Il ” Caro Faber” di don Andrea e quell’ultima agenda

Don Andrea Gallo e gli ospiti della Comunità  “San Benedetto al Porto” di Genova 

Caro Faber,

da tanti anni canto con te, per dare voce agli ultimi, ai vinti, ai fragili, ai perdenti. Canto con te e con tanti ragazzi in Comunità.

Quanti «Geordie» o «Michè», «Marinella» o «Bocca di Rosa» vivono accanto a me, nella mia città di mare che è anche la tua.

Anch’io ogni giorno, come prete, «verso il vino e spezzo il pane per chi ha sete e fame». Tu, Faber, mi hai insegnato a distribuirlo, non solo tra le mura del Tempio, ma per le strade, nei vicoli più oscuri, nell’esclusione.

E ho scoperto con te, camminando in via del Campo, che «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior».

La tua morte ci ha migliorati, Faber, come sa fare l’intelligenza.

Abbiamo riscoperto tutta la tua «antologia dell’amore», una profonda inquietudine dello spirito che coincide con l’aspirazione alla libertà.
E soprattutto, il tuo ricordo, le tue canzoni, ci stimolano ad andare avanti.

Caro Faber, tu non ci sei più ma restano gli emarginati, i pregiudizi, i diversi, restano l’ignoranza, l’arroganza del potere, l’indifferenza.

Nel 1971, mentre ascoltavamo il tuo album, Tutti morimmo a stento, nella Comunità ” San Benedetto” bussavano tanti personaggi derelitti e abbandonati: impiccati, migranti, tossicomani, suicidi, adolescenti traviate, bimbi impazziti per l’esplosione atomica.

Il tuo album ci lasciò una traccia indelebile. In quel tuo racconto crudo e dolente (che era ed è la nostra vita quotidiana) abbiamo intravisto una tenue parola di speranza, perché, come dicevi nella canzone, alla solitudine può seguire l’amore, come a ogni inverno segue la primavera ..

«Ma tu che vai, ma tu rimani, anche la neve morirà domani, l’amore ancora ci passerà vicino nella stagione del biancospino…».

È vero, Faber, di loro, degli esclusi, dei loro «occhi troppo belli», la mia Comunità si sente parte. Loro sanno essere i nostri occhi belli.

Caro Faber, grazie!

 

Ti abbiamo lasciato cantando Storia di un impiegato, Canzone di Maggio. Ci sembrano troppo attuali. Ti sentiamo oggi così vicino, così stretto a noi.

Grazie

“E se credete ora che tutto sia come prima perché avete votato ancora la sicurezza, la disciplina, convinti di allontanare la paura di cambiare verremo ancora alle vostre porte

e grideremo ancora più forte per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti, per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti.”

Caro Faber, parli all’uomo, amando l’uomo. Stringi la mano al cuore e svegli il dubbio che Dio esista.

Grazie

 

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Quell’ ultima agenda e la mole di volumi consultati per scrivere un brano di pochi minuti

di Marco Ansaldo
( La Repubblica, 4 Dicembre, 2015)

Un’agenda di colore marrone. La pelle consunta, gli angoli arrotondati dall’uso. Si nota subito, infilata in un fascicolo preso da un ripiano in basso di questi scaffali colmi di nastri, di dischi, ma soprattutto di libri. I libri personali di Fabrizio De André. Sulla copertina è scritto: Agenda Casa 1997 della Banca popolare di Novara. La apro. È stata scritta, in realtà, l’anno successivo. Le date, cancellate e ricorrette, rimandano infatti tutte al 1998, a partire da settembre. Il mese successivo a quando Faber si era sentito male interrompendo il tour estivo. Sono i mesi finali della sua vita. E il documento che ho in mano è l’ultimo diario che il grande cantautore genovese ha adoperato e portato con sé prima di morire.

Siena, Facoltà di Lettere dell’Università, Centro interdipartimentale di studi Fabrizio De André. Un archivio che custodisce un tesoro, perché qui confluisce – con periodici nuovi arrivi – tutto il materiale dell’artista scomparso l’11 gennaio 1999. E poi l’agenda. Ci sono fogli sparsi, minute di lettere scritte da Dori Ghezzi, sua moglie, dopo la morte di Fabrizio. La prima pagina si apre con il nome e i riferimenti di uno pneumologo. Dietro, la simbolica fotografia di tre uomini che tirano a forza una corda, con molta fatica. Poi conti, appunti, recapiti telefonici. E ancora: disegni, annotazioni di carattere gastronomico e agricolo. Le sue passioni. Quindi citazioni di sue nuove composizioni, alle quali Fabrizio stava lavorando. Titoli di libri che potevano servire come spunti. Continuo a sfogliare. Ci sono le medicine da prendere, annotate una per una. Frasi sparse. “Ecco”, fa notare Vera Vecchiarelli, l’archivista che fa da guida nel Centro studi senese, “qui la scrittura a un certo punto diventa più incerta”.

