Michele Mannarini e le sue passioni

di Piero Murineddu

Dell’ inquietudine di quell’esserino formatosi nel suo grembo per ben nove mesi, credo che mamma Elena si accorse già da quando, in quel lontano 10 maggio 1943, nell’affacciarsi al mondo il piccolo Michele emise il primo vagito, in realtà un fragorosissimo urlo di…battaglia. Principalmente per liberare le proprie vie respiratorie, si capisce, ma chissà, forse anche perchè il neonato, a cui i genitori Elena e Francesco diedero il nome di Michele, intuisse da subito che stava iniziando, per lui come per tutti noi venuti a questo mondo così complesso, un cammino fatto si di gioiose scoperte, ma anche d’ ingiustizie e disuguaglianze a non finire.

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Intanto per la sua città, Taranto, come per il resto dell’Italia, stava finalmente facendosi chiara la prospettiva di essere liberata dall’oppressione nazifascista, e forse allora, dopo aver constatato le indicibili mostruosità di cui solo gli umani son capaci, mai nessuno avrebbe pensato che il guerreggiarsi reciproco sarebbe continuato ancora negli anni a venire, e chissà per quanto.

Man mano che cresceva, l’ inquietudine di Michele si rafforzò allorché si rese conto che la condizione economica della famiglia, come per la maggior parte degli italiani che si erano lasciati alle spalle conseguenze negative d’ ogni genere provocate dal conflitto armato mondiale, gli permise solo di frequentare la scuola d’ avviamento e non il liceo come avrebbe preferito, e tra l’altro il giovane non si sentiva portato ai lavori manuali.

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A proposito delle condizioni economiche non proprio favorevoli di troppi e non solo per Francesco Mannarini e la sua famiglia, apro una parentesi, non so se breve ma che considero utile se non necessaria, considerando il diffuso disinteresse per i guai che riguardano altri.

Con la motivazione di creare posti di lavoro (!) nel meridione d’ Italia  – é di quegli anni il massiccio esodo verso il nord alla ricerca di condizioni migliori di vita – e per la presenza del porto, intorno al  ’60 i governanti del tempo, presidente della Repubblica Giuseppe Saragat, autorizzarono la nascita a Taranto dell’ ILVA, un immenso impianto siderurgico di oltre 15 km quadrati e che man mano é arrivato ad occupare un’ immensa porzione dell’ intero  territorio tarantino. Posti di lavoro ci sono stati e continuano ad esserci, ma nel contempo innumerevoli tarantini hanno perso la vita o continuano a patire gravi malattie causate dalle polveri inquinanti che si depositano ovunque. Qui si possono conoscere sia la storia e sia le vicende giudiziarie di questa fabbrica di “benessere” si fa per dire, mentre in questo programma della Rai il giornalista Domenico Iannacone, guidato dall’ ottimo Alessandro Marescotti, ci aggiorna sui continui danni, sopratutto alla salute, provocati da questa ingombrante presenza nella città portuale pugliese, a cui, assai colpevolmente, nessuno dei governi che si sono succeduti sono riusciti a trovare (o non hanno voluto?) una soluzione che salvaguardi il diritto alla salute delle persone che lì continuano a “vivere”.

Tornando a Michele, frequentare l’istituto alberghiero cittadino fu un compromesso per lui, che già al tempo amava scrivere componimenti che l’aiutavano a focalizzare i suoi sentimenti verso la vita.

Neanche ventenne, per decisione del capo istituto scolastico Michele si trovò per la prima volta a posare i suoi piedi in terra sarda, e precisamente ad Alghero. A seguito di un fugace incontro con una ragazza che evidentemente lo colpì non poco, volle prendere il treno per rivederla nel paese chiamato Sorso dove seppe che viveva e con la quale sino a oggi continua ad accompagnarsi.

Ottenuto intanto il diploma, Michele volle conoscere il settore alberghiero  d’Inghilterra. Una volta presa in moglie la bella ragazza di Sorso, volle ripetere l’esperienza inglese portandosi dietro l’intera famiglia.

Riuscito cammin facendo ad ottenere un contratto di maitre d’hotel in una struttura alberghiera che si affaccia sul golfo sardo dell’ Asinara, il ritorno in Sardegna fu definitivo.

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Di tutto questo e altro ancora Michele mi parlò anni fa quando gli chiesi di filmarlo e i cui racconti sono riportati nei due video che concludono questa pagina a lui dedicata.

