QUEL LONTANO 6 LUGLIO DEL 1916, GIORNO IN CUI ANTONIO….

di Piero Murineddu

L’estate scorsa, una serie di circostanze mi hanno portato  a trovarmi nel luogo dove oltre un secolo fa diverse centinaia di persone hanno perso la vita a causa dell’usuale insensatezza a cui i gruppi umani ricorrono per risolvere le innumerevoli divergenze che li dividono, oltre che per voler allargare la loro influenza su più largo territorio di questo mondo sempre più povero d’umanitá: farsi la guerra per prevalere gli uni sugli altri.

67631968_460262454812479_1333694023805698048_n

Non avrei mai immaginato di trovarmi a piangere chinato nello stesso terreno dove son sepolti i resti di quasi 220 giovanissimi che, contro la loro volontà, vennero strappati alla vita che conducevano in vari paesi e città della Sardegna agli inizi del ‘900.

Il luogo è in località Casara Zebio, nelle alture sopra Asiago, Veneto. É qui che si trova il cimitero della Brigata Sassari, un fazzoletto di terra donata all’isola  dai comuni della zona per onorare i suoi morti, definiti dalla retorica militarista ipocritamente “eroi” ma che avrebbero preferito sicuramente portare avanti una normalissima esistenza e non essere costretti ad ammazzare altri giovani simili in tutto a loro e che neanche conoscevano.

Con decisione mi spingo ad affermare che il vero eroismo non è quello raccontato da certa retorica dei generaloni in tutti i sensi, siano essi coi petti immedagliati e con divise impeccabili o che occupano poltrone da dove decidono sull’altrui vita, sempre al sicuro lontano dalle battaglie dove si muore, ma, come nel caso di quell’assurda guerra che causò immani lutti e distruzioni, quello delle migliaia di soldati sommariamente processati da tribunali militari e fatti fucilare perchè si rifiutarono di ammazzare giovani come loro a cui era stato imposto d’indossare una diversa divisa  e  presentati come nemici da combattere. Consapevoli delle conseguenze di tale scelta e tutt’altro che vigliacchi, come solitamente son stati definiti.

cimitero

restiioI morti di questo contingente militare sardo  furono un migliaio circa, appartenenti a famiglie che hanno pianto la perdita di un loro caro senza neanche averne capito mai la precisa motivazione, se non per un vago dovere di difendere i “sacri” confini della patria.

Dopo una camminata di una mezzoretta in un sentiero tra il bosco, mi trovo davanti un minuscolo cimiterino pieno di croci tutte uguali. In due di queste, leggo i nomi di due giovani del mio paese, Sorso….

sorso

A quanto risulta da documenti ufficiali, ci fu un altro giovanissimo sorsese a perire in quei cruenti giorni, tal Antonio Contini, ventun anni appena. A tutt’oggi, il suo nominativo non compare tra i 218 presenti in questo tristissimo posto.

Per ovviare, la competenza sarebbe del comando della Brigata Sassari, e probabilmente il serio e deciso interessamento dell’amministrazione comunale del paese nativo di Antonio arriverebbe al risultato che i parenti giustamente si aspettano.

66510420_159710258526828_1711210873051152384_n

Una delle  nipoti, anch’essa nata e residente a Sorso, ha pensato di trarre uno scritto dai racconti sentiti da sua nonna Maria Francesca, mamma di Antonio.

Toccanti le parole di mamma Franzischa nel rivolgersi al figlio. Preparando per lui i dolci tipici dei giorni che si fa memoria dei defunti, é come se, durante tutta la sua lunga vita, avesse atteso sempre il ritorno dell’amato figlio.Inutilmente e senza mai sapere di preciso che fine avesse fatto.

 

I PAPASSINI DI ANTONIO

di Gavina Contini

60995931_144961876668333_5627269320905064448_n~3
In Origine c’era l’anice stellato, 20 grammi per la dose da un chilo, ma da quando Antonio si mise in bocca il fagottino, confezionato da maestro Matteo, il negoziante dei generi alimentari di piazza, lo abolì.

Antonio era il più piccolo dei primi suoi tre figli maschi e quella volta, avrà avuto due anni, rischiò la vita per colpa della polverina color ambra che si usava per dare profumo ai “dolci per i morti”.

Aveva ordinato tutti gli ingredienti sulla madia, come era solita fare, per evitare di dimenticarne qualcuno:

1kg di farina 00, 400 g di zucchero, 300 g di strutto, 100 g di arancia candita,100 g di uva passa, 6 uova, 30 g di semini di anice, 20 g di anice stellato, 20 g di cremore di tartaro, 20 g di bicarbonato di sodio, 400 g di mandorle, 200 g di pinoli, 1 cucchiaio di cacao amaro, 2 bustine di vaniglia, 2 limoni, la scorza

Il bambino con tutto quello che c’era agguantò proprio l’involucro di carta oleata con dentro l’anice stellato e, probabilmente inebriato dall’aroma, se lo succhiò come fosse un capezzolo di zucchero. Di li a poco iniziò a vomitare e a roteare gli occhi come un posseduto.

