vivere. Nella Chiesa antica, rispetto a una cultura sempre più depravata, fu istituito il catecumenato come spazio di esistenza nel quale quel che era specifico e nuovo del modo di vivere cristiano veniva insegnato e anche salvaguardato rispetto al modo di vivere comune. Penso che anche oggi sia necessario qualcosa di simi­le a comunità catecumenali affinché la vita cristiana possa affermarsi nella sua peculiarità.

II

Prime reazioni ecclesiali

1. Il processo di dissoluzione della concezione cristiana della morale, da lungo tempo preparato e che è in corso, negli anni ’60, come ho cercato di mostrare, ha conosciuto una radicalità come mai c’era stata prima di allora. Questa dissoluzione dell’autorità dottrinale della Chiesa in materia morale doveva necessariamente ripercuotersi anche nei diversi spazi di vita della Chiesa. Nell’ambito dell’incontro dei presidenti delle Conferenze episcopali di tutto il mondo, interessa soprattutto la questione della vita sacerdotale e inoltre quella dei seminari. Riguardo al problema della preparazione al ministero sacerdotale nei seminari, si constata in effetti un ampio collasso della forma vigente sino a quel momento di questa preparazione.

In diversi seminari si formarono club omosessuali che agivano più o meno apertamente e che chiaramente trasformarono il clima nei seminari. In un seminario nella Germania meridionale i candidati al sacerdozio e i candidati all’ufficio laicale di referente pastorale vivevano in­sieme. Durante i pasti comuni, i seminaristi stavano insieme ai referenti pastorali coniugati in parte accompagnati da moglie e figlio e in qualche caso dalle loro fidanzate. Il clima nel seminario non poteva aiutare la formazione sacerdotale. La Santa Sede sapeva di questi problemi, senza esserne informata nel dettaglio. Come primo passo fu disposta una Visita apostolica nei seminari degli Stati Uniti.

Poiché dopo il Concilio Vaticano II erano stati cambiati pure i criteri per la scelta e la nomina dei vescovi, anche il rapporto dei vescovi con i loro seminari era differente. Come criterio per la nomina di nuovi vescovi va­leva ora soprattutto la loro «conciliarità», potendo intendersi natural­mente con questo termine le cose più diverse. In molte parti della Chie­sa, il sentire conciliare venne di fatto inteso come un atteggiamento cri­tico o negativo nei confronti della tradizione vigente fino a quel momen­to, che ora doveva essere sostituita da un nuovo rapporto, radicalmente aperto, con il mondo. Un vescovo, che in precedenza era stato rettore, aveva mostrato ai seminaristi film pornografici, presumibilmente con l’intento di renderli in tal modo capaci di resistere contro un comportamento contrario alla fede. Vi furono singoli vescovi – e non solo negli Stati Uniti d’America – che rifiutarono la tradizione cattolica nel suo complesso mirando nelle loro diocesi a sviluppare una specie di nuova, moderna «cattolicità». Forse vale la pena accennare al fatto che, in non pochi seminari, studenti sorpresi a leggere i miei libri venivano considerati non idonei al sacerdozio. I miei libri venivano nascosti come letteratura dannosa e venivano per così dire letti sottobanco.

La Visita che seguì non portò nuove informazioni, perché evidentemente diverse forze si erano coalizzate al fine di occultare la situazione reale. Venne disposta una seconda Visita che portò assai più informazioni, ma nel complesso non ebbe conseguenze. Ciononostante, a partire dagli anni ’70, la situazione nei seminari in generale si è consolidata. E tutta­via solo sporadicamente si è verificato un rafforzamento delle vocazioni, perché nel complesso la situazione si era sviluppata diversamente.

2. La questione della pedofilia è, per quanto ricordi, divenuta scottante solo nella seconda metà degli anni ’80. Negli Stati Uniti nel frattempo era già cresciuta, divenendo un problema pubblico. Così i vescovi chiesero aiuto a Roma perché il diritto canonico, così come fissato nel Nuovo Co­dice, non appariva sufficiente per adottare le misure necessarie. In un primo momento Roma e i canonisti romani ebbero delle difficoltà con questa richiesta; a loro avviso, per ottenere purificazione e chiarimento sarebbe dovuta bastare la sospensione temporanea dal ministero sacerdotale. Questo non poteva essere accettato dai vescovi americani perché in questo modo i sacerdoti restavano al servizio del vescovo venendo così ritenuti come figure direttamente a lui legate. Un rinnovamento e un approfondimento del diritto penale, intenzionalmente costruito in modo blando nel Nuovo Codice, poté farsi strada solo lentamente.

A questo si aggiunse un problema di fondo che riguardava la concezione del diritto penale. Ormai era considerato «conciliare» solo il così detto «garantismo». Significa che dovevano essere garantiti soprattutto i diritti degli accusati e questo fino al punto da escludere di fatto una condanna. Come contrappeso alla possibilità spesso insufficiente di difendersi da parte di teologi accusati, il loro diritto alla difesa venne talmente esteso nel senso del garantismo che le condanne divennero quasi impossibili.

Mi sia consentito a questo punto un breve excursus. Di fronte all’estensione delle colpe di pedofilia, viene in mente una parola di Gesù che dice: «Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare» (Mc 9,42). Nel suo significato originario questa parola non parla dell’adescamento di bambini a scopo sessuale. Il termine «i piccoli» nel linguaggio di Gesù designa i credenti semplici, che potrebbero essere scossi nella loro fede dalla superbia intellettuale di quelli che si credono intelligenti. Gesù qui allora protegge il bene della fede con una perentoria minaccia di pena per coloro che le recano offesa. Il moderno utilizzo di quelle parole in sé non è sbagliato, ma non deve occultare il loro sen­so originario. In esso, contro ogni garantismo, viene chiaramente in luce che è importante e abbisogna di garanzia non solo il diritto dell’accusato. Sono altrettanto importanti beni preziosi come la fede. Un diritto canonico equilibrato, che corrisponda al messaggio di Gesù nella sua interezza, non deve dunque essere garantista solo a favore dell’accusato, il cui rispetto è un bene protetto dalla legge. Deve proteg­gere anche la fede, che del pari è un bene importante protetto dalla legge. Un diritto canonico costruito nel modo giusto deve dunque contenere una duplice garanzia: protezione giuridica dell’accusato e protezione giuridica del bene che è in gioco. Quando oggi si espone questa concezione in sé chiara, in genere ci si scontra con sordità e indifferenza sulla questione della protezione giuridica della fede. Nella coscienza giuridica comune la fede non sembra più avere il rango di un bene da proteggere. È una situazione preoccupante, sulla quale i pastori della Chiesa devo­no riflettere e considerare seriamente.

Ai brevi accenni sulla situazione della formazione sacerdotale al mo­mento del deflagrare pubblico della crisi, vorrei ora aggiungere alcune indicazioni sull’evoluzione del diritto canonico in questa questione. In sé, per i delitti commessi dai sacerdoti è responsabile la Congregazione per il clero. Poiché tuttavia in essa il garantismo allora dominava am­piamente la situazione, concordammo con papa Giovanni Paolo II sull’opportunità di attribuire la competenza su questi delitti alla Con­gregazione per la Dottrina della Fede, con la titolatura «Delicta maiora contra fidem». Con questa attribuzione diveniva possibile anche la pena massima, vale a dire la riduzione allo stato laicale, che invece non sa­rebbe stata comminabile con altre titolature giuridiche. Non si trattava di un escamotage per poter comminare la pena massima, ma una con­seguenza del peso della fede per la Chiesa. In effetti è importante tener presente che, in simili colpe di chierici, ultimamente viene danneggiata la fede: solo dove la fede non determina più l’agire degli uomini sono possibili tali delitti. La gravità della pena presuppone tuttavia anche una chiara prova del delitto commesso: è il contenuto del garantismo che rimane in vigore. In altri termini: per poter legittimamente comminare la pena massima è necessario un vero processo penale. E tuttavia, in questo modo si chiedeva troppo sia alle diocesi che alla Santa Sede. E così stabilimmo una forma minima di processo penale e lasciammo aperta la possibilità che la stessa Santa Sede avocasse a sé il processo nel caso che la diocesi o la metropolia non fossero in grado di svolgerlo. In ogni caso il processo doveva essere verificato dalla Congregazione per la Dottrina della Fede per garantire i diritti dell’accusato. Alla fine, però, nella Feria IV (vale a dire la riunione di tutti i membri della Congrega­zione), creammo un’istanza d’appello, per avere anche la possibilità di un ricorso contro il processo. Poiché tutto questo in realtà andava al di là delle forze della Congregazione per la Dottrina della Fede e si verificavano dei ritardi che invece, a motivo della materia, dovevano essere evi­tati, papa Francesco ha intrapreso ulteriori riforme.

III

Alcune prospettive

1. Cosa dobbiamo fare? Dobbiamo creare un’altra Chiesa affinché le cose possano aggiustarsi? Questo esperimento già è stato fatto ed è già falli­to. Solo l’amore e l’obbedienza a nostro Signore Gesù Cristo possono in­dicarci la via giusta. Proviamo perciò innanzitutto a comprendere in modo nuovo e in profondità cosa il Signore abbia voluto e voglia da noi.

In primo luogo direi che, se volessimo veramente sintetizzare al massi­mo il contenuto della fede fondata nella Bibbia, potremmo dire: il Signo­re ha iniziato con noi una storia d’amore e vuole riassumere in essa l’intera creazione. L’antidoto al male che minaccia noi e il mondo intero ultimamente non può che consistere nel fatto che ci abbandoniamo a questo amore. Questo è il vero antidoto al male. La forza del male nasce dal nostro rifiuto dell’amore a Dio. È redento chi si affida all’amore di Dio. Il nostro non essere redenti poggia sull’incapacità di amare Dio. Imparare ad amare Dio è dunque la strada per la redenzione degli uo­mini.

Se ora proviamo a svolgere un po’ più ampiamente questo contenuto es­senziale della Rivelazione di Dio, potremmo dire: il primo fondamentale dono che la fede ci offre consiste nella certezza che Dio esiste. Un mon­do senza Dio non può essere altro che un mondo senza senso. Infatti, da dove proviene tutto quello che è? In ogni caso sarebbe privo di un fondamento spirituale. In qualche modo ci sarebbe e basta, e sarebbe privo di qualsiasi fine e di qualsiasi senso. Non vi sarebbero più criteri del bene e del male. Dunque avrebbe valore unicamente ciò che è più forte. Il potere diviene allora l’unico principio. La verità non conta, anzi in realtà non esiste. Solo se le cose hanno un fondamento spirituale, so­lo se sono volute e pensate – solo se c’è un Dio creatore che è buono e vuole il bene – anche la vita dell’uomo può avere un senso.

Che Dio ci sia come creatore e misura di tutte le cose, è innanzitutto un’esigenza originaria. Ma un Dio che non si manifestasse affatto, che non si facesse riconoscere, resterebbe un’ipotesi e perciò non potrebbe determinare la forma della nostra vita. Affinché Dio sia realmente Dio nella creazione consapevole, dobbiamo attenderci che egli si manifesti in una qualche forma. Egli lo ha fatto in molti modi, e in modo decisivo nella chiamata che fu rivolta ad Abramo e diede all’uomo quell’orientamento, nella ricerca di Dio, che supera ogni attesa: Dio di­viene creatura egli stesso, parla a noi uomini come uomo.

Così finalmente la frase «Dio è» diviene davvero una lieta novella, pro­prio perché è più che conoscenza, perché genera amore ed è amore. Rendere gli uomini nuovamente consapevoli di questo, rappresenta il primo e fondamentale compito che il Signore ci assegna.

Una società nella quale Dio è assente – una società che non lo conosce più e lo tratta come se non esistesse – è una società che perde il suo cri­terio. Nel nostro tempo è stato coniato il motto della «morte di Dio». Quando in una società Dio muore, essa diviene libera, ci è stato assicurato. In verità, la morte di Dio in una società significa anche la fine della sua libertà, perché muore il senso che offre orientamento. E perché vie­ne meno il criterio che ci indica la direzione insegnandoci a distinguere il bene dal male. La società occidentale è una società nella quale Dio nella sfera pubblica è assente e per la quale non ha più nulla da dire. E per questo è una società nella quale si perde sempre più il criterio e la misura dell’umano. In alcuni punti, allora, a volte diviene improvvisa­mente percepibile che è divenuto addirittura ovvio quel che è male e che distrugge l’uomo. È il caso della pedofilia. Teorizzata ancora non troppo tempo fa come del tutto giusta, essa si è diffusa sempre più. E ora, scossi e scandalizzati, riconosciamo che sui nostri bambini e giovani si commet­tono cose che rischiano di distruggerli. Che questo potesse diffondersi anche nella Chiesa e tra i sacerdoti deve scuoterci e scandalizzarci in misura particolare.

Come ha potuto la pedofilia raggiungere una dimensione del genere? In ultima analisi il motivo sta nell’assenza di Dio. Anche noi cristiani e sacerdoti preferiamo non parlare di Dio, perché è un discorso che non sembra avere utilità pratica. Dopo gli sconvolgimenti della Seconda guerra mondiale, in Germania avevamo adottato la nostra Costituzione dichiarandoci esplicitamente responsabili davanti a Dio come criterio guida. Mezzo secolo dopo non era più possibile, nella Costituzione euro­pea, assumere la responsabilità di fronte a Dio come criterio di misura. Dio viene visto come affare di partito di un piccolo gruppo e non può più essere assunto come criterio di misura della comunità nel suo complesso. In questa decisione si rispecchia la situazione dell’Occidente, nel quale Dio è divenuto fatto privato di una minoranza.

Il primo compito che deve scaturire dagli sconvolgimenti morali del no­stro tempo consiste nell’iniziare di nuovo noi stessi a vivere di Dio, rivol­ti a lui e in obbedienza a lui. Soprattutto dobbiamo noi stessi di nuovo imparare a riconoscere Dio come fondamento della nostra vita e non ac­cantonarlo come fosse una parola vuota qualsiasi. Mi resta impresso il monito che il grande teologo Hans Urs von Balthasar vergò una volta su uno dei suoi biglietti: «Il Dio trino, Padre, Figlio e Spirito Santo: non presupporlo ma anteporlo!». In effetti, anche nella teologia, spesso Dio viene presupposto come fosse un’ovvietà, ma concretamente di lui non ci si occupa. Il tema «Dio» appare così irreale, così lontano dalle cose che ci occupano. E tuttavia cambia tutto se Dio non lo si presuppone, ma lo si antepone. Se non lo si lascia in qualche modo sullo sfondo ma lo si riconosce come centro del nostro pensare, parlare e agire.

2. Dio è divenuto uomo per noi. La creatura uomo gli sta talmente a cuore che egli si è unito a essa entrando concretamente nella storia. Parla con noi, vive con noi, soffre con noi e per noi ha preso su di sé la morte. Di questo certo parliamo diffusamente nella teologia con un linguaggio e con concetti dotti. Ma proprio così nasce il pericolo che ci facciamo si­gnori della fede, invece di lasciarci rinnovare e dominare dalla fede.

Consideriamo questo riflettendo su un punto centrale, la celebrazione della Santa Eucaristia. Il nostro rapporto con l’Eucaristia non può che destare preoccupazione. A ragione il Vaticano II intese mettere di nuovo al centro della vita cristiana e dell’esistenza della Chiesa questo sacra­mento della presenza del corpo e del sangue di Cristo, della presenza della sua persona, della sua passione, morte e risurrezione. In parte questa cosa è realmente avvenuta e per questo vogliamo di cuore ringraziare il Signore.

Ma largamente dominante è un altro atteggiamento: non domina un nuovo profondo rispetto di fronte alla presenza della morte e risurrezio­ne di Cristo, ma un modo di trattare con lui che distrugge la grandezza del mistero. La calante partecipazione alla celebrazione domenicale dell’Eucaristia mostra quanto poco noi cristiani di oggi siamo in grado di valutare la grandezza del dono che consiste nella Sua presenza reale. L’Eucaristia è declassata a gesto cerimoniale quando si considera ovvio che le buone maniere esigano che sia distribuita a tutti gli invitati a ra­gione della loro appartenenza al parentado, in occasione di feste familia­ri o eventi come matrimoni e funerali. L’ovvietà con la quale in alcuni luoghi i presenti, semplicemente perché tali, ricevono il Santissimo Sa­cramento mostra come nella Comunione si veda ormai solo un gesto cerimoniale. Se riflettiamo sul da farsi, è chiaro che non abbiamo bisogno di un’altra Chiesa inventata da noi. Quel che è necessario è invece il rinnovamento della fede nella realtà di Gesù Cristo donata a noi nel Sacramento.

Nei colloqui con le vittime della pedofilia sono divenuto consapevole con sempre maggiore forza di questa necessità. Una giovane ragazza che serviva all’altare come chierichetta mi ha raccontato che il vicario parrocchiale, che era suo superiore visto che lei era chierichetta, introduceva l’abuso sessuale che compiva su di lei con queste parole: «Questo è il mio corpo che è dato per te». È evidente che quella ragazza non può più ascoltare le parole della consacrazione senza provare terribilmente su di sé tutta la sofferenza dell’abuso subìto. Sì, dobbiamo urgentemen­te implorare il perdono del Signore e soprattutto supplicarlo e pregarlo di insegnare a noi tutti a comprendere nuovamente la grandezza della sua passione, del suo sacrificio. E dobbiamo fare di tutto per proteggere dall’abuso il dono della Santa Eucaristia.

3. Ed ecco infine il mistero della Chiesa. Restano impresse nella memoria le parole con cui ormai quasi cento anni fa Romano Guardini esprimeva la gioiosa speranza che allora si affermava in lui e in molti altri: «Un evento di incalcolabile portata è iniziato: La Chiesa si risveglia nelle anime». Con questo intendeva dire che la Chiesa non era più, come prima, semplicemente un apparato che ci si presenta dal di fuori, vissu­ta e percepita come una specie di ufficio, ma che iniziava ad essere sen­tita viva nei cuori stessi: non come qualcosa di esteriore ma che ci toc­cava dal di dentro. Circa mezzo secolo dopo, riflettendo di nuovo su quel processo e guardando a cosa era appena accaduto, fui tentato di capo­volgere la frase: «La Chiesa muore nelle anime». In effetti oggi la Chiesa viene in gran parte vista solo come una specie di apparato politico. Di fatto, di essa si parla solo utilizzando categorie politiche e questo vale persino per dei vescovi che formulano la loro idea sulla Chiesa di domani in larga misura quasi esclusivamente in termini politici. La crisi cau­sata da molti casi di abuso ad opera di sacerdoti spinge a considerare la Chiesa addirittura come qualcosa di malriuscito che dobbiamo decisa­mente prendere in mano noi stessi e formare in modo nuovo. Ma una Chiesa fatta da noi non può rappresentare alcuna speranza.

Gesù stesso ha paragonato la Chiesa a una rete da pesca nella quale stanno pesci buoni e cattivi, essendo Dio stesso colui che alla fine dovrà separare gli uni dagli altri. Accanto c’è la parabola della Chiesa come un campo sul quale cresce il buon grano che Dio stesso ha seminato, ma anche la zizzania che un «nemico» di nascosto ha seminato in mezzo al grano. In effetti, la zizzania nel campo di Dio, la Chiesa, salta all’occhio per la sua quantità e anche i pesci cattivi nella rete mostrano la loro forza. Ma il campo resta comunque campo di Dio e la rete rimane rete da pesca di Dio. E in tutti i tempi c’è e ci saranno non solo la zizzania e i pesci cattivi ma anche la semina di Dio e i pesci buoni. Annunciare in egual misura entrambe con forza non è falsa apologetica, ma un servizio necessario reso alla verità.