Riprendendola dal suo profilo FB, riporto quanto il nostro amico scriveva qualche tempo fa a proposito della discriminazione scolastica che sopratutto negli anni passati subivano i figli delle “normali” famiglie italiane, probabile punta di un ben più grande iceberg visibile ancora oggi in tutti gli ámbiti della vita sociale

A seguire, una storia romanzata nata dalla fantasia dello stesso Michele, in cui mostra chiaramente la sua passione per la scrittura che dicevo prima.

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La scuola discriminante della mia giovinezza

di Michele Mannarini

Arrivato oggi ad una età avanzata, vorrei chiarire in che senso la scuola italiana, secondo me, almeno sino alla fine degli anni cinquanta, é stato un luogo in cui la discriminazione tra gli studenti era oltremodo e volutamente marcata.

Dopo le scuole elementari, esistevano due indirizzi scolastici distinti e separati, una per il normale popolino e l’ altra per chi poteva permetterselo. Per i più, quindi, la scuola media, seguita dalla scuola di avviamento professionale, agrario, commerciale e industriale.

Purtroppo, questo era un retaggio del periodo Fascista quando le discriminazioni erano del tutto normali, la più grave e odiosa fu la discriminazione razziale contro gli Ebrei.

In ambito scolastico le famiglie venivano invogliate dalla propaganda massiccia del regime a mandare alla scuola di avviamento i loro ragazzi. A causa del diffuso analfabetismo queste popolazioni mancavano di esperienza e conoscenza, per cui facilmente, oltre che passivamente, subivano questo condizionamento. In realtà sin dall’ infanzia si voleva creare una distinzione fra chi doveva far parte della classe operaia e chi sarebbe stata quella dirigente. Insomma, una scuola di seria A e una di serie B. Infatti, se proprio il ragazzo aveva voglia di continuare gli studi, si veniva a trovare in un vicolo cieco in cui non poteva scegliere il suo avvenire. Poteva diventare “perito” si, ma unicamente con mansioni manuali. Non vi era alternativa. Ci si arrendeva pur avendo altre tendenze e aspirazioni. Non era consentito accedere ad altri istituti tecnici come geometri o ragionieri, per non parlare poi dei licei, destinati alle famiglie più abbienti.

In questo modo si spezzavano le ali a tanti giovani con inclinazioni diverse da quello indirizzo intrapreso a 11 anni. A me per esempio, piaceva scrivere, leggere e raccontare, ma fui costretto a usare la lima più della penna con il dolore del mio cuore: una vera violenza discriminatoria.

Quando arrivai agli esami per conseguire la licenza, non so cosa pensarono i professori vedendo la mia pagella con 9 in Italiano scritto e orale 9, 9 in  storia e geografia, 8 in francese, seguiti da 3 in disegno tecnico , 4 in officina, 3 in  fisica e 4 matematica 4. Con questi voti fui rimandato a settembre,  considerato così dai miei famigliari come uno che non aveva voglia di studiare.

Trascorsi un po’ di anni, incominciai a riflettere, rendendomi conto che nemmeno qualche mia azione eclatante poteva sconvolgere gli animi di chi doveva vedere e capire perchè questo ragazzo si comportava in questo modo. Molte volte infatti, con rabbia e spregiudicatezza, prendevo i libri e dopo due ore di lettere andavo via. Nessuno mai si domandò il perchè di questa mia ribellione. Tutti, con inaudita indifferenza, si ostinavano a dire che non avevo voglia di studiare. Al contrario, io voglia ne avevo tantissima. infatti a Settembre, non volendo perdere l’anno, pur studiando a mala voglia quelle materie che odiavo fui promosso. Altro segnale che non fu colto da nessuno, considerando anche che al tempo non esistevano ancora gli assistenti sociali. Se non avessi avuto voglia di studiare, sarei stato bocciato, cosa che non avvenne. Il bello venne dopo quando dovetti decidere cosa fare. Pensai che continuando questi studi avrei trovato sempre più materie tecniche e meno letterarie, per cui decisi di abbandonare la scuola. Allora, incominciò il vero dramma, e col mio anche quello di tanti altri figli di famiglie con limitate possibilità economiche.