C’è una sua poesia su San Francesco. Quasi non ci si crede: proprio il santo fonte di ispirazione per il nuovo Papa, Jorge Mario Bergoglio. È in stampatello. Un testo che arriva all’improvviso a confermare la consonanza di temi fra De André e il Pontefice. Perché proprio gli ultimi, i diseredati, sono i protagonisti della poetica di Fabrizio prima che il Papa Francesco ne facesse il suo campo di battaglia. Si prosegue. Altre frasi rapide, una, due righe. Poi, un lungo spazio bianco, pagine non scritte. Solo in fondo c’è un appunto più lungo. È quello finale. Il suo ultimo pensiero scritto. “Noi cantastorie andiamo in giro sollevando la polvere dai fatti memorabili, cerchiamo di farne mito o leggenda (abbiamo, a differenza dei giornalisti, la licenza di stravolgere) e se ci riusciamo davvero possiamo diventare OMERO, se non ci riusciamo per niente andiamo a comprare i giornali nelle edicole”. Tipicamente deandreiano. Nella commistione fra alto e basso, nella chiusa finale: amara ma ironica. Ecco: in quello che è il suo ultimo appunto, Fabrizio ha riflettuto sul proprio mestiere. Ne ha difeso l’approccio e i modi. Si è riallacciato ai classici. E ha concluso con una frase spiazzante. Da Milano la Fondazione Fabrizio De André, presieduta da Dori Ghezzi, conferma: sì, questi pensieri sono scritti da Faber di suo pugno.

Su uno scaffale si intravede un altro quaderno. Ha un colore verde chiaro, un nome – Outport Land – in stile marinaro. È di qualche anno precedente. Dentro c’è una poesia, bellissima e terribile. Il titolo è Il testamento.

Accomuna la morte del padre Giuseppe, per anni amministratore delegato di Eridania, e del fratello maggiore di Fabrizio, Mauro, notissimo avvocato a Genova. Vera Vecchiarelli mostra nel dettaglio come De André operava nella stesura delle sue canzoni: “Fabrizio aveva la mania di annotare tutto quello che faceva, anche nelle cose quotidiane: da come prepararsi per i concerti ai concetti da esprimere fra una canzone all’altra, dagli alimenti da assumere quando voleva fare dieta alle formazioni della squadra del Genoa la domenica. A volte ho l’impressione che scrivesse tutto come per farsi leggere, un giorno, da chi avrebbe aperto i suoi quaderni. E tutto ciò che faceva, lo faceva molto seriamente, in maniera meticolosa, strutturata”.

Il Centro studi di Siena custodisce in realtà il metodo di De André. Lo stesso che la studiosa Marianna Marrucci, che ha collaborato all’archivio, definisce come una “poetica del “saccheggio””. E cioè, “un riuso originalissimo delle proprie letture: idee, temi, immagini, versi, sintagmi migrano dalla pagina alla voce in un impasto tanto più eterogeneo quanto più coerente e originale”. Una visita qui permette di capire come Fabrizio studiasse i testi e li annotasse per poi riutilizzarli nelle bozze di lavoro. E la mole di volumi consultati per scrivere un brano di pochi minuti poteva essere impressionante. Segnati ovunque: sul frontespizio, nelle pagine bianche, in cima, in fondo, ai lati come se fossero glosse, su fogli che prendeva e accludeva. Il “saccheggio” consisteva poi nell’individuazione di un termine, una frase, un concetto, che venivano cerchiati, prelevati e incastonati nel nuovo lavoro, quindi rielaborati in modo magari molto diverso rispetto alla fonte originaria.

Allora, il termine più corretto è forse la parola “contaminazione”. Nascevano così, fra i testi assimilati e la collaborazione successiva con artisti del calibro di De Gregori, Fossati, Pagani, Bubola, Piovani, Mannerini, quelle perle immortali che conosciamo tutti, nei tredici album considerati capolavori assoluti della canzone italiana d’autore.

Il ” Caro Faber” di don Andrea e quell’ultima agendaultima modifica: 2021-01-11T05:52:19+01:00da piero-murineddu
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