Se ne accorse dall’odore dell’alito che si era avvelenato con l’anice.

Lo portò di corsa dal dottore e questi disse che bisognava aspettare e di farlo bere molto e che forse già si sarebbe salvato.

Antonio si salvò quella volta e per festeggiare Franzischa li fece “i dolci per i morti” ma senza anice stellato che ormai quell’odore provocava il vomito pure a lei.

I papassini di Franzischa avevano tutti i profumi ma senza anice stellato apparivano diversi. Quando li confrontava con quelli della suocera e delle cognate a lei i suoi sembravano più buoni ma anche il marito diceva che senza il forte profumo dell’anice non erano papassini.

Chi mostrava di apprezzarli era Antonio che anche duri e senza “cappa” li mangiava, tutti gli altri continuavano a dire che non erano papassini.

Fu per questo che Franzischa decise che li avrebbe fatti tutti i dolci: formagelle e cozzuri, biscotti e amaretti, bianchini e birighitti ma non i papassini che tanto per il marito erano buoni solo quelli fatti dalla mamma e dalle sorelle.

Non era vero che i papassini di Franzischa non erano papassini: la mancanza del forte aroma di anice stellato permetteva alla vaniglia e alla scorza di limone di emergere. Dell’anice aveva tenuto i semini che quando venivano sgranocchiati sotto i denti lasciavano in bocca un sapore leggero, come un ricordo lontano.

Di strutto ne metteva sempre un cucchiaio in più per renderli docili al palato.

Le mandorle pelate dopo averle passate in acqua bollente le macinava e le tostava insieme ai pinoli che metteva interi. Di arancia candita un bel pezzo, ridotto in cubetti cosi minuscoli da sembrare brillantini nell’ammasso bruno. L’uvetta se la preparava lei facendo essiccare, appesi al graticcio di canne nella casa del forno, i più bei grappoli di moscatellone della sua vigna.

Li sapeva fare i dolci Franzischa e tante altre cose sapeva fare oltre che mettere al mondo figli.

Dopo i primi tre maschi ebbe due femmine  poi altri due maschi e infine un’altra femmina, otto in tutto.

I primi erano già uomini fatti che lei stava ancora allattando gli ultimi.

Quando scoppiò la Guerra lei ne aveva tre pronti per la Patria.

A lei darli tutti e tre sembrava troppo ma il marito diceva che quando il dovere chiama è da vili non rispondere. Anche la vita alla Patria se te la chiede.

I ragazzi erano felici di partire manco stessero andando all’ Ardia di San Costantino. Sperava almeno che li tenessero insieme cosi si sarebbero fatti compagnia e lei sarebbe stata più tranquilla.

Tre erano troppi solo questo sapeva per il resto non era in grado di capire se fosse giusto darli perché  li portassero al macello.

Era appena iniziata la guerra che la Patria se ne mangiò subito uno dei suoi tre figli: Antonio. Vegliò e prego per tre giorni e tre notti poi mise le vesti del lutto e tornò ad occuparsi del resto della famiglia.

” La patria non si fece vedere, mandò solo una lettera per comunicare che il figlio mio era morto per le ferite riportate in combattimento, dove non lo diceva o forse io non sono stata attenta disperata com’ero . La lettera la tengo nel primo cassetto del comò e ogni tanto la apro ma non mi dice cosa c’è scritto o meglio io non lo so leggere.”

 

Antonio classe 1895 soldato del 151° battaglione di fanteria mori il 6 luglio 1816 sul Monte Zebio. Franzischa non aveva nessuna tomba sulla quale accendere un lume o aggiustare un fiore per il figlio morto e di andare al parco delle rimembranze a vedere la foto di suo figlio appesa all’albero del ricordo non ne voleva sapere.

Le corone di alloro e i monumenti erano per lei cose con le quali la Patria si lavava la coscienza. Non  capiva l’orgoglio del marito quando leggeva il nome di Antonio sulla lapide, davanti alla porta del municipio, ma non ne aveva voglia di attaccarsi a bisticciare.

Fu dopo la notizia della morte di Antonio che Franzischa riprese a fare “ i dolci per i morti”. Andava dalla figlia di maestro Matteo, che aveva il negozio di piazza del padre, e si faceva preparare la dose da un chilo. La bottegaia ci metteva anche i 20 grammi di anice stellato che lei , arrivata a casa, buttava nel secchio della spazzatura.

Tutti gli anni per i “Santi”, fino all’età di novant’anni preparò “i papassini di Antonio”.

Il giorno prima della vigilia pelava le mandorle e staccava i grappoli di moscatellone dal graticcio di canne nella casa del forno.

Sulla madia ordinava tutti gli ingredienti per essere certa di non dimenticarne nessuno.

La mattina della vigilia si faceva fare il forno dal marito mentre lei sul tavolo organizzava l’impasto.

La farina00 disposta a fontana accoglieva le uova fresche , lo zucchero e lo strutto sciolto a bagnomaria, le mandorle  e i pinoli, l’uva passa e l’arancia candita, i semi di anice e il cacao, la vaniglia e la scorza di limone, per ultimi il cremore e il bicarbonato sciolti in due dita di latte tiepido.