In quest’ambito è necessario rimandare a un importante testo della Apocalisse di San Giovanni. Qui il diavolo è chiamato accusatore che accusa i nostri fratelli dinanzi a Dio giorno e notte (Ap 12, 10). In questo modo l’Apocalisse riprende un pensiero che sta al centro del racconto che fa da cornice al libro di Giobbe (Gb 1 e 2, 10; 42, 7-16). Qui si narra che il diavolo tenta di screditare la rettitudine e l’integrità di Giobbe co­me puramente esteriori e superficiali. Si tratta proprio di quello di cui parla l’Apocalisse: il diavolo vuole dimostrare che non ci sono uomini giusti; che tutta la giustizia degli uomini è solo una rappresentazione esteriore. Che se la si potesse saggiare di più, ben presto l’apparenza della giustizia svanirebbe. Il racconto inizia con una disputa fra Dio e il diavolo in cui Dio indicava in Giobbe un vero giusto. Ora sarà dunque lui il banco di prova per stabilire chi ha ragione. «Togligli quanto possie­de – argomenta il diavolo – e vedrai che nulla resterà della sua devozio­ne». Dio gli permette questo tentativo dal quale Giobbe esce in modo po­sitivo. Ma il diavolo continua e dice: «Pelle per pelle; tutto quanto ha, l’uomo è pronto a darlo per la sua vita. Ma stendi un poco la mano e toccalo nell’osso e nella carne e vedrai come ti benedirà in faccia» (Gb 2, 4s). Così Dio concede al diavolo una seconda possibilità. Gli è permesso anche di stendere la mano su Giobbe. Unicamente gli è precluso ucci­derlo. Per i cristiani è chiaro che quel Giobbe che per tutta l’umanità esemplarmente sta di fronte a Dio è Gesù Cristo. Nell’Apocalisse, il dramma dell’uomo è rappresentato in tutta la sua ampiezza. Al Dio creatore si contrappone il diavolo che scredita l’intera creazione e l’intera umanità. Egli si rivolge non solo a Dio ma soprattutto agli uo­mini dicendo: «Ma guardate cosa ha fatto questo Dio. Apparentemente una creazione buona. In realtà nel suo complesso è piena di miseria e di schifo». Il denigrare la creazione in realtà è un denigrare Dio. Il diavolo vuole dimostrare che Dio stesso non è buono e vuole allontanarci da lui.

L’attualità di quel che dice l’Apocalisse è lampante. L’accusa contro Dio oggi si concentra soprattutto nello screditare la sua Chiesa nel suo complesso e così nell’allontanarci da essa. L’idea di una Chiesa migliore creata da noi stessi è in verità una proposta del diavolo con la quale vuole allontanarci dal Dio vivo, servendosi di una logica menzognera nella quale caschiamo sin troppo facilmente. No, anche oggi la Chiesa non consiste solo di pesci cattivi e di zizzania. La Chiesa di Dio c’è an­che oggi, e proprio anche oggi essa è lo strumento con il quale Dio ci salva. È molto importante contrapporre alle menzogne e alle mezze verità del diavolo tutta la verità: sì, il peccato e il male nella Chiesa ci sono. Ma anche oggi c’è pure la Chiesa santa che è indistruttibile. Anche oggi ci sono molti uomini che umilmente credono, soffrono e amano e nei quali si mostra a noi il vero Dio, il Dio che ama. Anche oggi Dio ha i suoi testimoni («martyres») nel mondo. Dobbiamo solo essere vigili per vederli e ascoltarli.

Il termine martire è tratto dal diritto processuale. Nel processo contro il diavolo, Gesù Cristo è il primo e autentico testimone di Dio, il primo martire, al quale da allora innumerevoli ne sono seguiti. La Chiesa di oggi è come non mai una Chiesa di martiri e così testimone del Dio vivente. Se con cuore vigile ci guardiamo intorno e siamo in ascolto, ovunque, fra le persone semplici ma anche nelle alte gerarchie della Chiesa, possiamo trovare testimoni che con la loro vita e la loro soffe­renza si impegnano per Dio. È pigrizia del cuore non volere accorgersi di loro. Fra i compiti grandi e fondamentali del nostro annuncio c’è, nel limite delle nostre possibilità, il creare spazi di vita per la fede, e soprat­tutto il trovarli e il riconoscerli.

Vivo in una casa nella quale una piccola comunità di persone scopre di continuo, nella quotidianità, testimoni così del Dio vivo, indicandoli an­che a me con letizia. Vedere e trovare la Chiesa viva è un compito meraviglioso che rafforza noi stessi e che sempre di nuovo ci fa essere lieti della fede.

Alla fine delle mie riflessioni vorrei ringraziare Papa Francesco per tutto quello che fa per mostrarci di continuo la luce di Dio che anche oggi non è tramontata. Grazie, Santo Padre!


David Maria e don Lorenzo

 

 

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di Piero Murineddu

Come ridare la parola ai poveri,l’argomento che più di ogni altro tormentava Lorenzo”.

Scrive così padre David Maria Turoldo nel suo libretto ” Il mio amico don Milani“, nato da appunti che aveva lasciato dopo la sua morte, all’interno di una cartella con su scritto “Milani”.

Un libretto per me preziosissimo, che non mi stanco di sfogliare e risfogliare, perchè ogni parola, ogni passaggio sono per me nutrimento continuo, e che ora, pensando di fare cosa gradita, decido di condividerlo in questo spazio.

Due uomini di carattere e temperamento diversissimi: diffidente, guardingo e leggermente ombroso Lorenzo, specialmente nel primo impatto, mentre David era si espansivo e solitamente sorridente, ma anche per lui – come scrive nell’ introduzione al libretto Abramo Levi che lo accompagnò a Barbiana nel 1967 qualche mese prima della morte di Milani – non mancavano i momenti in cui aveva il cuore “basso”, anzi, a quanto pare capitava spesso.

Un piccolo volume da tenere nel proprio comodino e da leggere preferibilmente nel silenzio notturno, come ho appena finito di fare, in quei momenti distanti dagli impegni e dal continuo correre quotidiani, quando si ha quella particolarissima predisposizione d’animo in cui ci si trova a tu per tu con ciò che si é nel profondo e quello che si ha realmente a cuore.

In quel particolare spazio in cui si é spogli di tutte le armi difensive e “offensive” con le quali normalmente si affronta una nuova giornata. Senza le solite preoccupazioni di rispondere a dei ruoli o alle aspettative che gli altri hanno nei tuoi confronti.

Occorre intendere bene ciò che David Maria dice di Lorenzo, divenuto prete da adulto perchè aveva intuito quale sarebbe stata la sua principale fatica: contribuire a far si che il povero diventasse una persona libera, in tutti i sensi, e che questa libertà se la dovesse conquistare.

Attenzione a non fraintendere. Libertà dalla miseria principalmente, cosa molto diversa dalla povertà. A stomaco vuoto per “dieta” forzata, non si ragiona e non ci sono le condizioni basilari per pensare ad altre cose.

Lo vediamo ogni giorno che chi si trova nella miseria assoluta spesso non si fa scrupolo ad umiliarsi, rinunciando quasi alla sua dignità. Ecco il motivo per cui don Milani (e molti che lo vedono come esempio o che semplicemente si ritrovano nella sua sensibilità) parteggiava sempre per i più svantaggiati: perchè in fondo sono sempre fatti oggetto di discriminazioni, presenti o passate.

Ma la mancanza di mezzi per vivere non è riferito solo al cibo.E qui veniamo al grande lavoro di promozione umana e culturale che questo prete ha fatto per quei ragazzi di montagna che gli son stati affidati e di cui ha cercato di prendersi massima cura.

Voglio comunque considerare l’aspetto che a me preme maggiormente. Oggi, coloro che in buona fede credono di essere dalla parte dei poveri, la grande moltitudine che patisce qualunque tipo di disagio non solo materiale, vogliono promuoverli o vogliono promuovere se stessi?

Un vecchio interrogativo che forse si dà troppo per scontato o addirittura è stato messo completamente da parte.

L’esempio lampante è il politico che dice di essere “a servizio”: per farsi strada o per migliorare la vita degli altri?

Ma anche per ciascuno di noi: lo facciamo per essere lodati e veder riconosciuto il nostro merito, o perchè abbiamo a cuore il benessere e la felicità altrui, ammesso che tale stato sia possibile?

Detto questo, torno alla fatica quotidiana affrontata da quel prete fiorentino mandato in esilio dal suo vescovo Florit perchè, con la pubblicazione del volume “Esperienze pastorali” , aveva fatto sapere in giro che si occupava troppo delle vicende terrene delle “anime” che gli erano state affidate.

Lui aiutava i ragazzi a diventare persone adulte e consapevoli, e aveva preso la cosa talmente sul serio, che spesso era eccessivamente intransigente con loro, motivo per cui, guarda un po’, scopriremo in seguito il grande amore con cui era ricambiata la sua severità. Non c’era tempo da sprecare nel fare “giochi da oratorio” o per ritemprare il fisico e di conseguenza la mente, come pensiamo che sia cosa giusta un po’ tutti.

No, per don Lorenzo non c’era tempo da perdere. Studiare, elaborare, conoscere, approfondire, confrontarsi…. Erano queste le condizioni perchè i poveri divenissero protagonisti del loro riscatto.

Da qui quanto afferma il suo e nostro amico David Maria:

“Don Lorenzo, un uomo in continua lotta, e non certo perché il povero diventi ricco, ma perché diventi un uomo libero, che conquisti da sé la sua libertà. Per questo egli voleva restituire ai poveri la parola, contro gli uomini dalle mille parole e pertanto sempre dominatori e sfruttatori.”

Buona lettura

Il mio amico don Milani

di David Maria Turoldo

Prima parte

UN UOMO CHE TI PIANTAVA GLI OCCHI IN FACCIA COME DUE PERFORATRICI

 

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La mia conoscenza personale risale addirittura al 1954. Don Milani stava ancora a Calenzano, alle porte di Firenze. Aveva già scritto quasi per intero le sue Esperienze pastorali: era di questo che con Gianni Meucci mi trovavo, nella sua disadorna stanza di Calenzano, a discutere. Una stanza che a lui serviva come studio e scuola e “salotto” per ricevere la gente, un locale tanto spoglio e nudo quanto era nuda e spoglia la sua parola e il suo volto.

Già d’allora ho avvertito l’identità di interno e di esterno, del dentro e del fuori di quest’uomo che ti piantava gli occhi in faccia come due perforatrici, E così già da allora ho cominciato a misurarmi con lui. E pur nella infocata polemica, mi ero con lui impegnato alla pubblicazione di quel libro presso la nostra Corsia dei Servi di Milano, anche se poi questo non è mai potuto avverarsi per via dell’imprimatur che mi è sempre stato categoricamente negato e che invece don Milani assolutamente esigeva. Un fatto cui accenna egli stesso in qualche sua lettera.

Anzi, per questo e altro, anche a me aveva scritto personalmente qualche lettera; purtroppo lettere perse o distrutte a causa dei miei spostamenti e di quanto mi è capitato nella mia avventura. Ne ricordo una particolarmente lunga e impegnata, sempre sull’argomento di come ridare la parola ai poveri, l’argomento che più di ogni altro lo tormentava.

Una frequentazione, dunque, e una conoscenza abbastanza coinvolgenti fino al punto di averlo perfino confessato. Ciò è accaduto presso l’Annunziata di Firenze, in uno sgabuzzino dietro la sacrestia, lui inginocchiato per terra, dentro la sua mantella nera e frustra, e io a giudicarlo in nome di Dio (!)

È per tutti questi fatti personali che io ho sempre stentato a parlare di don Milani: per delicatezza, per difficoltà mia personale, per la complessità della sua personalità come io l’ho vista (o credevo di vederla) anche dal di dentro. Avevo paura di servirmi di dati non riferibili, di interpretazioni fasulle; oppure temevo di finire anch’io o in clichè di parte, oppure in astrazioni offensive: tutti atteggiamenti da temere con terrore per chi ha conosciuto personalmente don Milani; atteggiamenti che penso lo fanno rivoltare anche da morto.

Un uomo con cui non si può scherzare; un uomo di denuncia e di rottura radicale e assoluta: denuncia che provoca resistenze a non finire, e condanne a diluvio come tutti sappiamo; una presenza da provocare anche oggi reazioni a catena. Per capirlo bisogna inserirci dentro il suo tempo e il suo luogo: Firenze, la Toscana. E la conversione; la vocazione; l’origine ebraica, l’ascendenza, da parte di madre, fino al grande Guicciardini.

Lui figlio di una casa pregna della più ricca e radicale cultura laica. Sono tutti richiami magistralmente esposti e rigorosamente documentati dalla biografia di lui, scritta da quella grande ricercatrice — tanto devota quanto scientificamente esatta — che è stata la Neera Fallaci, pubblicata col titolo Dalla parte dell’ultimo: un’opera che l’autrice stessa mi ha chiesto di presentare in occasione della seconda edizione. Cosa che ho fatto scrivendo un’introduzione di cui ora non posso non servirmi, e che ognuno può leggere nel libro citato; prefazione che a ragion veduta intitolavo “Santità da grandi tempi”.

Tempo, luogo, vita, scelte, opere: tutto un messaggio unico da giudicare soprattutto alla luce della conversione. Perché è stata la conversione il suo Sinai, o la sua Pentecoste; o l’uno e l’altro insieme. Perciò in lui ci sarà tanto di antico testamento quanto del nuovo, in un intreccio da calvario.

Tempo di guerre, e di dopo-guerre (che forse è peggio); e una vocazione che farà di lui un uomo di lotta implacabile; dentro un tempo di passaggio dalla civiltà agraria alla civiltà industriale; nella esplosione di infiniti problemi di cultura, di società, di religione. Società in sfacelo; moltitudini di poveri senza speranza; tempi di industriali-vampiri; valori e ideali in terribile crisi. Problemi della scuola, del lavoro, del cittadino, del credente: tutto un mondo in ebollizione.

Su tutto campeggiava il protagonista e la vittima: appunto, il povero. Da qui nasce il più grande avvocato dei poveri che io abbia mai conosciuto: lui, don Milani. Anzi neppure “dei poveri”, ma fratello e avvocato spietato del povero al singolare: perciò la Fallaci ha intitolato bene il suo lavoro, scrivendo la sua vita Dalla parte dell’ultimo. Dell’ ultimo, non degli ultimi. Don Milani sarà l’uomo più concreto e incarnato in fatto di fede, quanto a noi è difficile perfino immaginare.

Anche in questo rimarrà un ebreo che non solo odia gli astratti, ma neppure li conosce. La sua fede, proprio perché si tratta di fede adamantina, sarà sempre inserita dentro un contesto culturale da dove nasce il più originale e maggiore educatore del nostro tempo: lui, don Milani, che farà della scuola la sua unica consumante pastorale, la legge del suo sacerdozio, e il suo messaggio più rivoluzionario.

Seconda parte

CONTRO GLI UOMINI DALLE MILLE PAROLE, E PERTANTO SEMPRE DOMINATORI E SFRUTTATORI

 

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Luogo, Firenze; famiglia imparentata con Guicciardini addirittura. Ebreo e cattolico: tanto ebreo quanto cattolico. Anche in questo potrebbe essere di richiamo; per dirci quanto l’antico testamento non va disgiunto dal nuovo testamento; per dire quanto la legge non va disgiunta dallo spirito; la giustizia dalla carità. Per dire come bisogna convertire il sistema: perciò non si può non essere se non “segni di contraddizione e di opposizione per molti”; secondo l’ultima preghiera di Cristo stesso rivolta al Padre, «perché i suoi non siano del mondo»; «essi sono nel mondo ma non sono del mondo»! Per dire quanto Cristo è figlio d’Israele.

Una vita singolare, irripetibile, misteriosa, fulminante. E la sua conversione, che è la chiave per entrare nel suo segreto. Non è precisamente abbandono del suo ebraismo, ma è il substrato e l’humus della sua condizione di cristiano.

È dentro questo quadro che va giudicato anche il suo concetto di chiesa; chiesa che diventa la sua Torah; una Torah comunque da salvare e ricreare continuamente con lo spirito di Cristo. Pertanto una Torah e una chiesa osservata e vissuta fino alla scrupolosità; una realtà da mai più abbandonare, costi quello che costi, anche il martirio se necessario; anche la proscrizione e la condanna, se necessario.

Una fede sempre rapportata al povero; basata sullo stesso istinto ebraico; chiamata a farsi corposità. Appunto, storia. Per questo è importante rifarci alla lettera indirizzata a don Piero dove egli parla della tragedia più grossa del prete:

«Per un prete, quale tragedia più grossa di questa potrà mai venire? Essere liberi, avere in mano sacramenti, camera, senato, stampa, radio, campanili, pulpiti, scuola e con tutto questa dovizia di mezzi divini e umani raccogliere il bel frutto d’esser derisi dai poveri, odiati dai più deboli, amati dai più forti. Aver la chiesa vuota. Vedersela vuotare ogni giorno di più. Saper che presto sarà finita per la fede dei poveri. Non ti vien fatto perfino di domandarti se la persecuzione potrà esser peggio di tutto questo?». (Esperienze pastorali)

Un prete irretito fino alla fobia dal sospetto contro gli intellettuali: e tutto perché visti come responsabili di una cultura astratta; di una cultura imputabile del più grande tradimento: quello appunto di essersi dimenticata dei poveri.

Uomo spietato non tanto contro gli altri quanto contro se stesso. Tanto tenero quanto feroce; tanto obbediente quanto libero; tanto assetato di grazia quanto divorato dal peccato del mondo: peccato che per lui sarà l’ingiustizia; mentre la giustizia sarà la verità. Perciò un uomo in lotta per il povero: non certo perché il povero diventi ricco, ma perché diventi un uomo libero, uno che conquisti da sé la sua libertà. Perciò egli vuole restituire ai poveri la parola: contro gli uomini dalle mille parole, e pertanto sempre dominatori e sfruttatori.

A questo punto mi permetto di utilizzare la mia stessa prefazione, di cui dicevo sopra, sia perché si tratta di cose vissute, sia perché, specialmente a rilettura finita del libro di Neera Fallaci, sento tutta la verità di quanto ho già scritto. Così mi sarà più facile farmi capire, rivelare tutto il mio stato d’animo, dire come la profezia continui nella chiesa. Perché io sono stato testimone diretto, frequentatore di profeti, e tuttavia… Precisamente così ho scritto in occasione di quella presentazione:

«Che vergogna! Essere stati contemporanei di papa Giovanni, di don Mazzolari, di don Milani; anzi, essere stati loro amici e commensali, e non avere imparato. È non esserci convertiti. Ed essere quelli di sempre. Peggio di sempre! Sì, perché si viene dopo un concilio, si viene dopo queste lotte furibonde dei poveri contro i ricchi, lasciando soli i primi e “fornicando” sottilmente, ma poi non tanto segretamente, coi secondi. Si viene dopo quel forsennato 18 aprile dove ci siamo tutti “prostituiti” e ora ne portiamo la colpa e il rimorso!» (Dalla parte dell’ultimo)

Un 18 aprile 1948 certo lontano, preistorico riguardo al tempo, ma sempre operante, sempre corrosivo come un cancro. Un 18 aprile che ha segnato la vittoria della paura, non sulla, ma contro la fede.

