La storia di Osvalda

Raccontata dalla nipote Camilla

Osvalda in paese la conoscevano tutti per gli occhi azzurri e la sfoglia soda. Alla tavola del salotto buono ha sfamato per anni compagni del partito, amici, fratelli, soldatini in licenza, studenti sessantottini sbarbati, persino parrocchiani, gelosa delle sue ricette e generosa con lo strutto.

Per me la storia della Nonnosaura comincia in cucina, coi suoi vezzi anni Cinquanta nell’opulenza degli anni Ottanta. Ma bisogna ammettere che la storia cominciò ben prima, in anni di fatica e miseria, e precisamente nel 1927, anno di fatica e miseria come gli altri.

La Signora Giulia, che poi signora non era, ma pezzente e mezzadra, mette al mondo Osvalda sullo stesso materasso dove dorme tutta la famiglia, allenata dai cinque parti precedenti, preparandosi per i quattro successivi. In tempo per la cena.

Dei nove nati ne tira su sette, perché a Giulia gliene muoiono solo due, e un simile risultato non deve sorprendere. Le donne della mia famiglia oltre agli occhi azzurri hanno i fianchi larghi e quello che va fatto lo sanno fare bene.

Sette ne tira su e sono belli e dritti, onesti, con il lavoro nelle mani e il Partito nella coscienza, tutti con due occhi azzurri, due gambe e due braccia, almeno fino alla guerra, che quello che non affetta fuori lo affetta dentro.

Quando la nonna nasce però la guerra non c’è ancora, e ad affettare i corpi ci pensa solo il lavoro.

Il papà Bonfiglio era innamorato della mamma Giulia più di quanto in quei tempi fosse lecito aspettarsi, ma nonostante il lavoro nei campi e le attenzioni non sempre desiderate con cui tampinava la moglie, trovava il modo di vedere i suoi virgulti crescere a mollo nella pianura, e si inteneriva per la bellezza di ognuno.

Osvalda l’aveva chiamata Cerlo, uccello dalle lunghe zampe che becchetta i pantani. E alla nonna le zampe lunghe servivano per davvero, a correre dietro ai fratellini, raccogliere i cocomeri succosi per il padrone, dare una mano in casa e scappare per tempo dalle violenze che la vita riserva alla bambine povere di ogni tempo e luogo.

Quando appollaiata su quelle gambe, a sedici anni, dà il suo primo bacio, da sedici anni vive nel fascismo. Quel bacio lo dà al nonno, e nessun altro godrà mai di tale onore. Il nonno deve aver avuto un nome di battesimo, ma per tutti quanti era Tito.

Era successo che alla fine la guerra era arrivata, il nonno era partito militare per la Jugoslavia e si era ferito più o meno apposta una gamba, stanco di sparare ai compagni o forse stanco di sparare e basta.

Era tornato in convalescenza in Italia dalla sua mamma e poi appena aveva saputo che c’era una cosa che si chiamava Resistenza, era partito in montagna. Visto che tanto per un po’ sparare toccava comunque, almeno decideva lui contro chi.

La nonna nel frattempo aspettava e lavorava. Narrano le cronache famigliari che a quei tempi dei vicini invidiosi della rettitudine comunista della grande famiglia avessero messo dei vetri nel pastone del maiale.

Lei, insonne al pensiero di tutta quella carne che poteva andar persa, salì a cavalcioni dell’animale imbizzarrito, amazzone di pianura, brandendo il punteruolo, e mise fine alle sofferenze della povera bestia, mentre gli astanti guardavano a bocca aperta e si tenevano prudentemente lontani.

Nello stesso periodo Osvalda corse ben altri pericoli, ma nonostante gli ufficiali ringraziamenti che le fruttarono, dell’Anpi e della giovane Repubblica, lei non ne parlava volentieri. Portava messaggi urgenti dove andavano portati, messaggi che a stento sapeva leggere, col sellino della bici come unica arma e la nebbia come guardia del corpo.

Non lo faceva per coraggio ma per dovere, quando io ero una bimba in grado di fare domande lei voleva ormai solo dimenticarsi del rumore che le faceva la pancia quando pedalava curva dalla paura, senza avere idea se il domani sarebbe poi davvero stato migliore come la sua età le faceva sperare.

Il nonno Tito, che invece leggeva libri e sapeva il valore di una buona storia, si cimentava volentieri nell’antica arte del racconto. Il mio preferito era quello della sua cattura da parte dei fascisti.

Succedeva che ogni tanto Tito scendesse dalla montagna, e quando succedeva passava da Osvalda, in silenzio, a prendere salami, formaggio, e baci notturni, per riportare tutto su in montagna.

Una notte il padrone dei campi su cui sgobbava la famiglia della nonna se ne accorse. A lui i baci della nonna erano sempre stati rifiutati, e in più salame e formaggio erano giuridicamente suoi, così lo spodestato chiamò la polizia, che arrivò in bicicletta e arrestò Tito.

Lo portarono a piedi a Villa Lombardini, dove sapevano tutti che ai partigiani gli stiravano le cosce e gli cavavano la pelle, sotto lo sguardo indifferente delle Nereidi affrescate sul soffitto antico.

