Sull’acquisire Consapevolezza della vita, in Arturo Paoli e in ciascuno di noi

A sei anni dal suo Passaggio alla Gioia Senza fine, tra le tante possibilitá, ho scelto di proporre questo testo nato dal pensiero di Arturo, pubblicato nell’ottobre del 2006.

Come sempre é stato, gli scritti di questo Grande Uomo offrono vari  spunti di riflessione, segno che nella sua lunga vita aveva ben sondato quei profondi aspetti che continuano e continueranno ad avvolgere in un alone di Sacro Mistero l’immensitá dell’Esistenza umana.

Specialmente in etá avanzata, Arturo amava passeggiarsela molto lentamente col bastone tenuto dietro il collo con entrambi le mani. Pensando a lui, a volte uso farlo anch’io, e veramente ne scopro i benefici non solamente e non sopratutto fisici. É come se si procedesse entrando nel Ritmo Naturale del tempo, in quella Lentezza che, fermandoti per esempio ad osservare il lavorìo al contrario frenetico delle formiche che senza pausa sono impegnate a riempire i magazzini della loro sussistenza, agevola la Consapevolezza di sè. Facendolo poi, quando possibile, a piedi nudi,  l’unitá col Tutto é ancora maggiore. Provare per credere.

Credo che per mettere pace nel cuore non basta perdonare come spesso viene consigliato. Bisogna elaborare, chiarire, sciogliere il nodo”. 

É uno dei passaggi che si trovano qui sotto, e se siamo realisti, é difficile dare torto alla indiscutibile saggezza di Arturo. Sappiamo che nelle relazioni interpersonali, questo non sempre é attuabile, per cui si ha l’impressione di non essere completamente pacificati. E allora?

Beh, intanto leggiamo quanto ci dice il nostro Amico, frutto si di elaborazione mentale, ma ancor prima di esperienza vissuta….

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Io sono pace? Il difficile cammino per abbattere muri

di Arturo Paoli

Essere pace è la condizione necessaria per essere costruttori di pace. Tutti i trattati, le convocazioni per parlare della pace, tutte le iniziative falliscono o perché non arrivano ad essere efficaci nella realtà o perché i loro protagonisti non sono esseri pacificati.

Io credo che questa sia la spiegazione per cui la pace resta generalmente un desiderio.

Confesso che mi faccio spesso la domanda:

io sono pace?

Sono tra quelli che hanno raggiunto l’identità del discepolo e diffondono la pace con la sola presenza?

Entrano in una casa, si presentano a un convegno di amici, e in tutte le occasioni portano pace?

Premetto che a mettere guerra nel nostro cuore sono i desideri e le relazioni. La società attuale non è pacifica, è in stato di guerra perché il suo metodo di suscitare i desideri per vendere e consumare è un metodo violento. Mette in agitazione i cuori e non permette loro di riposare in se stessi finché non posseggono l’oggetto desiderato che potrebbe anche essere una persona. L’oggetto una volta ottenuto non è pacificatore perché porta in sé il vuoto dell’altro generando scontento e delusione.

D’altra parte come è possibile non accogliere quei desideri se l’uomo è essenzialmente desiderio e relazione? E’ possibile seguendo il metodo francescano che è quello di trasformare le relazioni con le cose da relazione concupiscente (voglio possedere, devo possedere l’oggetto del desiderio) in relazione contemplativa (mi fermo a contemplare la bellezza, la perfezione, l’armonia dell’oggetto del desiderio). La prima trasmette tristezza e noia, la seconda gioia e libertà. Ma questo vuol dire essere poveri e santi. Francesco segue povero e scalzo Gesù che ha scoperto sulla strada povero e scalzo. E parlando delle relazioni umane è impossibile che non mettano guerra nel nostro cuore, a cominciare da quelle nella famiglia. Tutte le persone in qualche momento si sono credute vittime di ingiustizie e spesso non è un’esagerazione della fantasia, ma invece di elaborare questa convinzione ricorrono ad “attacchi psicologici come la maldicenza e l’ostracismo sociale e lo spostamento che consiste nello sfogare la propria rabbia su una persona diversa da quella che l’ha provocata che non si ha il coraggio di affrontare”