Il mio primo pensiero fu quello  di voler alleggerire il peso che portava mio padre che doveva dar da mangiare a quattro figli con le sue sole braccia. Un giorno vidi un manifesto con su scritto “Scuola alberghiera a regime convittuale”. Penai subito di aver trovato  la possibilità di  essere indipendente in poco tempo. Partiì da casa che avevo poco più di 16 anni.

Dopo quattordici anni di lavoro alberghiero sentii un prepotente bisogno di cambiare. Lo sfavillio di luci durante il servizio come  Maitre in banchetti e feste di ogni tipo,  invece di rendermi più contento e brillante, non facevano altro che incupirmi. Da qui la svolta. Impiantai una grande vigna e finalmente con passione e duro lavoro divenni un provetto viticoltore. Questa decisione contribuì certamente ad alleggerire le mie inquietudini. Produrre vino, col tempo mi assicurò anche una modesta sicurezza economica.

A 44 anni, quella scuola che avevo sempre sognato di fare non mi serviva più, ma ugualmente volli convincermi che veramente le mie ali furono bruciate nel momento più propizio e idoneo in cui un ragazzo vuole programmarsi il futuro. Ciò nonostante, il dedicarmi alla coltivazione della vite non bastò mai a cancellare definitivamente il rimpianto per qualcosa che non si é potuta realizzare.

Finalmente nel 1960 ci fu la riforma scolastica che bandiva per sempre l’avviamento professionale. Chiunque avrebbe potuto accedere dopo la scuola media inferiore ad ogni indirizzo superiore secondo le proprie tendenze.

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La preziosa eredità del defunto zio Giacomo Puggioni

di Michele Mannarini

Un giorno ricevetti una lettera dove per parte di un notaio venivo nominato erede insieme ad altri parenti sconosciuti dell’eredità del povero zio Giacomo. Ciò mi giunse in un momento in cui, assillato dai creditori e dalla lontananza del benedetto 27,mi chiedevo come avrei fatto a saldare i conti, ma sopratutto a nutrire il mio giovane stomaco.

Di zio Giacomo sapevo poco e nulla dal momento che mia madre –  pace all’anima sua – non aveva mai avuto un buon rapporto con suo fratello. Del resto anche nelle nostre vacanze in Sardegna, noi andavamo a risiedere nella grande casa della nonna materna. Il paese di residenza di questo burbero ed introverso zio era Sorso, zona di grandi è rinomati vini molto alcolici. La sua bellissima villa era situata sulla collina di “Tres Montes” attorniata da bellissimi vigneti. La lettera postuma mi sorprese enormemente ma non ci pensai due volte per andare a Sassari dal notaio Porqueddu nell’ora e nel giorno da essa indicata. La mia povera madre, insegnante di greco e latino in un prestigioso liceo romano, aveva vissuto per quasi tutta la sua vita a Roma. Anche mio padre, deceduto da lungo tempo, era stato un militare di carriera, raggiungendo il grado di colonnello.

Arrivato a Sassari che dista pochi chilometri da Sorso, fui ricevuto gentilmente dal notaio il quale m’invitò a seguirlo in una grande stanza dove una decina di parenti più o meno lontani, attendevano il verdetto del notaio. Tra gli altri, mi colpì una fanciulla di una ventina d’anni accompagnata da una imponente signora con baffi che risultò poi essere la cugina della mia povera madre e genitrice della signorina in questione. La signora Addis mi chiese subito come mi chiamavo. “Io sono Orazio“, risposi. A  questo punto la signora Addis dette chiari segni di riconoscermi subito, cosa che mi mise in grado di avvicinare senza sospetti quel delizioso fiore nato da lei per mistero ancora non svelato. Ero impegnatissimo nell’impresa di farmi notare dalla gentile cuginetta da troppo tempo perduta, quando il notaio cominciava a parlare mi riportò alla realtà della mia situazione di sconsolato discendente dell’ignoto zio. “Bene signori – disse il notaio,schiarendosi la voce – ora vi leggerò le ultime volontà del mio caro amico Giacomo Puggioni”.

Dopo aver fatto constatare che la busta era sigillata, l’apri e cominciò a leggere quella lettera per la quale tutti noi eravamo stati convocati dal povero zio. Egli annunziava che sarebbe stato erede delle sue sostanze, valutate nella somma approssimativa di 500 mila euro (detratte le tasse di successione e la villa destinata alla fedele governante Ida), chi di noi sarebbe stato in grado nei 3 giorni successivi alla lettura del testamento, vivendo in casa sua, di indovinare in cosa consistesse l’eredità.