Tali pensieri mi ronzano da sempre, ma più alla evocazione di tutta la vita di don Milani: una evocazione da cui nessuno esce immune. E tu ti senti fisicamente al muro, con un dito teso come una canna, ad accusarti su tutto. È una faccia, la sua, quella di don Milani, che ti folgora e ti sorride. Sì, perché aveva anche una faccia sorridente, quasi da fanciullo; pure se, insieme, da implacabile accusatore, da scatenato pubblico ministero.

E una voce che ti inchioda alla croce dei tuoi tradimenti riguardo alla fede in cui dici di credere. E così ti senti dentro. Un colpevole. Chiunque tu sia, prete, frate, vescovo, papa, industriale, professore, giudice, intellettuale:

«lo mi vergogno a scrivere quando so che, poi, mi leggerebbero tutti i borghesi: tutt’al più, per fare quattro chiacchiere da salotto».

Così, specialmente se lo hai conosciuto, senti che è proprio lui, don Lorenzo, una persona che ti denuda. E la voce della coscienza che ti frastuona: perché hai tradito? Tutti abbiamo tradito, e continuiamo a tradire. No, non si può essere cristiani a questo modo: dalla parte dei ricchi, dalla parte dei padroni, dalla parte dei militari, dalla parte degli intellettuali…

Mai sentito un prete così! Ma com’erano gli antichi profeti? Come era Gesù Cristo? Tanto è vero che han dovuto ucciderli! E per Cristo tutto è deciso nel recinto del tempio: in nome di Dio! È chiaro: tanto che la storia continua.

Dunque, tu dal confronto, eccoti al muro: è così la sua stessa testimonianza che ti grida contro. Della sua opera tutto è necessario. E dal confronto io non so come tu ne uscirai, sia che tu sia prete, sia che ti dica cristiano; anzi, pure se appena ci tieni a essere un uomo.

È così, non c’è niente da fare, basta vedere questa società, e anche la chiesa. Del resto l’ha detto: «Questa eretica società liberale» . E già egli ha visto, allo scadere del II millennio, «l’ora della resa dei conti… quando tutto il nostro mondo sbagliato sarà stato lavato in un immenso bagno di sangue…». E ha pensato che avranno imparato almeno loro, cioè i missionari cinesi del vicariato apostolico dell’Etruria «contemplando i ruderi del nostro campanile e domandandosi il perché della pesante mano di Dio su di noi».

Un sogno? Il delirio di un folle? O, non meglio, qualcosa di profetico? Non erano così le profezie bibliche? Vedi appunto la Dedica di Esperienze pastorali e la Lettera dall’oltretomba riservata e segretissima ai missionari cinesi nel medesimo libro.

Egli immaginò, dopo la nostra miseranda fine di chiesa e di cristiani dell’occidente («uccisi dai poveri», «distrutti i templi, sbugiardati gli assonnati sacerdoti»), una rievangelizzazione delle nostre terre, ad opera di missionari venuti dalla Cina. Una continuità dunque di Cristo anche per quelle nostre povere genti sopravvissute, in virtù di una specie di viaggio di ritorno del cristianesimo in occidente.

Quasi paradossalmente meritato dal nostro tradimento. Cioè, egli immagina che possa accadere come per Israele, il quale, avendo tradito, è stato occasione di salvezza per la Cina e per l’Asia. E come, alla fine, si spera nella salvezza d’Israele, così speriamo succeda anche per noi. Questo sarebbe il significato dell’approdo dei missionari cinesi sul suolo devastato dell’Etruria.

Tutto sommato è una visione positiva della storia. Non la disperazione di un vinto, ma la concezione della storia come mistero di salvezza, storia che obbedisce al disegno di Dio! Non incredulità, ma fede: comunque vada la storia per colpa nostra.

«Troppe estranee cause con quella del Cristo abbiamo mescolato. Essere uccisi dai poveri non è un glorioso martirio. Saprà il Cristo rimediare alla nostra inettitudine. E lui che ha posto nel cuore dei poveri la sete della giustizia». (Esperienze pastorali)

 

Terza parte

MI SON FATTO CRISTIANO E PRETE SOLO PER SPOGLIARMI DI OGNI PRIVILEGIO

 

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Nella “Lettera dall’oltretomba” Milani scrisse:

«E stato l’amore dell’ordine che ci ha accecato… ‘segnando ai piccoli catecumeni bianchi la storia del lontano 2000 (cioè questo nostro 2000 che per essi sarà lontanissimo quando verranno: “mille anni davanti a Dio sono come un giorno solo”, secondo la rivelazione), non parlate loro del nostro martino. Dite loro solo che siamo morti e che ne ringraziamo Dio».

Una voce tanto più crudele quanto piu vera e scontata dalla storia. Una voce perfino pietosa che cerca di salvarti e di giustificarti. Sempre rivolgendosi ai missionari cinesi quali testimoni di come la storia, sia pure lentissimamente, sarà cambiata, testimoni di questo continuo sparire e apparire di civiltà, segno che non c’è altra proposta anche per il futuro più impensato, scrisse:

«Sulla soglia del disordine estremo mandiamo a voi quest’ultima nostra debole scusa supplicandovi di credere nella nostra inverosimile buona fede».

Così don Milani amava. Amava anche te. Ma ti amava come Cristo ama il ricco Epulone. Con l’amore che non scherza. È proprio dell’amore non fare un fascio di ogni erba. L’amore distingue, sceglie, divide, denuda: appunto, ti accusa, ti inchioda alla tua croce, perché ti vuole salvo a tutti i costì. L’amore è per la pace, ma non è imbelle. Tanto meno è neutrale. L’amore è lotta fino alla morte. Esigente ed implacabile. Che dà la vita per la verità. E la verità è l’uomo. Così è l’amore.

Ancora, per essere non solo accanto ai poveri, ma “dalla parte dell’ultimo”, scriveva don Lorenzo, sempre a proposito del tradimento dei poveri in seguito al 18 aprile 1948:

«Così stando le cose, è più saggio ridurre i termini a una sola semplicissima scelta. O con Dio contro i poveri, o senza Dio coi poveri. E scegliendo io di star con Dio e con la sua chiesa non resta che pregare per i poveri che calpestiamo e tentare di confessarsi spesso, per essere pronti al severo castigo di Dio che non tarderà a venire e indicarci la strada nuova».

Per riprendere l’immagine del processo, quest’uomo arriva ad accusarti persino attraverso il suo rimorso, per aver sbagliato, benché sia stato costretto a sbagliare! Quella connivenza subita dal prete con le forze della discriminazione e dello sfruttamento! Connivenza chiamata eufemisticamente “buona azione”, perché il prete riesce a trovare lavoro a un disoccupato! Connivenza che egli invece, in Esperienze Pastorali, chiama «un’opera cattiva e perfino illegale»:

«Il fratello Industriale è stato gentile con me. Ha detto alla sorella dattilografa di far la schedina al mio figliolo Franco. Io dovevo essere grato al fratello Industriale. Ma poi è successa una cosa triste: mentre m’alzavo per andare via aveva aggiunto: “Le farò fare una lettera anche dall’officina dove Franco ha lavorato fin ora per dirle quel che sa fare”. Il fratello Industriale mi ha steso la mano con un sorriso d’intesa: “Non importa, reverendo, se me lo raccomanda lei non sarà certo un comunista”. Perché non ho ritirato la mano Signore? Come ho fatto a non capire subito che quella mano e quell’occhiata e quella parola erano uno sputo sul mio sacerdozio che è il tuo sacerdozio, Signore? […] Ho avuto paura per il lavoro del mio Franco […]. Sì, che il mio Franco è un comunista. “E un comunista non deve mangiare?”, ha chiesto Franco […]. Quando, quattro mesi fa, col decreto della mia mamma chiesa, gli ho detto: “Sbagli, Franco, a essere comunista” e tu, fratello Industriale, quella mia parola dolorante di padre l’hai sbandierata festante sui tuoi giornali, e che credevi tu? Che io gliela dicessi per te? Per salvare il tuo capitale e il tuo mondo sbagliato che deve cadere? Tu, Franco, lo sai, vero? che io non sono per loro? Perdonaci tutti: comunisti, industriali e preti. Dimenticaci, disprezzaci, fai quello che vuoi, ma il tuo Signore non lo lasciare, Franco». (Dalla parte dell’ultimo)

Così, dentro il cuore di don Lorenzo continuava a dolorare il rimorso di aver vinto quella funesta battaglia.

«E la storia che mi s’è buttata contro, è il 18 aprile che ha guastato tutto, è stato il vincere la mia grande sconfitta». (Ibidem)

A questo punto non è neppure don Lorenzo che ti accusa, ma è Cristo stesso. Al suo posto si spalanca il Vangelo, letto a Donato dì Calenzano, o a Barbiana, letto oggi. Per dire com’è reale e contemporaneo.E come appunto il vangelo è dimostrato: con queste “esperienze”! Dimostrato che non è una favola. Come non è stata una favola per san Francesco e per papa Giovanni e per Mazzolari, l’uomo di fuoco, e per pochi altri.

Sì, adesso si capisce come don Lorenzo può essere stato di Cristo: al di là di ogni immagine romantica e avvilimento pietistico. Perché anche per san Francesco la vicenda non è tanto idilliaca: su uno che porta le stigmate, c’è poco da fare del sentimentalismo. E anche per papa Giovanni, pur nella pace evangelica dello spirito, nessuno può dire che non sia stato il suo un papato drammatico. La differenza di temperamenti è questione secondaria.

Di una segreta e profondissima gioia, perfino di affabilità e di grazia abbondava anche don Lorenzo, pur sempre disteso sulla graticola delle sue scelte. Ci sono documenti nei quali si manifesta la beatitudine del regno, Non una beatitudine futura, da comprarsi col sacrificio, l’obbedienza ecc., ma una beatitudine presente, viva, sorridente nella situazione di maggiore umiliazione e solitudine.

Ecco un esempio preso poco meno che a caso. Scriveva don Milani quando era già al confino ecclesiastico nella piccolissima parrocchia di Barbiana:

«È triste, è un disonore, è grave, tutto quello che vuoi, ma non è una catastrofe: s’arrangino, vadano al diavolo, pregherò per loro, riderò di loro (…). E poi? Poi andrò tranquillamente a mangiare e a dormire e cercherò di osservare giorno per giorno la legge di Dio e della chiesa e non vorrò smettere di essere una persona sorridente e serena, una persona che possiede la pace e la sa difendere (…). Combattivi fino all’ultimo sangue e a costo di farsi relegare in una parrocchia di 90 anime in montagna, e di farsi ritirare i libri dal commercio, sì tutto, ma senza perdere il sorriso sulle labbra e nel cuore e senza un attimo di disperazione o di malinconia, o di scoraggiamento o d’amarezza. Prima di tutto c’è Dio, e poi c’è la vita eterna». (Lettere)

In fondo è lo stesso spirito che già affiorava in lui nei primi anni di sacerdozio: «Mi godo il mio Dio che m’ha dato finalmente un mestiere col quale posso divertirmi tanto. (…) Mi son fatto cristiano e prete solo per spogliarmi di ogni privilegio» (ibidem).

È il cercatore di perle del Vangelo, che va, vende tutto quello che ha e compera il campo dove è nascosta la perla. Una perla che non perderà più e una gioia che non scambierà mai per nessun’altra cosa.

Così, dunque, Cristo ad ogni svolta della storia trova qualcuno che gli impresta la voce. Così il processo continua per infiniti capi d’accusa, sulla doppia preghiera, quella del curato e la sua durante la processione: «Perdonali che non sono qui con te; perdonaci che non siamo là con loro»; e poi il “tipo di cultura” del seminario e del prete, di questa «gente che si è fatta assorbire». E poi la povertà: non poter parlare sempre come lui «dalla cattedra ineccepibile della povertà». E ancora «i candelabri dorati solo verso la gente e imbiancati da quella parte che guarda il sacramento», cioè il problema dell’apparire e non dell’essere.

Poi, la persona del prete,e il suo servizio sbagliato, e quella discriminazione tra «parrocchiani di prima e seconda categoria»: quante volte il povero viene discriminato e nessuno fa caso alla sua sofferenza! E l’ordine che non è un concetto univoco: «Se lo violano i poveri è un attentato allo stato, se lo violano i ricchi è la congiuntura economica».

E tutto questo come vita vissuta, come cose pagate sulla propria pelle. E il grande dono di “ragionare” nella fede! E l’ora di evangelizzazione come liberazione dell’uomo; l’opera di promozione umana, l’opera della “acculturazione” del povero, perché il povero si difenda da solo.

Soprattutto la giustizia. Solo giustizia! Perché la giustizia è tutto: è prova dell’amore, è garanzia della libertà. Perché non si può essere in pace senza giustizia. E neanche la gioia può essere ingiusta. Non sarebbe più gioia. Questo è il paradiso umano, umanissimo di don Lorenzo. È per questo che, da convertito, penso abbia sofferto di un solo rimorso, per quell’unico peccato commesso quando non aveva ancora capito, fattogli commettere dalla politica ecclesiastica: appunto la bruciante colpa del 18 aprile 1948. Una colpa che non si perdonerà mai.

Alla fine del processo tutti si domanderanno: è possibile essere come don Lorenzo? Che cosa dobbiamo fare? La domanda che si ponevano tanti nel vangelo nell’udire Giovanni il Battista, colui che apriva la strada all’incontro con Cristo.

La risposta la dà un suo figliolo, uno di quelli che l’avevano capito. («Padre, ti ringrazio che hai nascosto queste cose ai grandi e ai sapienti, e le hai rivelate ai piccoli!»).

Essere come don Lorenzo?

«Lui aveva avuto una unzione particolare: non si può essere com’era don Lorenzo, mi permetto di dire, se non c’è un intervento diretto e particolare del Signore. È arrivato qui con questa spinta a fare un lavoro di evangelizzazione, a portare Dio dappertutto». (Dalla parte dell’ultimo)

Certo non è questo che si richiede ad un cristiano, di essere una copia dell’altro. Ognuno ha la sua faccia, e così ognuno ha la sua vocazione e il suo destino. Ma di avere il medesimo spirito, questo sì. Lo Spirito di Cristo: «Riceverete il mio Spirito». Lorenzo, quando stava ancora cercando la verità «era già pieno di Spirito santo»; come è detto di Stefano, il primo martire cristiano. Dunque, posso e debbo imitare Cristo, ma nessuno deve “scimmiottare” né Lorenzo né Francesco. A imitare i santi si può diventare anche matti, ma a “seguire” Cristo non sbagli mai; sempre nuovo e creativo, e adatto al tuo tempo. Perché Cristo è l’infinito di Dio nel tempo.

Quarta parte

HO PAURA CHE SENTENDOMI PARLARE DELLA SUA SANTITÀ, LORENZO MI DIREBBE “SMETTILA, BISCHERO!”

 

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Partiamo dall’interrogativo: quale la spiegazione del fenomeno don Milani? Il fenomeno don Milani non si spiega che con il segreto della santità.

Ciò vuol dire che si deve uscire dalle nostre logiche, qui c’è il mistero di Dio. E però, con questo, non si vuole evadere: Dio non è fuori della storia, né fuori della vita dell’uomo. Si tratta di credergli e di rispondergli. E nella misura in cui si dice di sì, allora si diventa esplosivi e rivoluzionari. Cioè si entra in un’altra logica, che è appunto la logica di Dio. Basti guardare all’evento di Cristo! Per queste logiche la santità è un assurdo, non ha spiegazioni. Tantomeno quella di don Milani. Perfino per il “cattolico” tradizionale e conformista; e per questa chiesa che egli chiama la sua “ditta”.

Santità in don Milani – ho quasi paura a continuare, paura che mi dica precisamente dal paradiso: «Smettila, bischero!» E sarebbe la prima volta che forse una tale parola risuonerebbe da lassù, ancor più acutizzata da un’eccezionale intelligenza: un’intelligenza fiorentina che è intelligenza dell’intelligenza – santità, dicevo, riuscita a sposarsi a una autentica dialettica vissuta addirittura sul piano della “cultura”. Una santità che finalmente non è solo “bontà”, come si usa giudicare da parte degli intellettuali, forse per legittimare la loro viltà e i loro compromessi. Qui non siamo di fronte solo a un convertito, qui c’è qualcosa di più. In antico si sarebbe detto che qui siamo davanti a un “predestinato”. Di fronte a un segnato, certo! Il “predestinato” lasciamolo stare, perché potrebbe indurci a un fatalismo, a un determinismo.

Mentre qui c’è un uomo che liberamente sceglie, un uomo che lotta e rischia e “sbaglia”, per troppa bontà, anzi per una “sbagliata” obbedienza: ma sarà il solo caso! Poi sarà lui, più tardi, a dire che «l’obbedienza non è più una virtù». Lui, obbedientissimo e fedele, sempre, perfino delicato verso la stessa chiesa che lo colpiva. E Lorenzo paga di persona, non fa pagare i poveri.

Fin quando la chiesa, una certa chiesa, non trova il coraggio di dire che arche don Lorenzo Milani è un santo, questa chiesa non impara. Vuol dire che non cambia, non si converte, neppure di fronte alla “lezione” di Dio; vuol dire che non ha compreso i segni dei tempi; anzi, non ha “temuto Dio che le attraversava la strada”. Papa Giovanni, don Mazzolari, don Milani… Certo, non è la santità formalistica. Non è una santità alla Pio XI e neppure alla Pio XII e tantomeno alla san Luigi Gonzaga, quale i “detrattori”, che sono i suoi agiografi, ce lo hanno descritto: un vero malato. Poveri santi! Comunque, chi ha detto che Dio si esaurisce solo in questi santi?

Certo, qui ci troviamo di fronte a una santità da grandi tempi, da ultimi tempi. Vorrei dire, da veri e soli e autentici rivoluzionari, anzi le rivoluzioni degli altri spesso finiscono per essere appena delle successioni: delle prese di potere; poi tutto è finito. Ma che qui di santità si tratti, c’è da scommettere qualsiasi cosa. Ripeto, non è una santità “tridentina”.

C’è stata la rivoluzione liberale, c’è stata la rivoluzione russa, c’è stato il concilio vaticano secondo, e altro. Ma è una santità secondo la tradizione, nel senso maiuscolo del termine: l’uomo contro il tempio, contro la legge e contro il potere. Per la libertà dell’uomo!

O comunque: non si dichiara santo uno che abbia esercitato le virtù teologali e morali in grado eroico? Uno che sia un modello di fedeltà a Cristo, alla sua chiesa, ai poveri? Allora c’è da sfidare chiunque a trovare altri che sia più fedele, nei nostri tempi, di don Lorenzo Milani. Chi può essere un esempio più efficace ai nuovi credenti, ai giovani inquieti che cercano il regno più di quanto noi conformisti riusciamo a immaginare? Ma lasciamo: oggi, per fortuna, lo stesso popolo cristiano è sempre meno interessato a una “canonizzazione”, mentre è sempre più attento alla vera santità. Il fenomeno di papa Giovanni parla da sé.

Ancora due note prima di concludere. Una, precisamente a proposito di papa Giovanni.

In una lettera in data 1 ottobre 1958, papa Giovanni, allora cardinale di Venezia -importante rilevare che era ancora cardinale: perché sarà il papato a “liberarlo completamente, sia pure nella fedeltà; a liberarlo cioè, pur perseverando egli nell’essere se stesso, uomo della più rivoluzionaria tradizione; come appunto sarà don Milani, in tempi e temperamenti diversi – il cardinale Roncalli, dicevo, esprimeva dei giudizi negativi su don Milani per via di Esperienze pastorali, libro pubblicato allora e che aveva suscitato roventi polemiche in tutti gli ambienti.