Lavorava il tutto con delicatezza , attenta a che gli ingredienti fossero distribuiti in modo uniforme.

Lasciava riposare per una mezz’ora e si preparava le teglie di latta per la cottura nel forno a legna.

Sul tavolo in castagno, pulito e infarinato, disponeva i cilindri di impasto che appiattiva con le mani leggermente umide per poi tagliarli a losanghe con la lama affilata del coltello.

La cottura la faceva a fuoco dolce. Mano a mano che le teglie uscivano dal forno disponeva i papassini nella corbula di fieno marino e palma nana, li copriva con un telo di lino grezzo e si preparava a dirsi il rosario.

Il giorno dei “Santi”, di ritorno dalla prima messa, preparava la glassa con zucchero a velo e albume d’uovo e ricopriva i dolci decorandoli con i “ diavolini “ argentati avendo cura di lasciarne sempre qualche dozzina senza “cappa”.

Alla sera, al suono dell’Ave Maria, dopo aver fatto cenare in fretta e furia il marito e i figli ancora in casa, si dedicava tutta ad Antonio.

La tovaglia metteva quella ricamata di quando aveva battezzato i bambini. Dalla credenza toglieva due piatti del servizio buono e i calici di cristallo di Boemia, regalo di nozze della zia madrina, per l’acqua e per il vino. Posate no che i morti non ne hanno bisogno ma il tovagliolo di Fiandra quello si.

Sul fornello l’acqua bollente aspettava gli spaghetti che avrebbe condito con sugo di pomodoro e pecorino stagionato grattugiato al momento.

Il vino rosso, l’acqua e una bottiglietta di moscato a far compagnia ai dolci.

Al centro del tavolo poneva la bugia di terracotta con la candela stearica che accendeva prima di spegnere la luce.

Seduta nella penombra tremolante davanti a quell’altare pagano aspettava l’anima del figlio morto.

“Entra figlio mio , mettiti comodo e mangia che te ne sei andato affamato di pane e di vita.

Neanche una messa quando hai consegnato l’anima a Dio, non c’era il tempo in mezzo a quella carneficina.

Mamma prega sempre per te. Tutte le notti raccomando a Maria Vergine di vegliare sul tuo riposo eterno. Io prego ma non trovo pace. Non so niente della tua morte, solo che era Luglio e che dovevi compiere 21 anni. Mi devi aver chiamato ma come facevo a sentirti figlio mio adorato…quando ho smesso di pensare a come la Patria ti aveva strappato al mio cuore ho preso a cercare il luogo dove ti avevano interrato. Ho chiesto a tuo padre e pure a tuo fratello che vive in continente di fare richiesta al ministro. lo so che  una povera analfabeta come me non può mettersi in viaggio ma sapere di quale colore è la terra che ti ha coperto mi consolerebbe un po’.

Vienimi in sogno, figlio mio bello, e dimmelo tu a mamma sotto quale cielo straniero dormi.”

Tutti gli anni Franzischa, nella notte tra i “Santi” e il giorno dei “morti” intonava il canto funebre per suo figlio Antonio.

Ci fu un altro conflitto crudele e sconvolgente quanto il primo ma per lei la “Guerra” era quella che le aveva mangiato il figlio e mai perdonò alla patria di averle nascosto il luogo della sepoltura. Oggi avrebbe saputo che Antonio riposa in pace in un piccolo cimitero sull’Altopiano e che quel lembo di terra è diventato ,per volere di un popolo generoso, un pezzo di terra di Sardegna.

Alla comunità dell’Altopiano vada la riconoscenza della famiglia a nome di Franzischa.

csm_crop_43_papassini1229_2bc2f2aaf4

 

Di seguito, le foto coi nominativi dei sorsesi periti durante le due guerre mondiali e a cui, con profondo rispetto,  voglio dedicare l’indimenticabile brano di Fabrizio De Andrè…. (P.M.)

20191104_11595320191104_12023220191104_12031420191104_120255

 


 

 

QUEL LONTANO 6 LUGLIO DEL 1916, GIORNO IN CUI ANTONIO….ultima modifica: 2019-11-04T05:59:45+01:00da piero-murineddu
Reposta per primo quest’articolo

Commenti (2)

  1. Giancarla Cortinovis

    Cosa si può dire di una tragedia inutile.
    Un dolce pensiero a tutti quei ragazzi inconsapevoli.
    Una preghiera per chi è rimasto nella crudele attesa di un ritorno!

    Rispondi
  2. Gavina

    Grazie per averlo ricordato. Per la nostra famiglia è un episodio che ci tiene ancorati alla figura di Maria Francesca.Si dice fosse una donna buona devota a Dio e al marito ma soprattutto le sue azioni erano sempre finalizzate alla pace tra le persone.

    Rispondi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non verrà pubblicato ma sarà visibile all'autore del blog.
I campi obbligatori sono contrassegnati *