Credo che per mettere pace nel cuore non basta perdonare come spesso viene consigliato. Bisogna elaborare, chiarire, sciogliere il nodo. Nessuno dimentica un torto ricevuto specialmente quando questo ha avuto un rilievo importante nella piccola storia della nostra vita. Bisogna che questi torti da memorie avvelenate diventino carezzevoli, liete come il ricordo di una passeggiata sulle montagne con una compagna di scuola che vi affascinava. Ma possono diventare liete le memorie di fatti tanto duri che hanno sconvolto la nostra vita e messa su un’altra rotta? Prima di tutto avendo chiaro che noi non siamo e non saremo mai vittime innocenti, qualunque sia il torto ricevuto. Pensiamo a fondo alla storia di Gesù che è il modello più trasparente della vittima. Pensiamo alle sue continue provocazioni di violare la legge, lavorare di sabato, anche se il lavoro era dare la vita, mettersi a tavola con i peccatori e gli stranieri, offendere la sacralità del tempio con invettive e violenza contro quelli che avevano messo banchetti e tendaggi nella zona permessa loro. La reazione dei sacerdoti non poteva che essere la condanna a morte perché questo agire non rappresentava altro che empietà, un rifiuto di obbedire alla legge così come suona. Per questo nel racconto dell’esecuzione del Figlio dell’uomo si fa ricordo di una morte volontariamente accettata. I veri martiri non cadono in un tranello, sanno fin da principio di entrare in un cammino pericoloso, vogliono abbattere un muro, aprire un varco, interrompere la continuità dell’universo, prevedono di non ricevere offerte floreali, ammirazione e gratitudine. E i persecutori non sono assetati di sangue ma fedeli servitori di ciò che credono essere la verità e addirittura si sentono i salvatori del popolo. Si tratta qui di fatti grandiosi ed eroici; ma in tutti i casi solo sciogliendo il nodo la pace entra nell’intimo della persona e fuga l’amarezza nascosta nelle piaghe più remote del cuore.

Appare sempre più evidente il bisogno dell’uomo di essere toccato, ferito dall’altro che soffre o che esige da lui di essere guardato e capito in tutte le sue esigenze vere. Questa corsa alla guerra attraverso le armi e l’economia può essere arrestata solamente se si fermano quelli che sono travolti nella corsa, e si aiutano a recuperare quella capacità essenziale che è stata lasciata sui bordi della strada per entrare nella corsa folle. Bisogna che precedano in questo recupero quelli che sono abituati a pensare e a scrivere senza il fine di servire il sistema. Bisogna che vincano un certo pudore molto diffuso tra gli intellettuali dell’occidente: che non si vergognino di essere umani e capaci di ascoltare quei racconti troppo terreni di coloro che hanno lo stomaco vuoto, che non hanno lavoro e si sentono più numeri che persone. Che non si vergognino ad ascoltare la donna diventata unicamente oggetto erotico, quando un piccolo barlume di luce la sveglia dal sonno e pensa che oltre alla possibilità di diventare una ‘executive’ (cioè da oggetto scartabile oggetto di lusso) ha la possibilità di diventare costruttrice di amore, capace di mettere nel mondo dinamiche di amore senza il quale la pace resta un’utopia sempre più lontana.

“La morte é un episodio della vita, e l’ episodio più bello”

É quanto dice Arturo nell’ audio che segue. Un  concetto per noi sempre così difficile da capire e specialmente da accettare (Piero)

Molto interessante l’ intervista che segue, realizzata poco tempo prima che ad Arturo fosse stato concesso di immergersi definitivamente nel Mistero.

Oltre spiegare le motivazioni che ha spinto certi, compreso lui stesso, ad aderire alla cosiddetta Telogia della Liberazione, da sempre guardata con sospetto, nonostante il Maestro abbia dato chiaramente l’indicazione di cercare ( leggi Costruire) il Regno di Dio e la sua Giustizia, Arturo riporta una preghiera suggeritagli  allora da Montini: “concedimi di NON diventare vescovo”. Perché? Non hai che da ascoltare il saggio Arturo.

Suggerisco inoltre di ascoltare con attenzione quanto viene risposto alla domanda sulla negazione della comunione sacramentale ai divorziati. Qui le parole del vecchio Arturo mi hanno provocato molta, molta tenerezza. Perché? Anche qui, ascolta e vedi tu la tua reazione….