Il fatto può sorprendere solo chi non ha familiarità coi santi. I tipi più difficili nella chiesa sono i santi. Qualcuno ha scritto di loro che sono “testardi” come nessun altro. E si capisce perché: è Dio stesso che se li lavora, e Dio è uno che non è mai contento. E, se non fa un uomo uguale a un altro uomo, tanto meno fa un santo uguale a un altro santo. La santità è libertà e anti-conformismo; la santità è tutto il contrario dei nostri “uniformismi ideologici”. Appunto, perché Dio è infinito. Perciò i santi, più sono tali, più sono inconfondibili, cammini diversi, sensibilità contrastanti e acutissime, come non succede per noi uomini comuni, ed è accaduto che anche dei santi si siano scontrati “a fuoco”; come ad esempio Ippolito e papa Damaso per via dell’integrismo (come è vecchia questa questione!); oppure Cipriano e papa Stefano, per l’autonomia delle varie chiese (niente di nuovo sotto il sole’); e non sono mancati tra loro né giudizi amari né insulti. Non parliamo di san Girolamo con i suoi critici !

L’altra nota riguarda il linguaggio di don Milani: il problema delle cosiddette parolacce! Pure in questo non mancano precedenti nell’agiografia: com’è il caso di san Bernardino da Siena sul latte della Madonna «che non è una vacca», oppure di sant’Antonio da Padova che accosta i cardinali ai tacchini quando «mostrano il culo». Solo uno che non è puro ha paura a chiamare le cose con il loro nome, mentre don Milani era tanto puro che non si è mai permesso una barzelletta equivoca, e si permetteva invece di chiamare tutto col suo vero nome ed è una sua ulteriore testimonianza di verità e di carità. I suoi ragazzi infatti, anche se raggiunti da certe sferzate verbali, sapevano benissimo di essere amati da lui come da nessun altro.

Da ricordare che don Lorenzo è un toscano, poi, e la grazia rispetta sempre il …materiale d’origine.

Quinta parte

NO, DON MILANI NON ERA COME DITE VOI

Articolo di Turoldo pubblicato su “La Domenica del Corriere” il 7 luglio 1977
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Scrive don Milani a Gianni Meucci in una lettera in data 12 dicembre 1956: “Mi pare di averti già detto che don Bensì mi ha consigliato di non farmi presentare in nessun posto dal p. David e non per disistima di lui (tutt’altro), ma perché gli dispiace che io sia accompagnato al primo incontro da un nome sul quale ci son già prevenzioni e giudizi già dati. La cosa mi pare giusta e penso che la condividerai anche tu. Spero che tu sia sufficientemente convinto del bene che mi farete ecc.”.

Così, non avendo potuto presentare mentre era in vita le prime fatiche di don Milani, le famose “Esperienze Pastorali”, sono ora lietissimo di parlare di lui a dieci anni dalla sua morte. E lo faccio anche per un dovere, perché quando si sentono ritratti edulcorati come quelli che ho sentito in questi giorni a certi telegiornali, non si sa neanche se sia maggiore l’indignazione o l’avvilimento che ti fa reagire fino alla sofferenza. Proprio l’altro giorno mi sono detto: va che finirà male anche don Milani; finirà peggio di sant’Antonio! Infatti pochi sanno che sant’Antonio era uno dei santi più scatenati che sia mai esistito; molti lo paragonavano a un san Giovanni Battista con la scure in mano; e predicava in modo tale che fino a ora non sono ancora pubblicati in italiano i suoi “Sermones Domini”; e perché un tempo quando li volevo pubblicare io, mi sono sentito rispondere da quelli dell’Imprimatur, “che avrebbero potuto scandalizzare la gente”. Capite? Le prediche di sant’Antonio che scandalizzano! Infatti è vero che non risparmia nessuno, neppure i vescovi (del suo tempo si capisce); dice che “a volte nelle vesti rosse dei monsignori e dei vescovi cola il sangue dei poveri”; dice che “a volte certi vescovi sono peggio dell’asina di Balaam: almeno questa si era accorta quando passava l’angelo del Signore invece i vescovi…”. Così anche i santi devono essere purgati. E poi sant’Antonio era brutto, finito per idropisia; sformato ad appena trentasei anni di età, dopo essere passato sull’Italia per dieci anni come un uragano, come un temporale di Dio; ed era Antonio che san Francesco chiamava “mio Episcopo”… Guarda cosa ti hanno fatto di sant’Antonio: un santo per fidanzate, una specie di efebo che se la gioca con quel Gesù bambino sulle mani. Qui bisognerebbe certamente aprire un capitolo sulla patologia degli agiografi e sul destino dei santi. Ho già scritto un piccolo opuscolo dal titolo “Povero sant’Antonio”…

Avrà la stessa sorte anche don Milani? Già l’altra sera al telegiornale pareva quasi un santino da prima comunione: naturalmente “prete obbedientissimo”. Così come tutti i famosi proscritti: obbedientissimo Manzoni, obbedientissimo Teilhard, obbedientissimo don Mazzolari; e ora obbedientissimo don Milani. Mai che si domandino costoro a chi e a che cosa obbedivano questi grandi uomini. E perché sono rimasti dentro la Chiesa: liberi e fedeli fino alla morte! Loro li chiamano obbedientissimi: magari dopo averli fatti sputare sangue. Così come è successo per don Mazzolari da parte di un vescovo che in vita lo additava come il “più grave pericolo per la Chiesa”, e dieci anni dopo portava i seminaristi sulla sua tomba a Bozzolo scongiurando i giovani di essere “obbedienti” come don Mazzolari. Così ora anche per don Milani? Dopo neanche 10 anni dalla sua morte; quando dal cardinale Florit e da molti altri preti tuttora viventi era stato giudicato “un bubbone pestifero” da tagliare subito, e perciò era stato confinato da San Donato di Calenzano vicino a Prato a Barbiana nel Mugello: come dire l’isola di Pianosa per i più pericolosi criminali.

L’altra sera mi è toccato di sentire il panegirico di lui come di un esemplare del non-dissenso (a parte che poi non si sa chi più dissenta nella Chiesa; perché ve li raccomando questi lefebvriani!, questi “devoti del papa”, a una condizione, che il papa la pensi come loro; diversamente, per esempio, anche papa Giovanni non va bene). E ho sentito dire come un elogio che è “rimasto sempre prete”… Sarebbe stata bella: che non fosse rimasto prete! Questa gente non capisce come uno che crede non può non rimanere fedele, succeda qualunque cosa. Uno può essere cacciato, ma non può andarsene! Contrariamente a quanto è scritto in un documento dei vescovi lombardi dove si dice ai cattolici inquieti e scontenti “di andarsene”… San Bernardo dice che “chi crede nel regno di Dio è sempre un inquieto”. Nella Chiesa uno ci sta perché ci crede, perché c’è Gesù Cristo: perché c’è lo Spirito santo e i sacramenti e la liturgia. E i sacramenti e la liturgia e lo Spirito santo sono cose infinitamente più grandi di noi tutti, compresi i preti. Diversamente l’invito potrebbe essere valido anche per quelli che l’hanno scritto. E poi don Milani si era appena convertito, ed era appena entrato nella Chiesa, si era appena fatto prete. E quando uno si converte, non scherza.

Così l’altra sera mi sono sentito un don Milani che non riconoscevo più. Non una parola circa le sue “Esperienze Pastorali” che sono una gettata di lava incandescente; e lui già che si rivela in quel libro come un cratere in eruzione nella chiesa di Firenze, un punto dove la “crosta terrestre” ha ceduto. Quanto era soffocato dal sistema, lì si è coagulato e ha fatto colpo. Ed è scoppiato un autentico terremoto; tanto che il Sant’Uffizio interviene con forza per ritirarlo dal commercio. Niente, non una parola sulla “Lettera ai giudici”, sulla “Risposta ai cappellani militari”, sulla difesa degli obiettori di coscienza, per le quali cose ha dovuto subire perfino un processo da parte del tribunale. Non una parola sulla sua amarezza per come si è votato il famoso 18 aprile: vittoria che egli chiama “la più amara sconfitta dei poveri”. Non una parola sul suo confino, eccetera eccetera.

Certo che è un santo! Ma non è che i santi debbano essere delle mezze cartucce? Anzi, io che l’ho conosciuto, col quale ho passato i più infuocati incontri del mio sacerdozio, tenendogli appunto testa per via di quella giustizia al grado di furore di cui è stata divorata la sua vita più che dalla leucemia, dico che solo quando la Chiesa avrà il coraggio di riconoscere la santità di don Milani senza togliere neppure una parola (tanto meno le sue parolacce!) alla sua esperienza -tale e quale egli l’ha vissuta – allora dico che avremo una Chiesa veramente nuova; e una nuova santità muoverà il mondo. Sono perfino lieto della sua citazione dove dice: “Sto pensando di scrivere a p. David per il libro. Non sono punto convinto delle cose che urlavate domenica scorsa. Spero di poterle riurlare presto insieme…”. (Barbiana, 1 luglio 1955.)

Così eravamo amici, fino a urlare insieme là dove non eravamo d’accordo. Ma grandi amici: senza bisogno di ridurlo alla nostra misura! Senza dire poi che quando qualche volta mi è capitato di confessarlo, allora veramente ho sentito, per merito di lui, quanto grande e misterioso è questo sacramento della fraternità e del perdono. Cose troppo delicate per dirle in un qualsiasi articolo. Anzi, è questa una delle ragioni per cui io su don Milani ho preferito piuttosto tacere. E però questa volta, davanti a certe manipolazioni e storpiature, il silenzio poteva essere anche una colpa.

Sesta parte

LORENZO NON AVREBBE MAI PENSATO CHE “ESPERIENZE PASTORALI” SAREBBE DIVENTATO UN FATTO CULTURALE

 

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Ho conosciuto don Milani ai tempi in cui era ancora a Calenzano, in quella povertà quasi squallida, ma non disonorevole. Era un uomo molto solo, confinato in una sorta di “deserto”, al punto che attorno a lui pareva sparisse perfino il senso della comunione ecclesiastica. Fu poi il gruppo degli amici a rappresentare il suo aggancio con l’esterno. Insieme a Meucci, Gozzini, Vannucci e altri ancora, sono stato anch’io tra i suoi amici, e anzi, amico fraterno, da quando veniva all’Annunziata, nel convento dei frati Servi di Maria a Firenze, per confessarsi.

La mia amicizia e il mio rapporto con don Milani, pur nella reciprocità, è stato per fortuna più un ricevere che un dare. Con lui ho mantenuto i contatti fino a venti giorni prima che morisse. L’ultima volta andai a trovarlo a Barbiana con don Abramo Levi passandovi l’intera giornata. Lui era a letto. Era felicissimo di averci come ospiti insieme con i suoi ragazzi. Aveva appena finito di far trascrivere la sua “Lettera ad una professoressa”; ce la diede da leggere e poi ne discutemmo con lui fino a sera. Dopo neppure un mese morì.

A Calenzano aveva iniziato a scrivere le sue Esperienze Pastorali, ed è soprattutto per questo che avevo preso a interessarmi di lui. Ci fui accompagnato proprio perché vedessi il libro che egli stava scrivendo, perché lo leggessi, lo giudicassi e me ne interessassi. Ebbi dunque l’occasione di vederlo nascere, in un certo senso. Ho visto come si è architettata l’opera. Avrei perfino dovuto presentarla io stesso e pubblicarla nelle edizioni della Corsia dei Servi, a Milano. Ma se don Milani era stato esiliato a Barbiana, io, prima, ero stato cacciato da Milano per via del mio impegno per Nomadelfia. Mi impegnai comunque e per questo ritornai a Milano, dove, nel frattempo, era giunto il card. Montini. Avevo infatti rapporti molto amichevoli con Montini. Anche lui era un “cacciato” da parte di Roma. Eravamo tutti segnati.

In un nostro incontro, che gli avevo chiesto per il libro di don Milani e per altre questioni, mi disse: «Padre, tempi difficili corrono. Tempi in cui non basta neppure la prudenza, ma bisogna diventare astuti». Evidentemente alludeva al Vangelo, che parla della semplicità della colomba e dell’astuzia del serpente. Avevo dei libri da pubblicare, sia di don Milani che di Jacques Maritain, ma lui mi disse: «Prima bisogna sentire Roma. Vada a Roma a parlare col tal personaggio». Andai anche a Roma, ma l’esito di quell’incontro fu la risposta che ricevetti quindici giorni dopo: «Padre, non voglio neanche sentir parlare né di Maritain, né di Milani. Assolutamente!1».

Con questa risposta è chiaro che a Milano non si poteva fare niente, e che il libro non avrebbe mai potuto essere pubblicato dalla Corsia, perché non mi avrebbero dato l’imprimatur, e non perché si trattasse di me, ma proprio perché erano quegli anni particolari. Erano infatti gli anni di Pio XII, di Gedda, dell’integrismo più feroce. Stavano per sorgere i baschi verdi, quelli dell’Azione Cattolica, dai quali nascono poi i comitati civici.

È chiaro che non avendo la possibilità di pubblicare e sapendo don Milani di queste difficoltà (il mio esilio, Nomadelfia, i controlli continui, ecc.), lui possa aver scritto, in quella lettera a Meucci del 1956: «Mi pare di averti già detto che don Bensi mi ha consigliato di non farmi presentare in nessun posto dal padre David e non per disistima di lui (tutt’altro), ma perché gli dispiace ch’io sia accompagnato al primo incontro da un nome sul quale ci sono già prevenzioni e giudizi già dati. La cosa mi pare giusta e penso che la condividerai anche te».

Le Esperienze pastorali di Milani furono dunque presentate alla Libreria Editrice Fiorentina che si impegnò per la pubblicazione. Fu un successo, anche grazie alla polemica che ne seguì.

L’imprimatur fu ottenuto dal card. Elia Dalla Costa. Dissero che gli era stato carpito approfittando della sua tarda età. Non è esatto. Il cardinale, un grande cardinale, fu sempre libero da Roma e mantenne sempre questa libertà e indipendenza. Non aveva mai condannato nessun prete della sua diocesi. Non so fino a che punto stimasse don Milani, ma è sicuro che la sua posizione era in un certo senso di controbilanciamento rispetto a quella di Florit. Sta di fatto che concesse l’imprimatur. E don Milani fu conosciuto a livello nazionale.

Le mie discussioni con don Milani riguardo ad Esperienze pastorali si concentravano su un punto che definirei in questi termini. Egli era di origine ebrea, un uomo ancora da vecchio testamento, sebbene fosse illuminato, grazie alla grande cultura sua personale e della famiglia da cui proveniva, oltre che per la sua particolare intelligenza. Ma al fondo era un convertito con radici ancestrali ebraiche.

Quel tanto di nuovo testamento che compare nel libro è venuto fuori dalle nostre discussioni. Io gli facevo notare che l’importanza della giustizia andava salvaguardata, ma occorreva stare attenti, perché la giustizia può anche diventare crudeltà, disumanità. Occorre che la giustizia diventi amore e che l’amore sia giustizia. Il mio apporto, dunque, fu quello di aiutarlo ad umanizzare il messaggio biblico.

Ancora un particolare. Quando conobbi don Milani le Esperienze pastorali erano ancora in fase di progettazione e dovetti spingerlo io perché continuasse a scrivere. È infatti il rovescio della medaglia della persona intelligente, che ha il complesso della sua intelligenza e con difficoltà si espone al pubblico. Lui scriveva, ma non aveva ancora la sensazione netta che potesse servire a molti altri, cioè che quel suo libro potesse diventare un fatto culturale. Per questo era incerto. Allora lo spingemmo ad umanizzarsi, nel senso evangelico del termine, e a decidersi a pubblicare. E lui si appoggiava a noi, perché aveva bisogno di confrontarsi, al punto che si serviva quasi brutalmente e crudelmente, sebbene non strumentalizzasse  mai, degli amici.

Il suo cruccio principale riguardava il linguaggio e la comunicabilità di quanto scriveva.

Settima parte

LORENZO ERA SEVERO, ERA UMANO. ERA VERO, ECCO:VERO!

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Nel rapporto con gli altri in genere, don Milani denunciava quello che definisco il suo legame profondo con l’antico testamento. Chi non lo conosceva lo considerava quasi disumano, crudele, duro. Nel primo approccio era di una grande violenza, poi invece si ammorbidiva. Era, infatti, anche un uomo umile. Con lui si leggeva, si discuteva, si scambiavano idee. Ed è stato Meucci a portare quel dono smaliziato del cattolico fedelissimo e, nello stesso tempo, arricchito da quell’immensa cultura, o meglio, dall’immensa intelligenza fiorentina. Anche Meucci ha contribuito, dunque, a smussare gli spigoli del suo carattere.

Per quanto fosse prima a Calenzano e poi a Barbiana, non era comunque un isolato, proprio grazie a questi amici che lo avevano scoperto e ne percepivano il grande valore. Senza di loro don Milani poteva rischiare di diventare un disperato, un credente disperato.

La sua personalità non era semplice. Non era un uomo semplice. È difficile dire quale fosse la dominante del suo carattere. Mostrava lati molto diversi, a seconda di chi aveva davanti.

Il rapporto con la madre credo debba essere considerato come fosse per lui un’oasi a sé, un luogo di riposo. Con i suoi ragazzi, invece, si dimostrava come un padre severo e persuasivo; si faceva amare e si faceva ubbidire, perché si donava e il ragazzo sapeva che si donava. Difficile definirlo dolce.

Era severo. Era umano. Era vero, ecco. Vero! Non era sdolcinato, da buon toscano. Non era romantico, né sentimentale. Almeno a me sfuggì il suo aspetto sentimentale.

Con gli amici aveva sempre una prima e una seconda fase. Nella prima era quasi polemico. Cercava la polemica per sviluppare tutta la sua dialettica. Poi si sentiva invece in lui, al di là della polemica, un calore tutto particolare. Io posso dire veramente che lui mi era amico, un sincero amico. E io pure gli ero amico, ma in questo non c’era nulla di romantico.

Non posso dire che fosse orgoglioso, o altezzoso, né superbo, semmai un aristocratico, ma un aristocratico dello spirito.

Con chi poi contava politicamente o economicamente era perfino crudele. Ma anche nel rapporto con la contessa Pirelli, ad esempio, ci furono due fasi. All’inizio direi proprio che la macerò: “Che cosa viene a fare lei qui? Cosa vuole? Io non ho tempo da perdere”. Ma poi entrarono in sintonia: io so che addirittura erano arrivati a una autentica, intensa amicizia, in un rispetto profondo. Però l’approccio con lui era sempre e comunque difficile, anche se forse questo nascondeva una sua enorme timidezza, come se si fosse messo addosso una corazza. E infatti l’aggressività di colui che è timido va sempre oltre: il coraggio del timido fa paura.

Ottava parte

IL RAPPORTO CON L’AUTORITÀ E IL POTERE

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C’è ora da considerare il rapporto di Lorenzo con l’autorità, che ha la sua espressione più forte nella battaglia che condusse con i militari, che sono l’aspetto grottesco dell’autorità. Ma, come nel rapporto con l’autorità religiosa, bisogna fare una distinzione, perché don Milani riconosceva l’autorità, ma non il potere.