Mentre erano nei pressi della stazione, passò un treno merci, carico di armi per il fronte, e gli aguzzini del nonno fecero il saluto militare tutti insieme, maschi tronfi ed impettiti, forse per non dare a vedere lo sgomento che gli dava la macchina a vapore, imberbi camerati di campagna.

Il nonno fu per un attimo libero e saltò, saltò tra due vagoni, si ritrovò vivo dall’altra parte e cominciò a correre lontano, lontano dal paese, lontano da Osvalda, lontano dalle Nereidi di villa Lombardini, lontano dalla Bassa, a provare a sopravvivere in montagna fino alla fine della guerra.

Quando tanti anni dopo a catturarlo fu il vinaccio del bancone del bar, di treni merci non ne passavano più da tempo, e il nonno non fu capace di scappare.

Ma quel che importa è che la fine della guerra arrivò. Contando i pezzi Tito e Osvalda videro che c’erano ancora tutti, e con tutti i pezzi attaccati decisero di sposarsi, per amore e basta, visto che solo amore avevano, e nemmeno un vestito elegante o un mazzo di fiori.

Per fortuna era maggio, la campagna esplodeva di colori, e anche se non avevano i soldi per il fotografo una foto gli rimase ugualmente perché furono la prima coppia a sposarsi in Comune, rifiutando in coscienza altare e sacramento, e finirono sul giornale.

La dote della sposa era una seggiola, quella dello sposo un’invalidità di guerra, da lì partirono per costruirsi un futuro, e ci riuscirono in fretta e bene.

Una casa popolare conosciuta come “il Cremlino”, un incarico da Vigile Urbano per il nonno, che all’epoca il Comune vegliava con attenzione su chi dovesse andare in giro armato, la macchina da cucire per la nonna che divenne magliaia di notte e contadina di giorno.

Dopo qualche anno un unico figlio, maschio e con gli occhi azzurri, da mandare all’università e da educare con rigore e saggezza, perché non gli toccasse mai di avere l’odore di campagna sotto le unghie.

Chicco di riso su chicco di riso, come quando si ammuffiva le ginocchia in risaia in Piemonte, Osvalda amministrò, conservò e dispensò con tale precisione che alla fine degli anni ’50 poteva darsi per consolidato il suo trionfale ingresso nella classe media.

Quando la nonna parlava della sua vita, seduta al tavolo della cucina nuova fiammante, mentre cercavo di scalfirla con domande da adolescente inquieta, aveva una tale precisione nel dividere il giusto dallo sbagliato che per un attimo il mondo mi sembrava un posto semplice.

Quando per esempio aveva prestato il suo garage alla comunità pakistana del paese perché stavano facendo dei lavori alla moschea, per sondare quanto fosse realmente profonda la sua tolleranza, le chiesi se avesse notato che pregavano in un modo strano, inginocchiati per terra.

Lei si mise a ridere, le sue risate che partivano dalla pancia e finivano negli occhi, e mi disse che stavano per terra per forza, dal momento che non c’erano seggiole, nel suo garage.

Era così la nonna. Sapeva di essere sempre stata dalla parte giusta, senza arroganza, per amore e per dovere. Aveva evaso il minimo indispensabile, prestato soldi quando poteva, dato amore e consigli senza mai sparlare di nessuno, votando chi doveva votare anche tappandosi il naso. Era una gigantesca bussola di ottanta chili, piena di gentilezza e di indecifrabile rettitudine.

Solo una volta, qualche anno fa, l’ho vista vacillare. Mia mamma, seduta al tavolone della sala, le aveva chiesto con sessantottina sfrontatezza se in verità gliel’avesse data, al nonno Tito, prima del matrimonio.

Sottile vendetta contro mio padre, che sbiancò da un lato della tavola, mentre la nonna si faceva paonazza dall’altra. Io, tortello a mezz’aria, avevo troppa voglia di sentire come andasse a finire per soccorrere l’uno o l’altra.

Dopo un costernato silenzio a mani giunte, la Nonnosaura tirò su la testa bianca: “Bhe! Me an vriva mia…mo……l’era la Liberasioùn!”. Lei il 25 aprile lo aveva festeggiato anche così. Lussi meritati da chi riesce a rimanere vivo.

Ha deciso di morire da vecchia, Osvalda, e al suo funerale eravamo rimasti in pochi, senza banda né bandiere. Ha vissuto la sua vita fino alla fine, negli ultimi anni più per dovere che per piacere.

Quando era già sposata ha visto il mare, una sola volta, e le ha fatto paura. Non per dovere ma per amore conosceva l’esatto peso dell’umano vivere, lo ha difeso in pianura quando aveva le zampe che correvano ancora volentieri, volentieri oggi impasterebbe la sua sfoglia per chi non ha paura di difenderlo in mare.

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Nota

Il 23 gennaio scorso nonna Osvalda, staffetta partigiana, ci ha lasciati. Per il suo funerale non ha voluto fiori né omaggi, ma un sostegno concreto alla missione di “Mediterranea Salving Humans”, la ONG proprietaria della nave Mare Jonico sotto mira strumentalmente delle Destre perché finanziata anche dalla Banca Etica.
Sono messaggi come questi che scaldano il cuore e danno coraggio e convinzione di essere dalla parte giusta.

La storia di Osvaldaultima modifica: 2019-04-01T12:28:10+02:00da piero-murineddu
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