La vita

Arturo Paoli nasce a Lucca in via Santa Lucia il 30 novembre 1912, si laurea in Lettere a Pisa nel 1936, entra in seminario l’anno successivo e viene ordinato sacerdote nel giugno 1940.

Partecipa tra il 1943 e il 1944 alla Resistenza e svolge la sua missione sacerdotale a Lucca fino al 1949, quando viene chiamato a Roma come vice assistente della Gioventù di Azione Cattolica, su richiesta di Mons. Montini, poi papa Paolo VI. Qui si scontra con i metodi e l’ideologia di Luigi Gedda, presidente generale dell’Azione Cattolica e all’inizio del 1954 riceve l’ordine di lasciare Roma per imbarcarsi come cappellano sulla nave argentina “Corrientes”, destinata al trasporto degli emigranti.

Arturo compie solo due viaggi. Sulla nave incontra un Piccolo fratello della Fraternità di Lima, Jean Saphores, che Arturo assisterà in punto di morte. A seguito di questo incontro decide di entrare nella congregazione religiosa ispirata a Charles de Foucauld e vive il periodo di noviziato a El Abiodh, al limite del deserto, in Algeria. Poi passa ad Orano dove, negli anni della lotta di liberazione algerina, svolge mansioni di magazziniere in un deposito del porto. Nel 1957 viene incaricato di fondare una nuova Fraternità a Bindua, zona mineraria della Sardegna, dove lavora manualmente: ma il suo rientro in Italia non viene ben visto dalle autorità vaticane.

Decide allora di trasferirsi stabilmente in America Latina e si trasferisce in Argentina a Fortin Olmos, tra i boscaioli – hacheros – che lavorano per una compagnia inglese del legname. Sarà questo uno dei periodi più duri dell’esperienza latino-americana. Quando la compagnia decide di abbandonare la zona ormai impoverita del prezioso legno quebracho, Arturo organizza una cooperativa per permettere ai boscaioli di continuare a vivere sul posto.

Nel 1969 viene scelto come superiore regionale della comunità latinoamericana dei Piccoli Fratelli, trasferendosi vicino a Buenos Aires. Qui vivono i novizi della fraternità e si comincia a delineare una teologia comprometida, preludio dell’adesione alla teologia della Liberazione. In questo periodo pubblica il suo secondo libro, “Dialogo della liberazione”.

Nel 1971 nasce un nuovo noviziato a Suriyaco, nella diocesi di La Rioja, una zona semidesertica, poverissima, dove Arturo si trasferisce e incontra un vescovo a cui sarà legato da una forte amicizia, Enrique Angelelli, la voce più profetica della Chiesa argentina nei trementi anni della dittatura militare: un prelato che doveva morire tragicamente nel 1976 in uno strano incidente stradale che oggi nessuno dubita di qualificare come assassinio e su cui nessuno svolgerà inchieste, malgrado l’espressa richiesta di Paolo VI.

Con il ritorno di Peron in Argentina il clima politico si fa pesante e Arturo viene accusato di esercitare un traffico d’armi con il Cile. In quel momento in Cile governava Allende, destituito nell’apocalittica giornata dell’11 settembre 1973 dal colpo di stato di Pinochet. Nel 1974 appare sui muri di Santiago un manifesto con una lista di persone da eliminare da parte di “chiunque le incontri”: il nome di Arturo è al secondo posto. Alcuni Piccoli fratelli vengono incarcerati e cinque di loro figureranno tra le migliaia di desaparecidos. Arturo in questo momento si trova in Venezuela, come responsabile dell’area latinoamericana dell’Ordine: avvertito da amici di non rientrare in Argentina perché ricercato, vi tornerà solo nel 1985.

Inizia così l’esperienza venezuelana, prima a Monte Carmelo, poi alla periferia di Caracas, continuando, anzi intensificando, la sua produzione libraria: “Il presente non basta a nessuno”, “Il grido della terra” e tanti, tanti altri…

Con l’allentarsi della dittatura militare, Arturo intensifica le sue missioni in Brasile, risiedendo dal 1983 a Sao Leopoldo ed entrando in contatto con la realtà delle prostitute, numerose nel suo quartiere.