Egli accettò la chiesa, così come io l’accetto e come l’accettava don Mazzolari. lo accetto l’autorità, non sono per una chiesa carismatica, invisibile, piena di umori… No, il corpo è il corpo, il corpo è la gloria di Dio. E quindi anche il corpo della chiesa. Ma il corpo significa anche organizzazione, disciplina, autorità, appunto. Ma autorità, non potere, questo è il punto. Perciò don Milani può dire che l’obbedienza non è più una virtù, perché è ribellione al potere. Perché è il potere che spersonalizza, ma l’autorità fa crescere; l’autorità è liberante, mentre il potere schiaccia.

Il potere è inversamente proporzionale all’autorità. Un padre non ha bisogno di dire a suo figlio: “Guarda che io sono tuo padre!” Quella è una rivendicazione di potere. Se ha autorità su suo figlio, non occorre che dica che è suo padre, perché è il figlio stesso che riconosce in lui il padre, non deve essere il padre ad imporsi come tale.

Mio padre non ha mai voluto esercitare il potere su di me. Bastava il senso della sua grandezza. Era lui che mi aiutava a crescere. Papa Giovanni, per fare un illustre esempio, era l’autorità, non il potere. Anzi, man mano lui si abbassava, tanto più cresceva in autorità. Il secondo giorno del concilio ha aperto la seduta a tutti i rappresentanti delle altre confessioni. La curia romana gli aveva preparato un piccolo tronetto disponendo tutti gli altri su delle sedie intorno. Lui, entrato nella sala, fece portare via il tronetto, prese una sedia e si mise alla pari con tutti gli altri e disse: “Adesso parliamoci”. Subito ha cominciato a crescere in autorità. Diversamente, più ci si preoccupa del proprio primato, più si perde. In questo, dunque, autorità e potere sono inversamente proporzionali.

Con violenza ci si scaglia contro il potere e con altrettanta convinzione si rispetta l’autorità. Quando poi in una persona si concentrano potere e autorità, occorre saper distinguere: sotto l’aspetto del potere è da disprezzare, ma sotto l’aspetto dell’autorità va venerata. Questo vale anche in famiglia: io non devo essere contro il padre e la madre, ma contro dei dittatori che si chiamano padre e madre.

In don Milani, nel suo rapporto con i ragazzi, viene allo scoperto certamente una sorta di potere prevaricatorio, ma in quel caso credo di poter dire che si tratta dello straripare della sua personalità. Lì subentra la fede e il fanatismo, subentra dedizione e imposizione. Addirittura si può dire che lui amava i suoi ragazzi e allo stesso tempo li odiava. Ma questo è normale. Guai se non fosse così. Io stesso provo amore e odio verso la mia vocazione, questa vocazione che ti inchioda lì continuamente, che ti condiziona, che non ti dà via di scampo, non ti lascia in pace, non ti dà tregua, né di giorno né di notte. Ma è chiaro che a un certo punto la odi e la ami. Ma deve essere così. E per lui cos altro era la sua vocazione se non i suoi ragazzi? Si donava e li odiava: «Questi disgraziati che mi rompono le scatole, che mi rovinano. Ma perché devono esistere, che mi rovinano tutto».

Anch’io bestemmio continuamente mentre prego.Ma si prende perfino Dio per lo stomaco. Ad esempio c’è quella pagina di Geremia: “Questo Dio che non mi lascia in pace mi ha sedotto”. Questo legno, questa croce dalla quale non puoi scendere mai. In fondo è l’odio-amore alla croce di Cristo.

Nona e ultima parte

L’ IGNORANZA DEL POVERO, LA PRIMA DELLE INGIUSTIZIE

 

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La fede di don Milani era la fede del convertito, che ha caratteristiche sue proprie. Per il convertito, infatti, la nuova fede diventa ragione di vita o di morte, un assoluto. In qualche modo si può dire che per il convertito la fede assume i toni del fanatismo, nel senso che il neofita si converte perché vuole cambiare se stesso, il mondo, l’uomo, tutto. Quindi si butta. E, infatti, ecco don Milani che da ateo si fa credente e, in un certo senso, parte per la tangente, che per lui è rappresentata dal tema della giustizia. E naturalmente la giustizia lo porta a delle scelte precise e a combattere la prima delle ingiustizie, che è quella dell’ignoranza del povero.

Da buon fiorentino, don Milani pensava che il povero non si può salvare se non sul piano di un riscatto culturale. Quindi la fede e la cultura. Egli era convinto che la prima pastorale fosse la scuola, perché, “l’uomo delle 300 parole” sarà sempre un inferiore e un imbrogliato fino a quando non diventa “l’uomo delle 1000 parole”, perché è ‘l’uomo delle 1000 parole” che imbroglia quello delle 300.

Don Milani, dunque, arrivò ai poveri tramite la strada della cultura. La sua fu una scelta intellettuale, infatti punterà all’esperienza della scuola, non farà l’orfanatrofio, o il brefotrofio; non creerà una Nomadelfia, ma una scuola.

Da vero fiorentino puntò sulla cultura. La sua pastorale si fondava su una convinzione: prima educhiamo e formiamo l’uomo, poi l’uomo penserà da sé. Non sono io che devo dargli il pane, saprà guadagnarselo con la sua lotta.

E allora mise a servizio della vittima della società, che è l’ignorante, il dono della sua cultura e della sua scienza.

Anche la sua scelta di fede fu una scelta intellettuale. Definirei perciò don Milani come un frutto della cultura secolare toscana, fiorentina, con una sensibilità acutissima, una attenzione a sé e al mondo in cui è vissuto.

Con lui non ho mai parlato di come arrivò alla fede, ma posso dire che fu nel contatto con la realtà concreta di Calenzano che cominciò a sentire l’insufficienza delle cose, l’insufficienza del mondo. Volle dare un senso alla sua vita e così approdò alla fede. Io credo che questo in lui era molto evidente. Ma il suo approdo alla fede credo passi innanzitutto attraverso un travaglio intellettuale.Poi si domanderà come vivere questa nuova fede, e così decise di prepararsi al sacerdozio con l’intento di dedicarsi agli altri.

Il modo con cui sarà poi sacerdote, però, fu la realtà stessa a dirglielo. Da allora cessa di essere l’uomo intellettuale e diventa il testimone esistenziale della sua fede.

Io, che vengo da un mondo di poveri, subito ho davanti a me l’affamato; lui, fiorentino, ha davanti a sé l’ignorante. Allora lui si batte contro l’ignoranza e io mi batto per il pane. Questo è frutto dell’esperienza di ciascuno. Sono tutte e due forme di salvezza da una miseria, da una povertà. Lui ha scelto un tipo di povertà: la mancanza di cultura e di istruzione. Io ho scelto l’altra. Messosi sulla strada della cultura, naturalmente approda a delle scelte tipicamente politiche. Anche la sua scelta per il partito comunista è un fatto guidato da una fede, ma scatta da una cultura.

Don Milani riuscirà a non essere vittima dell’anticomunismo viscerale che colpiva un po’ tutti in Italia, a cominciare dalla chiesa. La sua intelligenza lo preservava da queste reazioni banali e istintive. Così, nella lettera a Pipetta, scrive: «Il giorno che avremo sfondata insieme la cancellata di qualche parco, installata insieme la casa dei poveri nella reggia del ricco, ricordatene Pipetta, non ti fidar di me, quel giorno io ti tradirò. Quel giorno io non resterò là con te. Io tornerò nella tua casuccia piovosa e puzzolente a pregare per te davanti al mio Signore crocifisso. Quando tu non avrai più fame né sete, ricordatene Pipetta, quel giorno io ti tradirò».

La sua era una posizione molto diversa da tutta la chiesa cattolica e dal cattolicesimo italiano.

Ecco, il rapporto, o il modo di giudicare il partito comunista, così come quello di giudicare i cappellani militari, rappresentano fatti che derivano da una grossa cultura a servizio di una fede assoluta, che è addirittura fanatica.

Per concludere

In tutto quanto ho ricordato di don Milani occorre dire che egli era certamente debitore di don Mazzolari. Ma lo è stato perché era attento al clima generale di quell’epoca, diversamente non sarebbe neppure stato l’uomo che era. Non fu, infatti, un plagiato da Mazzolari, ma semplicemente partecipò al clima culturale del tempo, come chiunque altro uomo attento che avesse un minimo di intelligenza. E a quel tempo Mazzolari echeggiava in tutta Italia, anzi, perfino in Europa, in un certo senso. Mazzolari era un uomo di una dimensione tale… Tutti noi siamo suoi debitori, anche Balducci lo è, e dunque anche don Milani.

Questa simbiosi culturale accade normalmente in ogni campo. Mi ricordo quando ho cominciato a scrivere poesie nel 1946. Apollonio le lesse e mi disse: «Ma qui c’è Ungaretti». E io, che ero un ragazzo, arrossii, perché ero appena uscito dal seminario, e Ungaretti non lo conoscevo neppure. Forse due o tre poesie sue c’erano nella nostra antologia. Sapevo che Ungaretti esisteva, ma non posso dire che lo conoscessi veramente, così glielo dissi: «Guardi, non l’ho mai letto». E lui rispose: «E a chi interessa? È nell’aria; è un fatto culturale nell’aria». Mi precipitai a leggerlo, lo divorai… Ma era nell’aria; questi sono uomini che ti penetrano, anche senza che tu te ne accorga.

Don Mazzolari, e poi don Zeno e don Milani, sono stati dei fatti culturali per il loro tempo. Che poi a loro volta non sono stati soltanto dei trasmettitori, ma anche dei riceventi. Anche don Mazzolari, infatti, è stato debitore di Bonomelli, di Semeria, di Rosmini. Poi ognuno ci mette la carica personale che ha, perché in fondo è questo fare cultura.

Don Milani era perciò parte di quel magma culturale nazionale che scorreva nelle vene del paese, sia nella chiesa che fuori di essa. A uno come lui, poi, con la sua formazione, bastava poco per intuire, raccogliere e rilanciare a sua volta.

Milani non era uno che si mimetizzava, non è stato un trasformista, ma semmai ha rappresentato una forza rivoluzionaria che assorbe l’humus della cultura e la proietta come lui sapeva fare, nella pienezza del suo spirito.

Il coraggio di dissentire, in Russia come ovunque

di Tomaso Montanari

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L’accusa di ‘putinismo’ rivolta a chiunque osi parlare di pace per l’Ucraina e la Russia segna, come un insopportabile riflesso pavloviano, il discorso pubblico occidentale, condizionando ormai azioni e reazioni. Così, appare paradossalmente difficile perfino dire l’ovvio: e cioè che l’immagine di Jorit (*) abbracciato a Putin (un artista abbracciato a un dittatore…) è riprovevole non certo per ‘lesa maestà atlantica’, ma perché è un imperdonabile schiaffo alla Russia che a Putin si ribella: l’unica alla quale dovrebbe andare la fraternità di chi, in Occidente, si schieri dalla parte dei popoli, e non dei governi. Della pace, e non della guerra.

A quella Russia è dedicato il prezioso, piccolo libro di Maria Chiara Franceschelli e Federico Varese (La Russia che si ribella. Repressione e opposizione nel paese di Putin, Altreconomia, 2024), costruito intorno a cinque testimonianze, e sostenuto da un accurato apparato documentario che offre numeri, nomi e date a chi chiede, con sufficienza colonialista, “perché i russi non si ribellano?”.

Nel 2023, 5.024 soldati russi sono stati processati per diserzione: i veri eroi di questa guerra. È, nota Franceschelli, «un record storico assoluto. Nel 2022 erano stati 1.001 casi, nel 2021 ‘solo’ 615». Dal 2022 al gennaio di quest’anno sono stati aperti procedimenti penali contro 1.082 dissenzienti politici, e nello stesso periodo 509 persone fisiche e organizzazioni sono state classificate come ‘agenti stranieri’: ecco chi dovremmo abbracciare pubblicamente.

Accanto a chi ha il coraggio di farsi arrestare e processare, molte persone praticano una quotidiana resistenza culturale e morale, secondo quella “teoria delle piccole cose” che non è del tutto ignota anche a noi occidentali, alle prese con una (ovviamente diversissima) crisi della democrazia e della rappresentanza politica.

Ogni tanto questo vasto dissenso russo emerge in azioni geniali e coraggiose, come quella dell’artista Aleksandra Skochilenko, «arrestata il 31 marzo 2022 a San Pietroburgo per aver sostituito i cartellini dei prezzi di un supermercato con bigliettini che denunciavano il massacro dell’esercito russo in Ucraina, e per questo condannata a sette anni di carcere».

Una protesta simboleggiata dalla scritta «No alla guerra» comparsa nel marzo 2022 sulla Neva ghiacciata, a San Pietroburgo: clamorosa, ma destinata per sua natura a perdersi nell’acqua (e comunque solo dopo essere stata, altrettanto clamorosamente, cancellata).

Le cinque figure scelte dagli autori sono esemplari, ed esemplarmente diverse: l’ottantenne LJUDMILA, sopravvissuta all’assedio di Leningrado e per questo intoccabile, ma indomita nella sua contestazione dell’uso strumentale e perverso che Putin fa della Seconda guerra mondiale e della vittoria sul nazismo;

padre IOANN, pope ortodosso scomunicato (proprio come Tolstoj), e ora rifugiato in Bulgaria, per aver osato predicare esplicitamente un vangelo di pace, peccato imperdonabile nella chiesa corrotta e serva del potere guidata dal patriarca Kirill;

GRIGORIJ, professore universitario di filosofia politica, elencato tra gli “agenti stranieri” e oggi espatriato a Princeton;

IVAN, attivista politico con una storia di arresti e torture, che dalla Germania continua a organizzare la resistenza attraverso Zona solidarnosti (Zona di solidarietà), un progetto che assiste i prigionieri politici arrestati per aver manifestato contro la guerra;

e infine KATIA, redattrice di Doxa, rivista universitaria della Higher School of Economics di Mosca, che aveva continuato a raccontare e ad alimentare il dissenso nonostante il progressivo tradimento dei vertici accademici, sempre più allineati con il Governo di Putin.

Storie tristemente accomunate, con una sola eccezione, dalla necessità dell’esilio: e che proprio per questo sono pienamente raccontabili. Ma che rinviano a tante altre ancora in corso all’interno della Russia, tra difficoltà e rischi immaginabili. Storie che dimostrano «che l’opposizione a un regime può assumere tante forme diverse.

Siamo abituati a pensare (e a parlare) in maniera superficiale, opponendo consenso e rivoluzione. Ragioniamo in termini di piazze, strade, rivolte, folle e masse. Senza dubbio, molti grandi cambiamenti nella Storia hanno avuto questo aspetto. D’altronde, limitarsi a questa prospettiva ci impedirebbe di cogliere un presente più complesso, in cui questo costrutto binario non trova spazio. Soprattutto, non renderebbe giustizia a un altro tipo di lotte, silenziose, sotterranee ma non meno importanti, che molti cittadini e cittadine intraprendono, nel loro piccolo, ogni giorno, sfidando regimi e violenze. Questo libro indaga ciò che intercorre fra consenso e rivoluzione, fra silenzio e rivolta».

Sono parole importanti, che devono far riflettere anche noi occidentali, incapaci di ribellarci a governi ben meno temibili che, tradendo le nostre costituzioni e i nostri veri valori, condannano violentemente chiunque si azzardi a parlare di negoziato, foss’anche il papa, e ci conducono verso un possibile armageddon nucleare. Sono gli stessi governanti che fino a ieri intrattenevano ottimi rapporti con Vladimir Putin, e che un domani potrebbero tranquillamente ricominciare ad averli.

«Il sangue degli abitanti dell’Ucraina macchierà non solo le mani dei governanti della Federazione Russa e dei soldati che eseguono i loro ordini. Esso macchierà le mani di chi tra noi approva questa guerra, o semplicemente rimane in silenzio»: così aveva detto padre Ioann nel sermone che l’ha costretto all’esilio. Vale anche per noi occidentali, che avanziamo come silenziosi sonnambuli verso una guerra mondiale.

(*) https://tg24.sky.it/cronaca/2024/03/07/jorit-chi-e

Fascismo Criminale, ieri come sempre

Premessa

di Piero Murineddu

Dopo che lo scorso anno di questi giorni il Consiglio Comunale di Bologna, a esclusione dell’ opposizione di Destra ( ma guarda!), ha deciso che d’ ora in poi il 19 febbraio sarà la Giornata del Ricordo di tutte le vittime del colonialismo in Africa da parte del regime fascista, sarebbe opportuno che tale Memoria si estendesse a tutto il Paese. In attesa che si compia questo dovuto atto di giustizia, riporto una lunga pagina in cui si elencano nomi e cifre di quello che è stato realmente il Fascismo. In questo caso, oltre i confini dello Stivalone bagnato dal Mediterraneo. Per le criminali nefandezze provocate in terra italica, specialmente nei cervelli dei suoi abitanti, non basterebbero pagine su pagine.

Diversificata e utilissima documentazione, quella che segue, per confermare, ammesso ce ne fosse ancora bisogno, che il pensare e l’agire fascista, spesso mascherato con altre sigle, impedisce in sé la realizzazione della nostra umanitá. La lunga pagina che presento, arricchita sul finale da un contributo di un amico poeta bolognese, si aggiunge a quest’ altra pubblicata qualche tempo fa di cui riporto il link.

Gli orribili crimini a lungo nascosti del GENERALE ROATTA

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19 febbraio 1937. Nella foto, il feroce assassino Rodolfo Giuliani poco prima di ordinare la strage

Italiani brava gente?

 di Mauro Albanesi

19 febbraio 1937. Durante una cerimonia per festeggiare la nascita del primogenito di Umberto di Savoia scoppiò un ordigno, preparato da due eritrei della resistenza contro l’opposizione straniera, destinato al viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani, reo fra le molte nefandezze anche di aver autorizzato l’utilizzo di gas lanciato dagli aerei per far strage di truppe e popolazione etiopi. Le vittime dell’attentato furono otto e lo stesso Graziani venne gravemente ferito. La rappresaglia iniziò immediatamente: in tre giorni vennero messi a ferro e fuoco Addis Abeba. I morti furono alcune migliaia, trentamila secondo le stime etiopiche: il regime fascista consumò in Etiopia un gravissimo crimine di guerra. I morti saranno centinaia di migliaia alla fine dell’occupazione italiana ed oltre ai militari furono gli italiani residenti a rendersi a loro volta complici del massacro.

“L’Italia ripudia la guerra, e nell’impresa etiopica, in mezzo a tanta violenza, ci fu un fatto terribile, una strage, di monaci, ragazzi, di famiglie di pellegrini nel 1937”, ha affermato lo storico Andrea Riccardi, in occasione della presentazione del libro di Paolo Borruso “Debre Libanos 1937. Il più grave crimine di guerra dell’Italia”. Nell’occasione il cardinale Gualtiero Bassetti, presidente della Conferenza Episcopale Italiana, ha chiesto perdono “ai fratelli cristiani d’Etiopia” per il disprezzo con cui furono trattati all’epoca della guerra dagli italiani cattolici (per modo di dire). E c’è stato anche un riconoscimento di responsabilità e una domanda di riconciliazione, dopo piu di 80 anni, dal governo italiano attraverso il ministro della Difesa Lorenzo Guerini.