Al termine della lettura si levò dai nostri petti disinteressati un grido di disapprovazione per la beffa di cui eravamo fatti segno, ma in considerazione che il povero defunto non avrebbe certo apprezzato che noi rinunciassimo ai beni di famiglia a favore dello stato, ci trattenne dal dare corso alla nostra indignazione andandocene via. In quel momento, prima che arrivasse il pulmino che ci avrebbe portato a destinazione, ebbi il tempo di riflettere sul fatto che veramente gli abitanti di Sorso, anche dopo la loro morte, lasciavano un segno se non di pazzia pura, senz’altro un modo alquanto bizzarro di vivere e morire.

In circa mezz’ora il pulmino ci condusse a destinazione. Questo breve tempo, mi fu sufficiente a stringere il legame che già mi imprigionava alla dolce fanciulla di cui ho parlato prima. Infine giungemmo nella villa sfarzosa che aveva visto l’ultimo respiro del mio ex zio. La signora Ida ci accolse gentilmente come si addiceva alla ormai proprietaria di immobili che presto sarebbe diventata; ci mostrò le nostre stanze, annunciando che aveva preparato una cena leggera in considerazione del fatto che il dolore non ci avrebbe consentito di avere molto appetito. Ci accordammo con lei e ci sedemmo a tavola, mentre due robuste ragazze si davano da fare per servirci.

Scoprii con grande piacere che, pur non avendo fatto le solite manovre la piccola Carla cosi si chiamava il Giglio che un lieto destino aveva posto sulla mia strada, sedeva accanto a me e mi rivolgeva, di quando in quando, degli sguardi adoranti, ignorando l’altro campione di sesso maschile presente nella compagnia. Il brodino e il passato di verdura non bastavano neppure a ingannare il mio stomaco, e mi sentii molto colpevole constatando che, malgrado il lutto, quando mi alzai da tavola morivo letteralmente di fame. Debolezza della carne! Mi risollevò un poco il fatto anche che gli altri, lungi dall’essersi sfamati, mentre sorbivano con stoica rassegnazione la camomilla preparata dalla solerte signora Ida, per lenire la loro agitazione, guardavano con desiderio libidinoso il cestino di pane abbandonato su un carrello e che fu portato via da un poco dignitoso arrembaggio collettivo.

“Il notaio ha spiegato tutto a lor signori?” chiese la fedele governante del mio ex zio. “Ci ha detto che dobbiamo scoprire in cosa consiste l’eredità“,  rispose un anziano signore che rispondeva alla qualifica di cugino del padre di zio Giacomo, cioè di mio Nonno. Ma non come, rendendo di pubblico dominio la perplessità che tormentava tutti noi. “Non dovete far nulla –  spiegò la buona Ida arricciando il labbro lievemente peloso in una smorfia che trovai carica di sottile ironia – “Dovete limitarvi a guardarvi intorno nei prossimi 3 giorni. Avrete la possibilità di scoprire, almeno 2 volte al giorno, qual’è l’oggetto delle vostre ricerche”. Il nostro centenario parente tirò un sospiro di sollievo: “Meno male –  esclamò con voce tremolante –  temevo che si dovessero compiere ricerche faticose ed io, in questo periodo, sono un po’ giù di corda”.

Di fronte a quella dichiarazione, che mi parve estremamente umoristica, ebbi il torto di sorridere apertamente, cosa che mi valse una sfuriata da parte dell’esimio signore. “Cosa c’è da ridere giovanotto? – mi rimbrottò aspramente – Dov’eri tu il giorno di Caporetto? Non mi pare di averti visto!” Giudicai superfluo accennare alla mia data di nascita che mi avrebbe scagionato da ogni colpa e mi limitai ad abbassare la testa in segno di resa. Dopo di che, andammo tutti a dormire, sognando favolosi tesori che ci erano stati promessi e con i quali ciascuno di noi si sentiva di rivoluzionare il mondo intero e la sua vita in particolare.

Già stavo per abbandonarmi nelle braccia di Morfeo quando un bussare discreto mi strappò dal dormi sveglia. Accendendo la luce, scossi sulla soglia la delicata creatura che nei miei pensieri conteneva il posto all’eredità, ricoperta solo da una graziosa camicia azzurra come i suoi occhi. “Muoio di fame –  si lamentò in modo che mi strinse il cuore – Mi accompagni a vedere se troviamo qualcosa da mettere sotto i denti?” Interiormente fui intenerito dalla prepotenza di quel vigore giovanile che si affermava al di sopra del dolore e del lutto. “Andiamo”, acconsentii balzando giù dal letto senza nessuna esitazione.