Nel 1987 si trasferisce su richiesta del vescovo locale a Foz do Iguaçu: qui va a vivere nel barrio di Boa Esperança dove costituisce una comunità. Ma, ricorda fratel Arturo, “la condizione di estrema povertà della gente del quartiere mi tormentava e da questa angoscia nacque l’idea di creare l’Associazione Fraternità e Alleanza”, un ente filantropico, senza fini di lucro, con progetti sociali rivolti al bene della comunità.

Sono seguiti 13 anni di duro e intenso lavoro per dare dignità a questa popolazione emarginata. Oggi AFA è una bella realtà, cui si è aggiunta nel 2000 la Fondazione Charles de Foucauld rivolta in maniera specifica ai giovani del proletariato e del sottoproletariato di Boa Esperança. Insieme i due enti portano avanti numerosi mini-progetti che coinvolgono direttamente oltre 2000 persone fra adulti, adolescenti e bambini: ludoteca, ambulatorio, doposcuola (raggruppati nel progetto denominato “bambini denutriti”), casa della donna, mensa, corale, corsi di musica, di informatica, attività sportive… Progetti mirati alla formazione umana e resi possibili dall’aiuto di tanti, tanti amici italiani che li finanziano nella loro quasi totalità.

Arturo dal 2004 con don Mario De Maio, presidente di Oreundici, ha lanciato il progetto “Madre Terra”: una fattoria didattica (dell’estensione di circa 40 ettari), sempre nella periferia di Foz do Iguaçu, dove alcuni giovani (provenienti dalle case-famiglia già seguite e finanziate da “Oreundici”), hanno trovato un posto di lavoro, una “famiglia allargata”, lo spazio e la possibilità per crescere e confrontarsi anche con i tanti amici italiani che seguono questo progetto e curano l’amicizia tra questi due popoli, sotto lo sguardo amirevole e paterno di Arturo. Oggi il progetto “Madre Terra” permette di accrescere questa amicizia, con il vivificante e salutare contatto con la bellezza aspra e affascinante della natura brasiliana.

Lontano ma presente, l’impegno religioso e sociale nel sud del mondo non ha impedito a fratel Arturo di vivere appassionatamente gli avvenimenti italiani e lucchesi. Nell’agosto 1995 interviene su “La Repubblica” dopo aver letto la corrispondenza fra Eugenio Scalfari, allora direttore del giornale, e lo scrittore Pietro Citati. A Scalfari scrive una lettera che viene pubblicata con il titolo “Fede ed Utopia del Regno di Dio”: “Mi ha colpito il suo mettere in evidenza il mercato come elevato a divinità, perché da anni denunzio l’idolatria del mercato. Ciò mi è stato spesso rinfacciato come prova di ignoranza delle dottrine economiche. Sono cosciente della mia ignoranza, ma guardando l’idolatria del mercato nella prospettiva del Regno non vedo altro che milioni di persone stritolate sotto le ruote del mercato. Questa visione per me è quotidiana quando, all’alba, apro la porta della mia casa e trovo subito nei vicoli della favela le persone che gemono sotto le ruote del mercato, e sono la mia famiglia…”

A Lucca nel 1995 il sindaco Giulio Lazzaroni gli consegna il Diploma di partigiano. In quell’occasione fratel Arturo pronuncia queste parole: “… la Resistenza non si è chiusa nell’ambito del 1945 e se noi non soffriamo fortemente di appartenere ad una famiglia che fabbrica le armi, che manda le mine che straziano i corpi dei bambini, se noi non pensiamo che il nostro benessere lo pagano milioni di affamati, se noi non pensiamo che mandiamo bastimenti carichi di armi nell’Africa, nella vicina Jugoslavia, ecc… e se noi non soffriamo nella nostra carne per questo scandalo vuol dire che la Resistenza è stata un’azione valorosa, generosa o forse anche una manifestazione di coraggio, ma non è stato qualcosa che ha aderito profondamente alla nostra anima, che è diventata legge della nostra vita… e perché questa celebrazione non sia retorica…  forse oggi più di ieri c’è bisogno di resistere”.