L’Etiopia, dunque, come la ex Jugoslavia, dove in due anni di occupazione (1941-1943) le truppe italiane si macchiarono di crimini gravissimi che causarono migliaia di morti e almeno 30mila sloveni finiti nei campi di concentramento: dal movimento di resistenza jugoslavo scaturì la replica degli anni seguenti che portarono a una nuova tragedia, quella delle foibe e dell’esodo forzato di tanti connazionali che in Istria e Dalmazia si erano nel frattempo stanziati.

Quelle etiopi e jugoslave furono reazioni ad un’occupazione italiana forzata, violenta e plasmata sugli esempi messi in atto dalla Germania nazista. Gioverebbe a un dibattito forse più sereno sul tema, non raccontare sempre e comunque una parte della storia. Altrimenti il nostro paese sarà destinato ancora una volta a non fare i conti a fondo con il proprio passato. Con il rischio di perpetuare ancora l’idea degli “italiani brava gente”, che migliaia e migliaia di pagine di inchieste hanno smentito fin da subito, addirittura già dal 1946-47 quando ad esempio venne istituita una Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Luigi Gasparotto, ministro della difesa nel III° Governo De Gasperi dedicata proprio a raccogliere informazioni e testimonianze sui crimini italiani in Jugoslavia.

“Segnale – commenta Riforma.it – che allora la consapevolezza di cosa accaduto era chiara. Poi cadde l’oblio: decine e decine di gerarchi e burocrati fascisti vennero riciclati alla causa repubblicana e occuparono ruoli di primo piano nelle forze armate e nella politica degli anni seguenti, contribuendo a mantenere nascosta la verità. Emblematico da questo punto di vista il caso de “l’armadio della vergogna”, scoperto da un’inchiesta giornalistica de “L’Espresso” soltanto nel 1999, e dai cui fascicoli nascosti emersero le troppe responsabilità italiane in molti dei momenti più tragici del secondo conflitto mondiale. Migliaia di pagine sono destinate solo ai crimini italiani in Grecia, per fare un esempio. Per non strumentalizzare occorre conoscere, anche se la verità è dolorosa. Ma non farne mai i conti non aiuta una nazione a diventare adulta.
E si finisce con il dedicare mausolei a Graziani come ad Affile, 80 km a est di Roma, o a fare monumento della casa del fascio a Predappio che diede i natali a Mussolini”.

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I particolari della strage del 19 e giorni seguenti nel  febbraio 1937

di Michele Strazza

Graziani, volendo imitare un’usanza etiope, decide di distribuire a ciascuno dei poveri di Addis Abeba due talleri d’argento, uno in più rispetto a quanto ha sempre distribuito Hailè Selassiè.

Insieme agli invitati una folla di derelitti confluisce, così, nel cortile del palazzo imperiale (“ghebbì”).

Improvvisamente due intellettuali eritrei (Abraham Debotch e Mogus Asghedom) lanciano contro alcune bombe a mano uccidendo quattro italiani, tre indigeni e ferendo una cinquantina di presenti, tra cui lo stesso Graziani.

Dopo i primi momenti di panico e indecisione vengono chiuse le uscite del vasto cortile per evitare la fuga degli attentatori.

Subito si scatena il fuoco di fucileria dei militari italiani e degli ascari libici sulla folla che cerca di fuggire.

Si spara per tre ore.

Molte persone vengono uccise anche a colpi di scudiscio nei saloni del palazzo.

Fuori partono fulminee le rappresaglie, che proseguiranno per parecchi giorni. Anche le chiese non vengono risparmiate.

Così racconta quei momenti il giornalista Ciro Poggiali, ferito leggermente ad una gamba:

«Tutti i civili che si trovano ad Addis Abeba, in mancanza di una organizzazione militare o poliziesca, hanno assunto il compito della vendetta condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista.

Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada.

Vengon fatti arresti in massa; mandrie di negri sono spinti a tremendi colpi di curbascio come un gregge.

In breve le strade intorno al tucul sono seminate di morti. Vedo un autista che dopo aver abbattuto un vecchio negro con un colpo di mazza gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta.

Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara ed innocente. (…)

20 febbraio 1937, sabato. (…) Sono stato a visitare l’interno della chiesa di San Giorgio, devastata dal fuoco appiccato con fusti di benzina, per ordine e alla presenza del federale Cortese. (…)

Alla sera cerco invano di ottenere dal colonnello Mazzi di telegrafare al giornale. Gli ordini di Roma sono tassativi: in Italia si deve ignorare. (…)

Il colonnello Mazzi mi smentisce che nel santuario di San Giorgio siano state trovate mitragliatrici; è segno che l’incendio non era giustificato. Per tutta la notte, con un accanimento anche più feroce che nella notte precedente, si continua l’opera di distruzione dei tucul.

Spettacoli da tragedia delle immense fiammate notturne. La popolazione indigena è tutta sulla strada. Impressionante indifferenza dei capannelli di donne e di bambini intorno alla masserizie fumanti. Non un grido, non una lacrima, non una recriminazione.

Gli uomini si tengono nascosti, perché rischiano di essere finiti a randellate dalle orde punitive. Episodi orripilanti di violenze inutili. Mi narrano che un suddito americano, per avere soccorso un ferito abissino, è stato bastonato dalle squadre dei randellatori».

Così descrive il massacro il prof. Harold J. Marcus:

«Poco dopo l’incidente, il comando italiano ordinò la chiusura di tutti i negozi, ai cittadini di tornare a casa e sospese le comunicazioni postali e telegrafiche. In un’ora, la capitale fu isolata dal mondo e le strade erano vuote.

Nel pomeriggio il partito fascista di Addis Abeba votò un pogrom contro la popolazione cittadina. Il massacro iniziò quella notte e continuò il giorno dopo.

Gli etiopi furono uccisi indiscriminatamente, bruciati vivi nelle capanne o abbattuti dai fucili mentre cercavano di uscire.

Gli autisti italiani rincorrevano le persone per investirle col camion o le legarono coi piedi al rimorchio trascinandole a morte.

Donne vennero frustate e uomini evirati e bambini schiacciati sotto i piedi; gole vennero tagliate, alcuni vennero squartati e lasciati morire o appesi o bastonati a morte».

Il fallito attentato diventa, dunque, l’occasione per quello che Mussolini definisce, in un telegramma a Graziani del 20 febbraio, «inizio di quel radicale repulisti assolutamente (…) necessario nello Scioà».

Il giorno dopo, sempre il Duce, telegrafa: «Nessuno dei fermi già effettuati e di quelli che si faranno deve essere rilasciato senza mio ordine. Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi».

Le violenze, come già detto, continuano per molti giorni, andando ben al di là dei tre giorni successivi nei quali si scatena la rappresaglia immediata.

Circa 700 indigeni, rifugiatisi nell’ambasciata inglese, vengono fucilati appena usciti da questa.
Non si conosce il numero esatto delle vittime nei primi giorni successivi all’attentato. Fonti etiopi parlano di 30.000 vittime, fra 3.000 e 6.000 secondo la stampa straniera del tempo.

Gli attentatori, intanto, nonostante la taglia di 10.000 talleri messa sulle loro teste, non si trovano. Su ordine di Graziani alla fine di febbraio vengono fucilate decine di notabili e ufficiali etiopi. Tutti muoiono con grande dignità e maledendo l’Italia.

Tra marzo e novembre ben 400 abissini, tra cui importanti personaggi pubblici, vengono imprigionati e deportati in Italia con cinque piroscafi.

Intere famiglie con donne e bambini sono confinate nel campo di concentramento di Danane, sulla costa somala, dopo aver sostenuto un lungo viaggio di 15 giorni con morti per stenti e malattie (vaiolo e dissenteria).

Il primo convoglio per Danane parte da Addis Abeba il 22 marzo, arrivando a destinazione solo il 7 aprile. Comprende 545 uomini, 273 donne e 155 bambini, ma moltissimi muoiono sulle strade battute continuamente dalla pioggia.

Seguiranno altri cinque convogli per un totale, secondo fonti italiane, di 1.800 unità. Per gli etiopi tale cifra va moltiplicata per quattro.

Secondo la testimonianza di Micael Tesemma (riportata da Angelo Del Boca), il quale trascorre nel campo tre anni e mezzo, su 6.500 internati ben 3.175 perdono la vita per scarsa alimentazione, acqua inquinata e malattie. Lo stesso direttore sanitario del campo – riferisce il testimone – avrebbe accelerato la fine di alcuni internati con iniezioni di arsenico e stricnina.

Il 28 febbraio Graziani arriva addirittura a proporre di «radere al suolo» la parte vecchia della città di Addis Abeba «e accampare tutta la popolazione in un campo di concentramento» ma Mussolini si oppone per paura di più decisive reazioni internazionali, pur confermando l’ordine di passare per le armi tutti i sospetti, ordine poi esteso a tutti i governatori dell’Impero.

Le esecuzioni proseguono anche a marzo e Graziani ordina anche la fucilazione di tutti i cantastorie, gli indovini e gli stregoni di Addis Abeba e dintorni, in quanto responsabili di annunciare nei vari mercati la fine prossima del dominio italiano. L’iniziativa è approvata da Mussolini.

Dalle carte di Graziani risulta una costante corrispondenza con Lessona nonché l’elenco dettagliato delle fucilazioni eseguite ad Addis Abeba e nella regione circostante dal 27 marzo al 25 luglio 1937 per un totale di 1.877 esecuzioni.

Il 7 aprile il Vicerè telegrafa al generale Maletti che il territorio deve «essere assolutamente domato e messo a ferro e fuoco», precisando:

«Più Vostra Signoria distruggerà nello Scioà e più acquisterà benemerenze».

Da una statistica dell’attività dell’Arma dei carabinieri, firmata dal colonnello Hazon e datata 2 giugno, si ricava che i soli carabinieri hanno passato per le armi 2.509 indigeni.

Sempre Ciro Poggiali racconta l’episodio di un capitano italiano che, dopo aver fatto razzia di bestiame a danno di una famiglia indigena, di fronte alle proteste del capofamiglia «uccide tutta la famiglia compresi i bambini». E ancora, sui metodi dei carabinieri:

«Sul piazzale del tribunale assisto al trasporto, dopo la condanna per furto, di un giovinetto moribondo per denutrizione. Un altro non si regge in piedi per le botte. I carabinieri che hanno in custodia i prevenuti da presentare alla così detta giustizia, hanno importato dall’Italia, moltiplicandoli per mille, i sistemi polizieschi più nefandi».

Anche ai reparti militari che operano sul territorio etiope viene dato ordine di passare per le armi gli Amhara trovati, quali presunti responsabili dell’attentato.

Così il capitano degli alpini Sartori è incaricato di eliminare 200 Amhara catturati nei dintorni di Soddu. L’ufficiale li ammassa in una grande fossa scoperta tra i dirupi e ordina ai suoi ascari di sparare. Il ricordo della carneficina turberà il resto della vita del capitano che morirà smemorato, qualche anno dopo, in una prigione del Kenya.

Da maggio in poi avviene la distruzione della chiesa copta sulla base anche di un rapporto dell’avvocato militare Oliveri. La tesi è quella di un complotto cui non è estraneo l’aiuto degli inglesi e della comunità ecclesiale copta.

Il battaglione eritreo, composto in gran parte da copti, viene sostituito con uno somalo mussulmano, più adatto alla repressione dei cristiani.

Le truppe (un battaglione di ascari mussulmani e la banda galla “Mohamed Sultan”), dunque, comandate dal generale Pietro Maletti, partono per la cieca rappresaglia. Lungo i 150 km che da Addis Abeba portano alla città-convento di Debrà Libanòs vengono incendiati 115.422 tucul, tre chiese e un convento, mentre ben 2.523 sono i “ribelli” giustiziati.

Dopo la distruzione del convento di Gulteniè Ghedem Micael, il 13 maggio, e la fucilazione dei monaci, il 18 maggio Debrà Libanòs viene accerchiata per punire i religiosi accusati di aver dato rifugio ai due attentatori di Graziani.

Il 19 arriva un telegramma di Graziani che conferma la complicità dei monaci nell’attentato e ordina di passare «per le armi tutti i monaci indistintamente, compreso il vicepriore».

Il 20 mattina tutti i religiosi catturati vengono caricati sui camion. All’una le esecuzioni sono terminate per riprendere poi, il 26 maggio, quando 129 giovani diaconi, risparmiati sei giorni prima, vengono anch’essi trucidati.

Fino al 27 maggio vengono passati per le armi 449 tra monaci e diaconi. Secondo ricerche portate avanti da studiosi dell’Università di Nairobi e di Addis Abeba e comunicate ad Angelo Del Boca il numero delle vittime del massacro si aggirerebbe, invece, addirittura tra 1.423 e 2.033 uomini.

Le vittime, trasportate sul luogo dell’eccidio da una quarantina di camion, vengono incappucciate e fatte accucciare sul bordo di un crepaccio, uno a fianco all’altro. Le mitragliatrici sparano in continuazione per cinque ore. Interrotte solo per buttare i cadaveri nel crepaccio.

Coperto dall’approvazione di Mussolini, Graziani rivendicò «la completa responsabilità» di quella che definì con orgoglio la «tremenda lezione data al clero intero dell’Etiopia», soddisfatto di «aver avuto la forza d’animo di applicare un provvedimento che fece tremare le viscere di tutto il clero, dall’abuna all’ultimo prete o monaco, che da quel momento capirono la necessità di desistere dal loro atteggiamento di ostilità a nostro riguardo, se non volevano essere radicalmente distrutti».

Nel dopoguerra, nonostante le richieste etiopiche, nessun italiano venne mai punito per questi e per altri massacri, favorendo la rimozione dalla memoria collettiva dei crimini compiuti dagli italiani durante le guerre fasciste.

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Nomi da ricordare e numeri da rabbrividire

(“Magazineitalia.net”)

Siamo in Italia, si rende sempre più doveroso far conoscere la verità sul fascismo, visto che esistono ancora persone, che pensano al fascismo come a un peccato veniale.Però è proprio qui, nel nostro paese che è nato, ed ha fatto da padrino al nazismo.

Essi sono complici in nefandezze e abominio. Hanno mistificato la realtà e continuano ancor oggi attraverso accoliti ignoranti a perpetrare la sopraffazione come principio fondante, la xenofobia come ideale, la ricerca mistica del capo da adorare e risolutore dei propri ed altrui problemi, spesso artatamente creati.

Rammento che il fascismo in Italia, è punito dalla costituzione e le leggi sono molto chiare a riguardo.

É un’ideologia criminale!

Nell’ordinamento italiano, l’apologia del fascismo è un reato previsto dalla legge 20 giugno 1952, n. 645 (contenente “Norme di attuazione della XII disposizione transitoria e finale (comma primo) della Costituzione”), anche detta Legge Scelba.

Per tutti quelli che abbiano ancora le idee confuse sul fascismo e il modo di essere rappresentato è necessario ricordare:

1.Eccidio della Benedicta,

2.Eccidio di Monte Sole (Marzabotto, Monzuno, Grizzana),

3.Eccidio di Padule di Fucecchio,

4.Eccidio di Pietransieri,

5.Eccidio di Sant’Anna di Stazzema,

6.Eccidio di Vallucciole,

7.Strage di Acerra,

8.Strage di Bellona,

9.Strage di Boves,

10.Strage di Cavriglia,

11.Strage di Civitella,

12.Strage di Colle del Turchino,

13.Strage delle Fosse Ardeatine,

14. Strage di Godego,

15. Strage di Lippa,

16. Strage di Monchio, Susano e Costrignano…..

e tante altre nefandezze perpetrate, dalla Libia all’Etiopia, alla Grecia, alla Yugoslavia fino alla disfatta dopo 5 anni di guerra che fecero pagare al popolo italiano un enorme prezzo di vite umane .

Sono tutte azioni terroristiche che hanno visto i fascisti in azione con i nazisti. Persone massacrate con inaudita ferocia, civili prima torturati e poi passati per le armi, nessuna pietà per donne e bambini. Chiusi nelle chiese e poi arsi vivi dalle fiamme.

Tolsero i feti con le baionette alle donne agonizzanti e li gettarono in aria per farne bersaglio per i loro fucili.

Diffondere l’antifascismo ritengo sia un dovere, civile e morale.

La pagina più buia della storia italiana è stata scritta da Mussolini. Considerare quindi criminali, tutti quelli che per inerzia, per assoluto disprezzo della storia, per ignoranza o peggio per interesse personale, ancora si rifanno a quella ignominia che è il fascismo non è assolutamente fuori luogo ma doveroso per comprendere ciò che è stato, e che questi revanscismi siano finalmente relegati nella giusta dimensione.

LSe ancora qui in Italia non sono stati puniti come criminali di guerra è perché esistette un’armadio della vergogna, rinvenuto con le porte rivolte al muro solo nel 1994 in un locale di palazzo Cesi-Gaddi (sede di vari organi giudiziari militari) in via degli Acquasparta nella città di Roma.

Vi erano contenuti 695 fascicoli d’inchiesta e un Registro generale riportante 2274 notizie di reato, relative a crimini di guerra commessi sul territorio italiano durante l’occupazione nazi-fascista.

Per chi se ne fosse dimenticato, dopo il gran consiglio del fascismo del 24 luglio del 1943 il governo Mussolini non aveva più alcun potere legale poiché esautorato dagli stessi fascisti e quindi con la successiva proclamazione della repubblica di Salò, fu traditore ed eversivo nei confronti del successivo governo legalmente riconosciuto. Quindi criminale ad ogni effetto.

È da molto tempo che circolano su internet bufale sul fascismo e su Mussolini, spesso strumentalizzate a fini politici o di riabilitazione del fascismo, che vengono condivise da molte persone ignare della loro attendibilità. Qui di seguito verranno riportati alcuni miti su Mussolini.

Per ben inquadrare il periodo storico, ricordiamo che governò l’Italia dal 28 ottobre 1922 alla fine del fascismo con la seconda guerra mondiale, finendo per essere giustiziato dagli italiani il 28 aprile 1945 (data che coincide con la fine di quello che restava del fascismo).

Invece, per inquadrare bene Mussolini ed il fascismo, ecco spiegato in breve i suoi doni all’Italia.

Squadrismo e violenza politica.

Fra le attività “qualificanti” del fascismo del primo periodo vi è il sistematico ricorso alla violenza contro gli avversari politici, le loro sedi e le loro organizzazioni, da parte di bravacci legati ai ras locali. Torture, olio di ricino, umiliazioni, manganellate. Non di rado, tuttavia, gli oppositori perdevano la vita a seguito delle violenze.

Un calcolo approssimativo induce a calcolare in circa 500 i morti causati dalle spedizioni punitive fasciste fra il 1919 e il 1922. Il parroco di Argenta, don Giovanni Minzoni, fu assassinato in un agguato da due uomini di Balbo, nell’agosto del 1923. Ma anche quando il fenomeno della violenza squadrista sembrò perdere le proprie caratteristiche originarie, e gli uomini legati ai ras locali vennero convogliati in organizzazioni ufficiali come la Milizia volontaria, forme di violenza politica sostanzialmente analoghe allo squadrismo non cessarono di costellare la vicenda del fascismo al potere.

Per tutti, tre casi notissimi:

– nel giugno 1924 Giacomo Matteotti venne rapito e assassinato con metodo squadrista, e il gesto sarebbe stato esplicitamente rivendicato da Mussolini nel gennaio dell’anno successivo;

– Piero Gobetti, minato dall’aggressione subita nel settembre 1924, morì due anni dopo, in esilio;

– Giovanni Amendola spirò per le ferite riportate in un’aggressione fascista subita nel luglio 1925.

