Accoglienza, colonizzazione? In ogni caso, attenzione! E molta….

di Piero Murineddu

Bello questo ricordo scritto da Giacomo Mameli. Nonostante la Sardegna nel tempo sia stata considerata terra di conquista e da depredare, in un determinato periodo, come andiamo a leggere, nei confronti dei forestieri i sardi, com’è nella loro indole, hanno mostrato accoglienza e benevolenza.

La convinzione che “furat chie benit dae su mare” è un ladro, è stata confermata dagli spagnoli e dai piemontesi, e come è cantato nell’inno di Francesco Ignazio Mannu “Procurade ’e moderare”, specialmente da questi secondi (“fit pro so Piemontesos sa Sardigna una cuccagna”).

Da questo 2019 lo spolpamento di questa terra rischia di ripetersi, con la complicità dell’Istituzione Pubblica e con l’illusorio abbagliamento di nuove prosperità da parte di molti sardi. Aspettiamo. Con gli occhi ben aperti e la mente ben desta. Nel caso, nuovi Giovanni Maria Angioy non mancheranno a ricacciare chi “furat chie benit dae su mare”, quelli arrivati già ben panzuti, accolti con applausi e col tappeto rosso, e non certamente gli altri poveracci che hanno lasciato molti loro e nostri fratelli in fondo al Mediterraneo.

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PERDASDEFOGU DA TRE SECOLI IN FESTA PER GLI STRANIERI

di Giacomo Mameli

Tre secoli fa – non c’era la nave Diciotti con 177 persone in mare sette giorni – parlava come fa oggi Papa Francesco o il cardinale Montenegro arcivescovo di Agrigento. O come Pietro Bartolo, medico di Lampedusa con una minoranza sempre più silenziosa nel mondo.

Il profeta dell’ospitalità sarda ha avuto un suo pioniere in don Giovanni Corona, parroco povero della chiesa povera di Foghesu, figlio di Giuseppe e Barbara Usala, «ordinato sacerdote a Cagliari il 21 settembre 1715, curato dal febbraio 1719 al dicembre 1721 e poi dal gennaio 1723 all’8 novembre 1741.

La storia, appena venne conosciuta, aveva trovato un autorevole avallo nel volume sul Settecento dello storico Luciano Carta e curatoda Manlio Brigaglia. Tre secoli fa, dicevamo, don Corona inventa la festa per il forestiero, su stràngiu. E la battezza “Sa dì ’e Sa Strangìa”, una internazionale Stranger’s Day.

La vicenda – unica in Sardegna – nasce in un momento in cui l’avversione verso i piemontesi è elevatissima. Dal 1300 era legge il detto “Furat chie benit dae su mare”, è un ladro chi giunge dal mare. Non cambia con l’arrivo degli Spagnoli e dei Piemontesi.

Francesco Ignazio Mannu con l’inno Procurade ’e moderare, alle strofe 32-33 dice: “Fit pro so Piemontesos sa Sardigna una cuccagna”, e più avanti: “Malaitu cuddu logu chi criat tale zenia, maledetta la terra che ha dato i natali a simile genia”.

Un piemontese – pare si chiamasse Càndia – verso il 1730 si trova a Perdasdefogu per fare incetta di legni pregiati di olivastro e leccio, piante millenarie come quelle di Luras e Santa Maria Navarrese. Il legname, su carri a buoi arrivava ad Arbatax e da qui, su brigantini, prua verso i cantieri navali di Imperia.

Un pomeriggio di un 11 settembre del ’700 l’industriale Candia passeggia da solo per lo “stradone” di Foghesu. I boscaioli con i quali lavorava sono intenti a preparar arrosti per la festa del 12. Le donne ripuliscono le strade.

Don Corona avvicina il piemontese, gli dice che nel villaggio sono tutti indaffarati e lo invita a cena. L’indomani, nella chiesetta campestre, racconta la serata passata col forestiero. Dice, con rima foghesina: “Dògnia stràngiu est unu cumpàngiu”, ogni forestiero è un compagno. E ancora: “Seus totus fradis, filgius de unu matessi babbu. Siamo tutti fratelli, figli di uno stesso padre”.

Così don Corona fa nascere Sa dì’e sa Strangìa. In chiesa applaudono. Candia lo straniero ascolta commosso. A pranzo è ospite del capo obriere Giovanni Murgia detto Su Re. La vicenda è stata raccontata da un altro sacerdote di Perdasdefogu, il canonico Priamo Maria Spano (1871-1959).

A fine ’800 l’aveva sentita da don Vittorio Cannas. Esisteva un foglio sul quale “predi Corona” aveva messo nero su bianco la nascita de “Sa Strangìa”, documento conservato fino al 1865 da don Giovanni Antonio Naitana di Bosa. E andò perso. Secondo alcuni Sa Strangia era in uso dai primi del ’700. Parroco era don Girolamo Sulis (nato da Andrea e Nicolina Vacca, curato dal 6 gennaio 1713 al 24 gennaio 1718 prima di essere trasferito a Villaputzu, Tertenia ed Elini).

Parlava di Strangia anche don Sebastiano Lai “consacrato il 14 agosto 1794, committente dell’attuale chiesa parrocchiale neoclassica con impresario – riferisce Felice Tegas – il cagliaritano Antonio Porcu Raminy”. Un incendio brucia i registri dal 1628 al 1689. La tradizione si rinnova ogni anno con crescente partecipazione. Non mancano le launeddas, oggi Tore Orrù allievo di Luigi Lai, prima Aurelio Porcu e Peppino Depau.

Durante la seconda guerra mondiale la festa era solo religiosa, i panni-palio dedicati ai soldati morti nel gelo del Don. Luigino Depau, 99 anni: «Venivano soprattutto da Lanusei, dormivano in casa anche venti persone, tutti sulle stuoie». Antonio Brundu, 101 anni: «Di forestieri per Sa Strangìa me ne ricordo diciotto, di Villagrande». E Vittorio Palmas, 105 anni: “Sa Strangìa è la festa più bella, venivano i poeti Remundu Piras e Peppe Sotgiu. E anche Maria Farina di Osilo”.

Festa immutata. Ogni famiglia invita a casa amici veri (nell’ultimo secolo gli “stranieri” sono stati soprattutto i pastori e le famiglie di Arzana e Villagrande che pernottavano per la transumanza dal Gennargentu al Cardiga). Dal pulpito si riparlerà dei temi dell’ospitalità invocato da don Corona. Chissà se a Palazzo Chigi e al Viminale capiranno don Corona per il quale “ogni forestiero è un nostro fratello. Gli uomini, sulla terra, siamo tutti uguali».

Accoglienza, colonizzazione? In ogni caso, attenzione! E molta….ultima modifica: 2019-03-03T16:21:19+01:00da piero-murineddu
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