Questo atteggiamento lo spinge a rifiutare la medaglia d’oro che annualmente la Camera di Commercio assegna ai lucchesi che hanno onorato la città nel mondo. La lettera pubblicata suscitò non poche polemiche:
“Conosco personalmente alcuni di voi per non dubitare della vostra nobilissima intenzione, ma pemettetemi di rifiutare un premio come missionario cattolico. A parte il fatto di sapere che il solo suggello che posso mettere sui quarant’anni di vita in America Latina è quello suggeritomi dal Vangelo “sono un servo inutile”, mi tormenta un’altra considerazione. Appartengo per nascita e formazione all’occidente che globalmente si dice cristiano, dalle Montagne Rocciose agli Urali, ed è incontestabile che questo mondo cristiano che si definisce Primo Mondo è al centro delle ingiustizie che sono la causa della fame di milioni di esseri che il catechismo ci ha insegnato a chiamare fratello: io torno in Brasile e non posso tornarvi ostentando sul petto una medaglia che premia la mia attività di ‘missionario’, rappresentante di una civiltà cristiana che spoglia della terra esseri umani che vi vivono da secoli prima di Cristo. E questa spoliazione dura dal 1492″.

Il 29 novembre 1999 a Brasilia, l’ambasciatore d’Israele gli consegna il più alto riconoscimento attribuito a cittadini non ebrei: ‘Giusto tra le nazioni’, per aver salvato nel 1944 a Lucca la vita di Zvi Yacov Gerstel, allora giovane ebreo tedesco, oggi tra i più noti studiosi del Talmud, e sua moglie. Il nome di fratel Arturo, “salvatore non solo della vita di una persona, ma anche della dignità dell’umanità intera”, sarà inciso nel Muro d’Onore dei Giusti a Yad Vashem.

Il 9 febbraio 2000 a Firenze la Regione Toscana, su iniziativa del suo Presidente Vannino Chiti, alla presenza del Cardinale di Firenze Silvano Piovanelli e del rabbino di Firenze Yoseph Levi, festeggia il sessantesimo anniversario di fratel Arturo. In questa circostanza fratel Arturo dirà:
“Tutta la nostra cultura è una cultura di morte, l’occidente cristiano è il centro che ha organizzato la guerra, la carestia, l’accumulazione delle ricchezze nelle mani di pochi”.

Il cardinale Piovanelli, dopo aver ricordato che Paoli è stato un punto di riferimento importante nella sua formazione religiosa, sottolineerà: “Siamo sempre rimasti colpiti dalle sue parole, dai suoi libri, ma soprattutto abbiamo ammirato il coraggio di una vita compromessa per stare dalla parte dei più deboli”.

Il 25 aprile 2006, l’allora Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi gli ha conferito la Medaglia d’oro al valor civile. L’alto riconoscimento, andato ad Arturo e ad altri tre sacerdoti lucchesi (don Renzo Tambellini, e gli scomparsi don Guido Staderini e don Sirio Niccolai), è riferito all’impegno profuso nel salvare la vita ai perseguitati dai nazifascisti, in particolare ebrei, con la seguente motivazione:
«Nel corso dell’ultimo conflitto mondiale, con encomiabile spirito cristiano e preclara virtù civica, collaborò alla costruzione di una struttura clandestina, che diede ospitalità ed assistenza ai perseguitati politici e a quanti sfuggirono ai rastrellamenti nazifascisti dell’alta Toscana, riuscendo a salvare circa 800 cittadini ebrei. Mirabile esempio di grande spirito di sacrificio e di umana solidarietà»

Arturo torna stabilmente in Italia dal 2006 e risiede nella Casa “Beato Charles de Foucauld” a san Martino in Vignale, sulle colline di Lucca, dove accoglie le persone in un clima di amicizia, fraternità ed accoglienza, partecipando comunque a convegni e incontri, pubblicando nuovi libri, continuando la consueta collaborazione con giornali e periodici, tra i quali i Quaderni mensili di Oreundici.

Il 3 dicembre 2011 è stato inaugurato il “fondo documentazione Arturo Paoli”, una raccolta di immagini, video, scritti a testimonianze della sua vita. Il fondo ha sede nella Fondazione Banca del Monte di Lucca in piazza San Martino a Lucca è aperto al pubblico su prenotazione

(info nella pagina http://www.fondazionebmlucca.it/attivita/propri/fap/fondopaoli.html).

Arturo Paoli ci ha lasciati il 13 luglio 2015. Il suo corpo è stato seppellito presso il cimitero annesso alla Chiesa di San Martino in Vignale a Lucca.

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Sull’acquisire Consapevolezza della vita, in Arturo Paoli e in ciascuno di noiultima modifica: 2021-07-13T04:25:33+02:00da piero-murineddu
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