 

Assunto il potere Mussolini si poté giovare dell’apparato di repressione dello Stato, che venne rafforzato e riorganizzato.

Con la nascita dell’OVRA (l’Organizzazione per la Vigilanza e la Repressione dell’Antifascismo) venne razionalizzata la persecuzione degli antifascisti, con tutti i mezzi, legali e illegali. Anche l’omicidio politico in paese straniero.

Arturo Bocchini, capo della polizia, venne incaricato dallo stesso Duce e dal ministro degli Esteri Galeazzo Ciano di eliminare fisicamente Carlo Rosselli che allora risiedeva a Parigi.

Il 9 giugno 1937, a Bagnoles-de-l’Orne dove Carlo Rosselli e il fratello Nello si erano recati per trascorrere il fine settimana, un commando di cagoulards (gli avanguardisti francesi) compì la missione: bloccata l’auto sulla quale viaggiavano i due fratelli, Carlo e Nello furono prima pestati, poi, accoltellati a morte.

Lo strumento ufficiale della repressione fascista fu invece il Tribunale speciale per la difesa dello Stato. L’attentato di Anteo Zamboni a Mussolini, il 31 ottobre 1926, offrì l’occasione di una serie di misure repressive.

Tra queste la “legge per la difesa dello Stato”, n. 2008 del 25 novembre 1926, che stabilì, tra l’altro, la pena di morte per chi anche solo ipotizzava un attentato alla vita del re o del capo del governo. A giudicare i reati in essa previsti, la nuova normativa istituì il Tribunale speciale, via via prorogato fino al luglio 1943, quindi ricostituito nel gennaio 1944, nella Rsi.

Nel corso della sua attività, emise 5619 sentenze e 4596 condanne. Tra i condannati anche 122 donne e 697 minori. Le condanne a morte furono 42, delle quali 31 furono eseguite mentre furono 27.735 gli anni di carcere.

Tra i suoi ‘beneficati’, ci furono Antonio Gramsci, che morì in carcere nel 1938, il futuro presidente della Repubblica Sandro Pertini e Michele Schirru, fucilato nel 1931 solo per avere espresso “l’intenzione di uccidere il capo del governo”.

Il confino di polizia in zone disagiate della Penisola, fu una misura usata con straordinaria larghezza. Il regio decreto 6 novembre 1926 n.1848 stabilì che fosse applicabile a chiunque fosse ritenuto pericoloso per l’ordine statale o per l’ordine pubblico.

A un mese dall’entrata in vigore della legge le persone confinati erano già 600, a fine 1926, oltre 900, tutti in isolette del Mediterraneo o in sperduti villaggi dell’Italia meridionale. A finire al confino furono importanti nomi della futura classe dirigente: da Pavese a Gramsci, da Parri a Di Vittorio, a Spinelli. Gli inviati al confino furono, complessivamente, oltre 15.000. Ben 177 antifascisti morirono durante il soggiorno coatto.

La politica antiebraica del regime fascista culminò nelle leggi razziali del 1938. Alla persecuzione dei diritti subentrò, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, anche la persecuzione delle vite. La prima retata attuata risale al 16 ottobre 1943 a Roma; degli oltre 1250 ebrei arrestati in quell’occasione, più di 1000 finirono ad Auschwitz, e di essi solo 17 erano ancora vivi al termine del conflitto.

Il Manifesto programmatico di Verona (14 novembre 1943) sancì che gli ebrei erano stranieri e appartenevano a “nazionalità nemica”. Di lì a poco un ordine di arresto ne stabilì il sequestro dei beni e l’internamento, in attesa della deportazione in Germania.

Nelle spire della “soluzione finale” hitleriana il regime fascista gettò, nel complesso, circa 10.000 ebrei. Oltre alla deportazione razziale, fra le responsabilità del regime di Mussolini c’è anche la deportazione degli oppositori politici e di centinaia di migliaia di soldati che, dopo l’8 settembre, preferirono rischiare la vita nei campi di concentramento in Germania piuttosto che aderire alla Rsi.

Nella guerra fuori dai confini i morti contano meno? Allora non si possono proprio considerare tali gli etiopi uccisi con il gas durante la guerra per l’Impero, o i libici torturati e impiccati durante le repressioni degli anni Venti e Trenta, o gli jugoslavi uccisi nei campi di concentramento italiani in Croazia.

Ma la spada di Mussolini provocò tanti morti anche tra i suoi connazionali. Mussolini trascinò in guerra l’Italia il 10 giugno del 1940, per partecipare al banchetto nazista. I risultati, per l’Italia, furono questi.

Fino al 1943, 194.000 militari e 3.208 civili caduti sui fronti di guerra, oltre a 3.066 militari e 25.000 civili morti sotto i bombardamenti alleati.

Dopo l’armistizio, 17.488 militari e 37.288 civili caduti in attività partigiana in Italia, 9.249 militari morti in attività partigiana all’estero, 1.478 militari e 23.446 civili morti fra deportati in Germania, 41.432 militari morti fra le truppe internate in Germania, 5.927 militari caduti al fianco degli Alleati, 38.939 civili morti sotto i bombardamenti, 13.000 militari e 2.500 civili morti nelle file della Rsi.

A questi vanno aggiunti circa 320.000 militari feriti sui vari fronti per l’intero periodo bellico 1940/1945 e circa 621.000 militari fatti prigionieri dalle forze anglo-americane sui vari fronti durante il periodo 1940/1943.

Ci sarebbe tanto altro da aggiungere, ampiamente documentato: corruzione dilagante, dossier, lettere, minacce, accuse vere e false oscenità, inganni, arresti, ed anche ricatti.

Un ventennio di ricatti! Gerarca contro Gerarca, amante contro amante, e l’accusa di omosessualità come arma politica, e Mussolini su tutto e su tutti fa spiare, controlla, punisce, muove le sue pedine.

La prossima volta che vi imbattete magari sui muri della vostra città in un immagine che inneggia o rievoca il triste ventennio o la saggezza del Duce e di come potrebbe essere la salvezza dell’Italia, fate una ricerca sulla storia del fascismo prima di assentire anche solo leggermente con il capo o esprimere un mezzo sorriso di beneplacito.

FASCISMO, MITO COSTRUITO SULLA PAURA

di Gabriele Via

I miei genitori sono nati in pieno fascismo: papà nel ’27 e mamma nel ’31 del secolo scorso. L’ Italia che ho conosciuto io è un’Italia che non è stata capace di fare una riflessione profonda e matura sulla propria storia.

Ancora, a livello popolare – dove non regni la tabula rasa della “Gazzetta dello sport” – siamo preda dello stereotipo Don Camillo e Peppone. Ma non potrà esserci un consapevole antifascismo se non avviene una comprensione il più meditata e studiata possibile sulla storia.

Abbiamo avuto una generazione di quello che Pasolini chiamava il fascismo naturale (per lui e la sua generazione) che va dalla marcia su Roma al 25 luglio del ’43. Dal settembre di quell’anno c’è poi stato il periodo della Repubblica Sociale e della Resistenza. E nel dopoguerra ancora abbiamo avuto il neofascismo.

Davanti a questi episodi storici ci sono stati almeno tre diversi tipi di antifascismo. Quando Silone scriveva “Vino e pane” l’antifascismo era elitario e clandestino. Davvero di pochi, in Italia. Ma tra la seconda metà del ’43 e la fine della guerra ecco un altro fascismo (nazifascismo) e un’ altra e più diffusa primavera di coscienza antifascista è poi la pagina Repubblicana.

Io credo che si possa e si debba ancora essere sempre antifascisti. Perché il fascismo è un mito costruito sulla paura, che trasforma in psicopatiche le sue prime vittime, subito pronte a trasformarsi in carnefici. Oggi il fascismo andrebbe trattato in sede clinica e ogni stato dovrebbe curarsi di fare la prevenzione necessaria sul piano educativo perché questo problema sanitario non abbia a interessare le generazioni future. Ma queste sono provocazioni idealistiche.

Quelli che 75 anni fa erano i temi al centro delle leggi razziali, di cui oggi la scienza ride e un bambino di dodici anni potrebbe smontare sul piano razionale, sono attualmente i sentimenti oscuri nelle viscere di milioni di italiani analfabeti (l’analfabetismo è un altro tema reale e concreto su cui dovere lavorare senza schemi ideologici) che vengono strumentalizzati da un potere mediatico consumistico che oggi rappresenta il vero occulto dittatore.

Oggi non ci sono più i comunisti che mangiano i bambini: non esiste cioè più la propaganda che nel comunista individua il male assoluto. Già Berlusconi usava i comunisti come una specie di caricatura del male, non proprio il male. Oggi ci sono gli islamici, i diseredati d’Africa, i neri, i gialli, i nomadi, i diversi… Contro costoro si riversano i sentimenti di paura che con poca e dolce clinica potrebbero essere materia di cura personale di sé e miglioramento della nostra vita condominiale e familiare. Alcune mie poesie sono rabbiosamente rivolte al mondo del mass media. Sono infatti sgomento dalla totale dabbenaggine con cui persone anche di studio e riflessione si lascino stuprare l’intelletto da pubblicità e tv di intrattenimento che sono neofascismo puro all’opera.

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Sul “padrepiismo” e su certa religiosità

A ciascuno la sua sensibilità

di Piero Murineddu

Anche ieri, durante una delle mie passeggiate sempre più  rare, mi è capitato di trovarmi davanti l’espressione non proprio giuliva del frate delle stigmate e delle miriadi richieste di “miracoli” andate, si dice, a buon fine. Letto il pensiero in proposito che Vigilante scriveva diverso  tempo fa che riporto sotto, mi son ricordato del riferimento che sul finale del lungo articolo vi era ad Arturo Paoli, e i pochi che frequentano questo mio spazio, sanno della stima e dell’affetto che mi hanno legato e tutt’ora continuano a legarmi al caro Arturo, “giovanissimo” vegliardo che ha speso la sua vita per confermare a se stesso e mostrare agli altri, che il Messaggio Evangelico non è pia (!) consolazione davanti alle brutture del mondo, ma è impegno concreto per cambiarlo.

Credo nel 2016 avevo già considerato l’ argomento che ripropongo oggi.

Per la mia sensibilità non sono stato mai attratto né da padre Pio, né dalle apparizioni mariane periodiche, una tantum o di lunga durata ch’ esse siano, qua e là nel pianeta Terra o anche altrove , né da veggenti vari di ogni nazionalità, molto supposti portavoce della Volontà Superiore….

Ripeto: questo è il mio sentire. Il mio caratteraccio, e non solo esso, mi porta anche a stare lontano dalle grandi folle che ascoltano estasiate qualche oratore illuminato. Preferisco la riflessione personale e il dialogo interpersonale o in un piccolo gruppo. Comunque, a differenza di come facevo negli anni giovanili e anche fino a qualche anno fa, non mi sento però di giudicare chi da questi aspetti della vita religiosa sono attratti e, da quel che dicono, traggono giovamento. Quando mi capita di parlare con qualcuno di loro, chiedo semplicemente

se questa loro sensibilità di fede ha incidenza nella vita concreta,

se si sentono motivati di più ad essere accoglienti verso gli altri,

ad avere il coraggio della denuncia,

a far prevalere sempre la giustizia,

a smascherare i sepolcri imbiancati,

a non scendere a compromessi con la loro coscienza,

a far partecipi altri delle loro possibilità economiche……..

L’idea di esporre a Roma il corpo alla venerazione pubblica non mi aveva entusiasmato granché, ma nello stesso tempo non ho provato delusione nei confronti di Papa Francesco (a proposito, perchè Vigilante parlava di un Francesco II?). Continuo a credere che questo Papa stia da sempre cercando di dare una Svolta, e questo nonostante i tanti che all’interno della stessa Chiesa lo hanno avversato sin dall’ inizio del suo pontificato, certi apertamente, la maggior parte, compresi non pochi porporati, facendo finta di applaudire se inquadrati dalle telecamere o meno.

Non dubito che i fatti su padre Pio riportati da Antonio Vigilante siano veritieri, ma sicuramente ne fa una lettura personale, come del tutto personale e soggettivo è il suo giudizio sul vastissimo popolo dei credenti, dove convivono diverse (e a volte diversissime) realtà e modi di porsi davanti alla propria e all’ altrui vita.

Lo ripeto, lo ribadisco e continuerò a farlo vita natural durante o gumenti capiita si dizi:

a ciascuno e a ciascuna la sua sensibilità, ma basta con una vita “spirituale” concentrata sulla mortificazione e sul battersi spesso ipocritamente il petto, a proposito della Quaresima che inizia oggi. Magari, si, sulla Rinuncia, ma ad ogni pensiero e soprattutto azione che vada contro il prossimo, ad iniziare da chi non se la passa per niente bene. Pax, Bonum o quel che volete per poter finalmente gioire della vita che sentiamo sempre più passeggera.

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Il mondo che ruota intorno al padrepiismo

di Antonio Vigilante (*)

 

Una teca di vetro. Nella teca il cadavere di un monaco cappuccino, con il volto di cera. Sulla teca molti fiori. Davanti alla teca una donna scatta una foto con il cellulare: un selfie, per la precisione.
Il monaco è, naturalmente, padre Pio, anzi San Pio. Il contesto è quello del Giubileo Straordinario della Misericordia, proclamato da papa Francesco II con la bolla Misericordiae Vultus, “come tempo favorevole per la Chiesa, perché renda più forte ed efficace la testimonianza dei credenti”.

La religione comprende una molteplicità di cose, spesso contraddittorie, che è possibile ordinare in uno spettro che va dal bisogno al desiderio. Il bisogno è mancanza, il desiderio è slancio. Bisogno è mangiare, bere, vestire, avere un tetto. Bisogno è avere un lavoro, riconoscimento sociale, sicurezza. Il desiderio è altro. Per dirla con il Lévinas di Totalità e Infinito: “Al di fuori della fame che può essere soddisfatta, della sete che può essere estinta e dei sensi che possono essere appagati, la metafisica desidera l’Altro al di là delle soddisfazioni, senza che il corpo possa inventarsi un gesto per diminuire la aspirazione, senza che sia possibile abbozzare una qualche carezza conosciuta o inventarne una nuova”. Questo altro del desiderio può assumere forme diverse. Nella mistica, che considero il momento più alto e puro del fenomeno religioso (e che – ma il discorso sarebbe lungo – non implica alcuna fede in Dio), l’altro è l’altro dell’io: la religione è il movimento che spinge l’io oltre sé stesso, in uno slancio che è al tempo stesso terribile e gioioso. Ma l’altro può essere anche l’io dell’altro, e la religione essere amore puro, appassionato, esigente dell’altro, apertura intensa al tu, etica rigorosa. E da questa apertura, che rifiuta la riduzione dell’altro a cosa, nasce l’esigenza di un mondo altro, di una realtà liberata dalla sofferenza, dallo sfruttamento, dall’ingiustizia. Un’etica che si fa al tempo stesso politica ed escatologia.

Il cattolicesimo di Padre Pio è il cattolicesimo del bisogno. Il cattolicesimo dell’uomo e della donna che, di fronte alle difficoltà della vita, avvertono la necessità – facile, semplice – di una figura divina di riferimento, che offra una protezione pronta e sicura. Larga parte del mondo cattolico trae alimento da questo bisogno di rassicurazione. Esiste, nel cattolicesimo, una vera e propria industria della rassicurazione, fatta di polverine di Santa Rita, acque di Lourdes, coroncine benedette, eccetera. Si tratta di un fenomeno che naturalmente confina con la superstizione e con la magia, e che il padrepiismo (o sanpiismo) rappresenta alla perfezione. Il mondo nel quale nasce e si afferma la figura di Padre Pio è un mondo rurale estremamente arretrato, quel mondo contadino pugliese nel quale la figura del santone era ordinaria non meno di quella del parroco, ma al tempo stesso è una figura che sa inserirsi nel mondo e nelle sue logiche anche politiche ed economiche con straordinaria scaltrezza.

Chi era, davvero, padre Pio?

Scelgo solo tre episodi da Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento di Sergio Luzzatto (Einaudi).

Uno. 1911-1913. Dopo essere stato ordinato sacerdote, il giovane fra’ Pio passa quasi tutto il tempo nella sua casa di Pietrelcina, perché malanni non meglio precisati gli rendono impossibile la vita in convento. E da casa sua scrive lettere ai suoi direttori spirituali, fra’ Benedetto e padre Agostino, entrambi di San Marco in Lamis. Lettere nelle quali descrive con trasporto il suo travaglio spirituale, le sue estasi, il suo rapporto personale con Cristo. Ma le lettere sono copiate, per la precisione riprese parola per parola dell’epistolario di Gemma Galgani, una donna di Lucca che aveva ricevuto le stimmate nel 1899, e il cui libro era tra le letture del giovane frate.

Due. 15 agosto 1920. San Giovanni Rotondo. Un’automobile esce dal convento dei cappuccini per giungere nella piazza principale del paese. A bordo padre Pio, acclamato dalla folla. Giunto in piazza, il frate benedice la bandiera dei reduci, che nella zona hanno organizzato le prime squadre fasciste. Due mesi dopo, in quella stessa piazza, undici contadini socialisti saranno massacrati dai soldati. All’indomani dell’eccidio, il frate accoglierà con grande cordialità nel suo convento Giuseppe Caradonna, figura di primo piano del nascente fascismo in Capitanata.

Tre. 1921. Il Santo Uffizio manda a San Giovanni Rotondo monsignor Raffaele Carlo Rossi, per interrogare il frate. Tra le altre cose, monsignor Rossi gli chiede conto di una certa sostanza da lui ordinata in gran segreto in una farmacia locale, che poteva servire a procurare le stimmate. Il frate si difende sostenendo che intendeva usarla per fare uno scherzo ai confratelli, mischiandola al tabacco in modo da farli starnutire. Il profilo che emerge è quello di un fascista un po’ imbroglione, privo di qualsiasi spessore umano e culturale, che, a voler essere buoni e prendere per vera la sua deposizione, acquista sostanze pericolose per fare uno scherzo da prete ai suoi confratelli mentre si fa fotografare in pose mistiche con le stimmate in bella evidenza.

Qualche anno fa sulla facciata della chiesa di San Pietro al Cep, a Foggia, comparve una macchia di umidità. Le macchie di umidità, come le nuvole e le venature del marmo o del legno, hanno questa caratteristica: con un po’ di fantasia vi si può scorgere quello che si vuole. Soprattutto la figura tozza di un padre cappuccino. E dunque si gridò al miracolo, come succede. E come succede talmente spesso, anzi, che non varrebbe nemmeno la pena di citare la faccenda, se non fosse che in quel caso dopo qualche giorno partirono già i primi autobus di fedeli, primi segni di un promettente business o, se si preferisce, di una esaltante esperienza di fede. Per fortuna quelle macchie di umidità ebbero il buon senso di scomparire al cambiare del tempo.
La figura di padre Pio, anzi di San Pio, è una calamita che in modo irresistibile attira il peggio del cattolicesimo: la superstizione, il fanatismo, il miracolismo, l’esteriorità dei riti, la rinuncia al pensiero. E l’affarismo, la furbizia, l’abuso della credulità popolare. Se non vi fosse quest’ultimo aspetto – ma è mai separabile dal resto? – si potrebbe provare qualche indulgenza e vedere in una simile ridicola accozzaglia di assurdità e cattivo gusto una risposta al bisogno umanissimo di protezione.