Sono ancora tormentato dal dubbio che quella notte non fu l’amore a spingermi verso quell’impresa, ma la fame. Anche se colei che ora è divenuta la direttrice della mia vita sostiene che questo particolare è poco importante. La presi per mano e la condussi attraverso le stanze buie e tetre della casa fino a raggiungere l’oggetto primo dei nostri pensieri, cioè una pagnotta croccante che, abbinata ad un salame impareggiabile, placò le ire del nostro stomaco. “Bisognerebbe, bere qualcosa – esclamai quando l’ultimo fremito di appetito si fu placato – Là c’è ancora un pò di quel vino splendido che abbiamo bevuto a tavola?”. La fanciulla scosse la testa: “Sono astemia, berrò solo un po’ d’acqua“.

Esistono molte persone astemie a questo mondo ma quella confessione fatta dalla mia Carla mi riempì di un sentimento di dolce stupore. In un mondo in cui, le ragazze si fanno sempre più audaci e privi di scrupoli, quella dolce creatura era astemia! Fui preso dall’insano desiderio di stringerla a me e di baciare le sue dolci labbra. Mi precedete, schioccandomi un bacio sulla guancia e divenendo più rossa della brace: “Se mi guardi cosi, finisce che m’innamoro di te”. “Io già lo sono”,  confessai dimenticando definitivamente lo scopo della mia permanenza in quel luogo.

Da quel momento, la notte mi sembrò troppo corta per dire tutto quello che per anni avevo desiderato dire a qualcuno senza averlo potuto fare. Eravamo immersi già da tempo in una conversazione, quando il delicato porto della mia esistenza mi riportò bruscamente alla realtà della situazione. “E se ci guardassimo un po’ intorno per vedere se scopriamo qualcosa?”  “Qualcosa che?” – chiesi ancora sotto l’influsso sconvolgente del suo sguardo –  “L’eredità, naturalmente”, rispose lei come quella fosse l’unica che contava. Mi scossi dal lago di lirismo in cui nuotavo e captai immediatamente il succo del discorso. Scioccamente ne rimasi un pò offeso: quando una donna e con me non dovrebbe anteporre al piacere della mia presenza 500 mila miserabili euro (non glielo dissi!). “Va bene” –  esclamai – ma da dove incominciamo?”  “Per prima cosa vediamo se c’è un sotterraneo, una cantina o qualcosa di simile – propose lei dimostrandomi ulteriormente di aver già meditato il problema – In genere i tesori sono sempre nei sotterranei“, aggiunse dando sfoggio di una logica non comune.

Ci mettemmo così alla ricerca e trovammo subito una porta, mezza celata da un attaccapanni, che dalla cucina conduceva in una enorme cantina. Ci addentrammo tra file e file di botti, botticelle e bottiglie tenendoci strettamente per mano e gustando l’odore acre del vino mescolato a quello del legno stagionato. “La signora Ida si potrà ubriacare a volontà – dissi attirando a me la fanciulla –  Da dove cominciamo a cercare?” –  chiesi cercando a testoni una luce sulla parete. “Da nessuna parte – mi rispose quella capricciosa esponente del sesso femminile – Mi è venuto sonno è vorrei andare a dormire. E poi –  aggiunse lusingandomi nel mio orgoglio maschile – cosa me ne importa dell’eredità ora che ti ho trovato?“. Non ebbi nulla da obbiettare e, tenendola sotto braccio, la ricondussi sulla soglia della sua camera, ebbro di felicità. Il caro vecchio zio Giacomo, se avesse saputo di avermi lasciato qualcosa di ben più grande di poche centinaia di migliaia di euro forse, ne sarebbe stato felice.