Il padrepiismo è una delle malattie del cattolicesimo. Una malattia che, se la Chiesa avesse buon senso, cercherebbe di contrastare, e che invece alimenta, incoraggia, esalta, inseguendo un facile consenso e successo presso masse sempre più distratte, sempre meno religiose. Resasi conto della difficoltà di una evangelizzazione, la Chiesa sembra perseguire l’obiettivo più abbordabile della padrepiizzazione delle masse.

“Il cattolicesimo deve alla sua antichità e alla sua avversione per ogni violenta formazione di massa, la quiete e l’estensione che esercitano una fortissima attrazione su molti”, scriveva Elias Canetti in Massa e potere (1960). Queste parole, valide quando furono scritte, non sono più vere dopo il pontificato di Giovanni Paolo II, il papa dei raduni oceanici, che prima di allora si erano visti soltanto nei regimi totalitari. E non è un caso che sia stato lui a volere fortemente la santificazione di padre Pio. Il santo di Pietrelcina è la figura-chiave per il passaggio del cattolicesimo dal mondo pre-moderno della società contadina al mondo post-moderno della massa anonima. Espressione architettonica di questo passaggio è il nuovo santuario di San Giovanni Rotondo progettato da Renzo Piano: un non-luogo nel quale è impossibile qualsiasi esperienza che non sia, appunto, quella della immersione in una massa anonima.

Con il Vaticano II, la Chiesa aveva fatto un tentativo generoso di confronto con la modernità (ed è appena il caso di ricordare l’insofferenza di Giovanni XXIII verso padre Pio). Con Giovanni Paolo II, archiviato il Concilio, la Chiesa si è lanciata nella post-modernità. Tutta o quasi la cultura moderna viene rigettata come relativismo, si condanna la teologia della speranza, si instaura il culto della persona del papa e si esalta la santità di un frate che politicamente offre molte certezze: nessuno troverà mai, nei suoi scritti o nella sua biografia, il minimo appiglio per una interpretazione del cattolicesimo che minacci il buon ordine sociale.

Torniamo all’immagine da cui siamo partiti. Il selfie è l’espressione dell’attuale narcisismo di massa. In primo piano ci sono io, sullo sfondo tutto il resto: santo compreso. La società dei consumi, che è una società di massa, si regge al tempo stesso sul narcisismo più sfrenato. È una società che dice io, ed è un dire io sempre più disperato, perché l’io è puntellato dal possesso di cose, più che dalla sostanza viva delle relazioni sociali e spirituali. Un io solo, che più dice io più si smarrisce nella massa, più acquista più perde. In questo contesto economico e culturale, anche la fede – la fede cattolica – diventa narcisismo. “Dio ti ama, ti ama talmente tanto che è morto per te”: questo è il messaggio attraverso il quale le parrocchie vendono oggi il prodotto-Dio. Superate le inquietudini del passato, la fede è oggi una cosa semplice: in definitiva una questione di gratitudine. Dio ti ama ed è morto per te, e tu gli giri le spalle? Un gesto insensato, come spegnere la televisione o rifiutare l’offerta prendi tre e paghi due. Padre Pio, alter Christus, è il protagonista di questo cattolicesimo facile, consumistico, narcisistico. Di questo cattolicesimo disperato.

Qualche tempo fa è scomparso, in silenzio ed umiltà come è sempre vissuto, Arturo Paoli, per tutti fratel Arturo. Nei suoi più di cento anni di vita questo uomo straordinario ha fatto la resistenza, ha salvato la vita di molti ebrei durante il fascismo (per questo è stato dichiarato Giusto delle nazioni) e poi, ordinato sacerdote, ha passato tutta la vita accanto ai poveri ed ai lavoratori, non retoricamente, ma faticando e lottando con loro: al porto di Orano, nelle miniere della Sardegna, nei boschi dell’Argentina. Non aveva le stimmate, non faceva miracoli. Metteva semplicemente in pratica il Vangelo. E’ lui il rappresentante più autentico e profondo, nel cattolicesimo italiano dell’ultimo secolo, di quella che ho chiamato religione del desiderio. Il suo è un cattolicesimo purissimo, al tempo stesso semplice e raffinato, capace di dialogare con gli umili senza corromperli con il fanatismo e la superstizione, che non stringe la mano ai fascisti ma attacca il potere esigendo giustizia. Ha indicato un’altra via, la via del desiderio. Una via che è, oggi, un sentiero non segnato sulla mappa, lungo il quale è sempre più raro che qualcuno si avventuri.

(*) Antonio Vigilante, 53enne docente di Filosofia e Scienze Umane al Liceo “Santa Caterina” di Siena

Zimbonia, l’ ipagliosumini sussincu ed altro ancora

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Presentazione

di Piero Murineddu 

Scrive Andrea Pilo nelle prime pagine del suo volume pubblicato nel 1999: ” Non è certo la Brunelleschiana Fiorentina o la Michelangelesca VatIcana ma è “La nostra cupola” attraverso la quale identifichiamo il nostro mondo, il nostro tempo di ieri e di oggi, le nostre storie felici o tristi. Tutto, nel bene e nel male, è stato vissuto e si vive dentro o fuori della “Zimbonia” ed è per questo che è, e resterà, oltre all’identificazione religiosa (….)”

Esagerato? Mah! Certo che da sempre per Andrea, appassionato d’arte e, per quanto so io, anche esperto in questo  campo, Giesgia Manna col suo cupolone ha avuto sempre particolare e alto significato, e il compianto studioso Nicola Tanda nella presentazione del volume, assicura che anche  tutti li sussinchi sentono l’importanza e “vicinanza” affettiva per questo luogo “simbolico”, come lui stesso afferma qui sotto. Il docente universitario, rischiando di urtare la suscettibilità di quelli tra i sorsinchi di “poco spirito”, ne dice di tutti i colori, mettendo anche in rilievo certo nostro “ipagliosumini” sia esso vero o presunto, simboleggiato appunto da la boccia manna di la zimbonia.

C’è da conoscere, imparare, riflettere, da ridere  e d’abbascià la crestha  leggendo il pensiero di uno dei fratelli Tanda, e se vogliamo, rilassarsi  “sgonfiando il petto”. Dei maschi soprattutto, in quanto quello delle donne…vanno bene così.

Al termine della sua presentazione, il Prof rileva che una delle 28 tele tra quelle realizzate dai pittori “continentali” dopo aver ricevuto una foto da Andrea, il romano Franco Fortunato“l’ha interpretata come una nuova Arca di Noè, consapevole che quei valori comunitari che essa rappresenta e che hanno caratterizzato nel passato il paese, non possono andare dispersi, poiché costituiscono la speranza di una continuità tra passato e futuro”

Sempre il “solito” e importante auspicio: non disperdere i valori comunitari, quelli che creano continuità nel tempo che passa. Cosa condivisibile da chi ha buon senso e da chi considera fondamentale avere una propria identità personale e collettiva. “Identità collettiva”: mi chiedo spesso se ai nostri giorni ciò sia ancora possibile, considerando l’estrema e spesso esasperata soggettivazione dilagante sotto tutti i punti di vista. Ma naturalmente questo è un mio chiodo fisso, che probabilmente mi porterò dietro fino all’ultimo dei miei giorni.

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La Zimbonia secondo Franco Fortunato

Scrive Andrea su questa tela: “L‘Arca, immensa, ancorata su una spiaggia con la parte centrale coperta da tre velari che cadono dall’alto di un traliccio, ma che non impediscono di vedere in tutta la sua grandezza la chiesa con la sua caratteristica zimbonia. La composizione bellissima, è giocata tutta sul colore brunobruciato, che rende maggiormente poetico questo incredibile “coro” che l’artista ha voluto innalzare in onore di Santu Pantareu e della sua zimbonia”.

Introduzione al volume

di Nicola Tanda

Il termine zimbònia deriva dal catalano cimbori, e dallo spagnolo cimborio. Il Dizionario Etimologico Sardo del Wagner reca: “in logudorese settentrionale tsinbòina (sassarese zinbònia)..; anche zimbònia. In logudorese si usa anche per “cotta”, ”sbornia” (ha leadu una zimbòina), secondo il Casu.

Le due eccezioni di zimbònia, o meglio con metatesi della “i”, zimbònia, quella del linguaggio architettonico, relativa alla cupola e quella figurata e metaforica, relativa alla sbornia, si addicono entrambe alla cupola di San Pantaleo che, come tutti sanno, è un monumento neoclassico, progettato e costruito dal padre Antonio Cano agli inizi dell’Ottocento.

La chiesa parrocchiale è concepita secondo lo stesso schema e modulo impiegato nella costruzione della cattedrale di Nuoro ed è sorta sulla pianta della precedente chiesa in stile romanico di San Pantaleo. Non erano tanti i paesi che avevano titolo per vantare una chiesa tanto imponente, la quale doveva rispondere anzitutto al ruolo e al prestigio, più che di paese, di cittadina che Sorso aveva avuto nel medioevo, come capoluogo della Curatoria della Romangia, e corrispondere così, di conseguenza, all’alto concetto che di sé gli abitanti hanno sempre avuto.

Direi che nel passato, forse oggi un po’ meno, il prestigio derivava loro dal ruolo economico che svolgevano nel settore primario, quello agricolo. Un’attività che ora svolgono in misura, rispetto ad allora, assai ridotta. Non più frutta, non più ortaggi, non vino, non olio, che possano, come una volta, competere, dal punto di vista commerciale, con la produzione di altri paesi sardi, soprattutto del Campidano, che oggi risultano al passo con la produzione agricola moderna.

Non investono molto, nonostante la scolarizzazione di massa, o forse manca un pubblico adeguatamente consapevole, nemmeno in materia grigia, che costituiva, in altri tempi, una risorsa primaria sia nella cultura che nella politica. Neanche svolgono un ruolo adeguato ed appropriato nel turismo, per il quale hanno le risorse naturali ma non quelle culturali. Necessita, per questo settore, una cultura e una vocazione che non si addice all’orgoglio, alla superbia e, diciamo pure, alla megalomania dei Sorsensi.

Megalomania proverbiale, da ispanta carrela, di cui conviene ricordare almeno un esempio, neanche molto remoto. Durante la seconda guerra mondiale, anzi proprio alla fine, quando gli Alleati angloamericani erano sbarcati in Sardegna, tra le truppe di occupazione, che avevano stanza intorno a Sorso, vi erano alcuni giocatori della squadra nazionale di calcio inglese, che erano stati mandati nelle retrovie, proprio per salvaguardare alla nazione un patrimonio così prezioso. I giovani sorsensi di allora avevano una straordinaria passione per il calcio e, nel campo sportivo, che era stato ridotto dai militari ad una specie di campo trincerato, si allenavano con loro. Non fu difficile familiarizzare e venne organizzata con i giocatori inglesi una partita, come si dice oggi, amichevole. Per dare più risalto all’avvenimento, del tutto insolito, venn fatto stampare e affiggere a Sassari, a Portotorres, ad Alghero e dovunque fu possibile, un manifesto dove spiccava a grandi caratteri la dicitura: “Incontro di calcio Sorso-Gran Bretagna”. Un fatto e un gesto che è rimasto memorabile, certo in qualche misura veritiero, ma non al punto da contrapporre il Sorso alla Gran Bretagna. Ma di questa sostanza un po’ enfatica, certo “transfottente”, e un bel po’ megalomane, erano fatti gli abitanti che hanno in San Pantaleo il loro santo patrono!

Ebbene, la zimbònia di Santu Pantareu era, in qualche modo, il segno e il simbolo di tutto questo. Anche delle sbornie, grandi anch’esse come una zimbònia, le sbornie degli amici affezionati al vino, di quello buono, che oggi molti, troppi disdegnano preferendogli, fin dall’adolescenza, i prodotti dei narcotrafficanti. Dunque addio alle solenni sbornie, ai soliloqui o ai dialoghi degli ubriachi sotto i lampioni, alle loro epiche ebbrezze, di quelli chi faziani vinu bonu e davano alle feste ed alle lunghe notti estive una nota di allegria e di baldoria, e di quelli chi faziani vinu maru e che provocavano risse, scazzottature da film western, e sassaiole di triddie che rompevano il silenzio notturno delle strade deserte, suscitando un muidu, un sibilo, ad ogni rimbalzo, finché l’eco si spegneva lontano in fondo alla strada o con fragore contro un muro.

La festa del santo patrono veniva festeggiata solennemente, e quindi con grandi abbuffate che si consumavano al mare e che ogni anno si concludevano almeno con un morto i lu fossu di la Foza, per una sincope più che per annegamento. La sera, nella piazza di San Pantaleo, il pubblico assisteva alle gare che i poeti estemporanei, i cantadores, improvvisavano dal palco cantando in logudorese, a turno, le loro ottave che celebravano le virtù o i vizi corrispondenti, amati con eguale passione, gli uni e gli altri, dagli astanti.

Amati quanto le corse dei cavalli che Sorso allora allevava, a gara, e che costituivano un vanto, specie nel Logudoro e nell’Anglona. Come del resto i fantini, che allenavano i cavalli lungo i litorali della marina, irrobustendone i garretti nelle corse al galoppo sulla sabbia delle amenissime spiagge. Tutto questo sempre all’ombra della zimbònia.

Perciò dire la zimbònia era come dire Sorso, una figura metaforica di questa oltranza, di una megalomania che sapeva tuttavia a tratti fare conti con la realtà. Di questa capacità di adattamento a situazioni concrete si può raccontare, a proposito, un aneddoto rimasto memorabile, quello del vignatiere durante una delle guerre di successione spagnola.

I Francesi erano sbarcati dal mare e c’era, in corso, un aspro confronto a Marritza tra loro e gli Spagnoli, un vignateri, in chistu indunca, duvia allistrhì li fondi, e li dì passabani. Era antzianu, no abia più anchi boni pa divintzassi currendi. Ha ciamaddu lu figlioru:”mè figliò, eu sogu antzianu e no possu currì. Tu sei giobanu, sei lestrhu e hai anchi boni. Giompi tu a la vigna e datti cuidaddu pa allistrhì li fondi. Ma, attintzioni! Affaccu a mari sò isbarchaddi li Frantzesi e v’è un cumbattimentu tra eddi e l’Ipagnori. Li Frantzesi hani la dibisa ruja, l’Ispagnori la dibisa bianca. Si vedi chi ill’utturinu sò atzendi chiddi visthuddi di ruju, li Frantzesi, debi tzichirrià forthi: “Viva la Francia”. Si inveci vedi chi atzani chiddi vistuddi di biancu, l’Ipagnori, devi tzichirrià: “Viva la Spagna”… Attentu a no ibbaglià.

Il succo dell’aneddoto è tutto in quel “Attentu a no ibbaglià”, in quell’avvertimento a badare al sottilissimo discrimine che separa, in ogni rischio, il successo dall’insuccesso, la sfida o la scommessa nella quale si cimenta l’intelligenza o la saggezza, oppure, se volete, l’astuzia o il cinismo dei sorsensi. Machiavelli userebbe la parola “virtù”, in relazione con quella di “fortuna”, per indicare la capacità di realizzare un proprio intento mediante il corto circuito di una analisi rapida di una situazione scabrosa (“la fortuna”) per venirne a capo evitando di uscirne schiacciati.

Si potrebbe anche parlare di capacità di mettere d’accordo il principio del desiderio con quello di realtà, ma è cosa che non sempre riescono a fare, poiché spesso si abbandonano anche all’estro e alla fantasia. Si potrebbe invece teorizzare una loro impermeabilità alle lotte di potere, che passano sulla testa delle persone, e dalle quali preferiscono tirarsi fuori, sia per spirito d’indipendenza, sia per pragmatismo, portati come sono a privilegiare la onesta ed eroica lotta quotidiana per la sopravvivenza. O forse la privilegiavano allora, quando, radunati intorno alla cupola, alla zimbònia, avevano un senso fortissimo della comunità. Ed erano orgogliosi che, mentre nelle chiese romanico o gotico-catalane di altri paesi, svettavano quasi sempre un campanile isolato, in San Pantaleo, invece, affiancata al campanile, una cupola, voltata sopra un tamburo, come una enorme semisfera grigio-azzurra che si poteva riconoscere dalle lontananze dei luoghi circostanti.

Non mi sorprende perciò che Andrea Pilo si sia innamorato di questo simbolo e, da vero sorsense qual è, pieno di risorse e di ingegno, istrhavaganti che lu poipu, abbia voluto fare un monumento al suo paese, chiedendo a tanti pittori qualificati sardi e non sardi, che ha potuto incontrare, e giudicare di ingegno, una interpretazione della zimbònia.

Devo ammettere che questo simbolo così calato nell’immaginario popolare ha trovato, anche presso di loro, consensi e riscontri davvero interessanti. I pittori, si sa, come tutti gli artisti, per mestiere operano sull’immaginario e sui simboli e non hanno difficoltà a crearli o  reinterpretarli

Aveva cominciato un grande pittore sorsense, forse il massimo che abbiamo avuto, Pietro Antonio Manca, con una sua minuscola zimbònia che svapora azzurra nel cielo. Ma, Andrea ha voluto coinvolgere, a più riprese, mio fratello Ausonio, che dei sorsensi aveva assimilato virtù e difetti, in misura considerevole, e pochi hanno potuto eguagliare la sua capacità di mitizzare. È stato sempre desideroso di comunicare, di sedurre, di lasciare un segno di sé, della sua presenza, e ancora continua a parlarci, ad affascinarci coi suoi quadri, colle sue nature morte. le sue marine, le sue stazioni, i suoi pescatori. Continua insomma ad esercitare quella sua arte della seduzione, insomma, quella capacità di coinvolgere l’osservatore o il suo interlocutore, con l’energia persuasiva della fantasia. Quale si può percepire in queste sue interpretazioni della zimbònia che testimoniano una memoria appassionata di questo simbolo archetipico del suo paese di origine.

Con questa simbolica cupola si sono confrontati inoltre gli altri pittori, sardi e non sardi. Tutti ne hanno avvertito la magia e l’imponenza e sono riusciti a darne una rappresentazione, o mitica o favolosa, nel rilevarne lo slancio ascensionale, A quell’ansia, propria del monumento, di ricondurre verso l’alto lo sguardo dell’osservatore, di voler richiamare la comunità dei fedeli, quella interna alla chiesa, verso la simulata volta del cielo, e quella esterna verso quei nobili valori di cui la cupola era e resta il simbolo. Alcuni l’hanno vista sospesa al cielo con fili e tirata su da un coro di angeli, altri, come in una favola delle Mille e una notte, con una mezzaluna incombente che ne accentua il carattere orientale, quasi una moschea. Qualcuno l’ha circondata di nastri e di fiocchi che corrono, portati dal vento sulle strade dandogli l’aspetto festoso di un pacco natalizio. Qualcun altro è riuscito a conferirgli un alone quasi metafisico, o l’ha incendiata di rosso acceso, degno di Scipione, o l’ha evocata dalle nebbie dei ricordi. Ancora, qualcuno ne ha tracciato un disegno delicato e leggero smaterializzandone la possanza, oppure isolata e sospesa su un drappo di porpora ornandola con un ramo d’ulivo. C’è stato perfino chi, giustamente, l’ha interpretata come una nuova arca di Noè, consapevole che quei valori comunitari, che essa rappresenta e che hanno caratterizzato nel passato il paese, non possono andare dispersi, poiché costituiscono, come ci auguriamo davvero, la speranza di una continuità tra passato e futuro.

 

Di seguito la postfazione al volume di Gianfranco Sias

“La Zimbonia” e l’invito di Gianfranco Sias a recuperare un’identità che va perdendosi