Il mattino seguente assistetti alle frenetiche ricerche di nove pazzi che esaminavano porcellane dei grandi magazzini, cercavano inesistenti casseforti dietro i quadri, esaminavano centimetro per centimetro tavoli,poltrone,divani,ecc. E al delizioso flirt fatto di sguardi e di furtive carezze di altri due, cioè di Carla ed Orazio, i quali incuranti dei bassi interessi della folla che li circondava, si cercavano, si spiavano, si sorridevano, consapevoli di essere gli unici due ad aver capito qualcosa della vita. La signora Ida osservava quella bolgia con un sorriso che mi piaceva sempre di meno. Si preoccupava solo di farci avere pranzi e cene eccellenti, finalmente convinta che i dolore non aveva chiuso i nostri stomaci. Man mano che le ore passavano e i giorni incedevano e il mio amore si rinsaldava sempre di più, sui volti dei nostri poveri congiunti cominciò a comparire la costernazione, la rabbia, la delusione. Solo Carla nella sua ingenuità non era contaminata dall’atmosfera satura che ci circondava, e non c’era verso di farla pensare alla fantomatica eredità, alla quale a mio avviso, avremmo potuto dedicare almeno un’ora al giorno. “Non ti basta il mio amore?”, chiedeva disarmandomi e il discorso finiva li.

Giunse al fine la fatidica sera in cui il notaio consapevole della nostra sconfitta venne a chiederci il responso. “Allora, signori miei –  chiese in tono sarcastico – qualcuno di voi sa dare la risposta al quesito posto dal povero signor Giacomo?”.  La luce del camino, riflettendosi sui nostri volti, accentuava il pallore da cui tutti eravamo stati subitamente colpiti. Anch’io, immaginando la faccia del mio collega Oliva nell’apprendere che avrebbe dovuto ancora sopportarmi come debitore, mi sentivo vicino ad un collasso nervoso. “Mi sembra di capire –  rispose l’esecutore delle volontà di quel pazzo “sussinco” che rispondeva al nome Giacomo Puggioni – che nessuno di voi ha avuto successo”. Una voce si alzò: “Desidera, signorina?” La mia dolce compagna, timidamente, aveva osato rompere il cerchio del silenzio con una risatina saputa che stonò violentemente alle mie orecchie. “L’eredità dello zio Giacomo consiste in una grande quantità di vini pregiati custoditi sotto questa casa e che tutti i presenti hanno potuto gustare a tavola due volte al giorno ed ammirare in cantina, nelle botti, a più riprese” Lo zio aggiunse con tono di sfida,nel suo disprezzo per i parenti che giudicava inetti e privi di fantasia.

Evidentemente aveva però sottovalutato le capacità dei più giovani: “Il signor Orazio ed io abbiamo scoperto la verità fin dalla prima sera“. Questa dichiarazione mi trovò impreparato alla mia indignazione, per il fatto di essere stato raggirato da colei che credevo priva di preoccupazione materiali. Subentrò lo shock determinato dalla consapevolezza che facendo quella falsa dichiarazione la fanciulla si apprestava a dividere con me, la cospicua somma di 500 mila euro. Il che voleva dire che mi amava sul serio. Mentre tutti gli sguardi si appuntavano sul notaio per avere una conferma, mi alzai di scatto e, incurante degli sguardi acidi della futura suocera, le cinsi la vita con un braccio e la sospinsi delicatamente fuori dalla stanza: “Prima di dire al notaio che mi hai mentito, voglio dirti che ti amo” le confessai ancora, deciso a non tollerare che si sacrificasse per me. Ma la fanciulla mi fece segno di tacere: “Se tu te ne lavi le mani, chi mi aiuterà a vendere il vino e lavorare le vigne?“.  Lui, zio Giacomo, ci conosceva bene e sapeva che il suo indovinello poteva essere risolto solo da persone capaci di seguitare la sua opera e di apprezzarla. “E poi – concluse convincendomi definitivamente- tu non l’hai scoperto solo perchè io ti ho distratto….! Mi ami?” Si, l’amavo. E quando oggi, dopo le fatiche dell’ultima vendemmia, scendendo in cantina con lei, a godermi l’odore del mosto vedendo anche tutto ciò che abbiamo realizzato insieme in tutti questi anni, non ho nessun rimpianto. I famosi 500 mila euro non li ho mai visti, ma quando il sole bacia le nostre vigne, sento che nessuno riuscirà mai a strapparmi da questa terra benedetta. Mi resta solamente un dubbio: come ha fatto proprio lei che era astemia, a capire la verità?

zzzzzzz

Michele Mannarini e le sue passioniultima modifica: 2022-05-10T05:52:34+02:00da piero-murineddu
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Commento (1)

  1. Mariangela Boscolo Boscoletto

    Molto bella, scritta in maniera scorrevole.

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