don TONINO BELLO e LA PACE

“La pace come cammino”

 

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http://www.youtube.com/watch?v=jHHPNE7WG5I

 

di don Tonino Bello

 

A dire il vero non siamo molto abituati a legare il termine PACE a concetti dinamici.

Raramente sentiamo dire: “Quell’uomo si affatica in pace”, “lotta in pace”, “strappa la vita coi denti in pace”…

Più consuete, nel nostro linguaggio, sono invece le espressioni: “Sta seduto in pace”,  “sta leggendo in pace”,  “medita in pace” e, ovviamente, “riposa in pace”.

La pace, insomma, ci richiama più la vestaglia da camera che lo zaino del viandante. Più il comfort del salotto che i pericoli della strada. Più il caminetto che l’officina brulicante di problemi. Più il silenzio del deserto che il traffico della metropoli. Più la penombra raccolta di una chiesa che una riunione di sindacato. Più il mistero della notte che i rumori del meriggio.

Occorre forse una rivoluzione di mentalità per capire che la pace non e’ un dato, ma una conquista.

Non un bene di consumo, ma il prodotto di un impegno. Non un nastro di partenza, ma uno striscione di arrivo.

La pace richiede lotta, sofferenza, tenacia. Esige alti costi di incomprensione e di sacrificio.

Rifiuta la tentazione del godimento. Non tollera atteggiamenti sedentari. Non annulla la conflittualità. Non ha molto da spartire con la banale “vita pacifica”.

Sì, la pace prima che traguardo, è cammino. E, per giunta, cammino in salita.

Vuol dire allora che ha le sue tabelle di marcia e i suoi ritmi, i suoi percorsi preferenziali ed i suoi tempi tecnici, i suoi rallentamenti e le sue accelerazioni.

Forse anche le sue soste. Se è così, occorrono attese pazienti.

E sarà beato, perché operatore di pace, non chi pretende di trovarsi all’arrivo senza essere mai partito, ma chi parte.

Col miraggio di una sosta sempre gioiosamente intravista, anche se mai – su questa terra s’intende – pienamente raggiunta.

 

Sul terreno della pace non ci sarà mai un fischio finale che chiuda la partita:

bisognerà sempre giocare ulteriori tempi supplementari

Un saggio orientale diceva che, se lui avesse avuto per un attimo l’onnipotenza di Dio, l’unico miracolo che avrebbe fatto sarebbe stato quello di ridare alle parole il senso originario. Sì, perché oggi le parole sono diventate così “multiuso”, che non puoi più giurare a occhi bendati sull’idea che esse sottendono. Anzi, è tutt’altro che rara la sorpresa di vedere accomunate accezioni diametralmente opposte sotto il mantello di un medesimo vocabolo. Guaio, del resto, che è capitato soprattutto ai termini più nobili; alle parole di serie A; a quelle, cioè, che esprimono i sentimenti più radicati nel cuore umano come pace, amore, libertà. A dire il vero, per quel che riguarda la pace, pare che questa “sindrome dei significati stravolti” fosse presente anche nei tempi remoti, se è vero che perfino in un salmo della Bibbia troviamo denunce del genere: “essi dicono pace, ma nel loro cuore tramano la guerra”. Su quale pace scommettere? Con questo non si vuol dire che il termine “pace” indichi inequivocabilmente una realtà così precisa e dai contorni così ben definiti, da escludere nettamente zone di valori limitrofi. E’ difficile tracciare la linea di demarcazione che distingue l’area della pace da quella propria della libertà, o della giustizia, o della comunione, o del perdono, o dell’accoglienza, o della verità. Ed è fatica improba disegnare sulle mappe lessicali gli spartiacque di questi valori. Sicché, se le immagini possono aiutarci a capire, dovremmo dire che la pace più che una stella è una galassia, più che un’isola è un arcipelago, più che una spiga è un covone. A fare difficoltà, però, non è lo sfumare della pace propriamente detta nelle fasce degli altri concetti viciniori con i quali, per così dire, essa ha rapporti stretti di consanguineità. Ciò che crea problemi, invece, è quella terribile operazione di contrabbando secondo cui si espongono nella medesima vetrina, magari con la medesima etichetta, prodotti completamente diversi. Diciamocelo francamente: la pace la vogliono tutti, anche i criminali; e nessuno è così spudoratamente perverso, da dichiararsi amante della guerra. Ma la pace di una lobby di sfruttatori è la stessa perseguita dalle turbe degli oppressi? La pace delle multinazionali coincide con quella dei salariati sotto costo? La pace voluta dai dittatori si identifica con quella sognata dai perseguitati politici? E sul vocabolario del regime di Pretoria, la definizione di pace suona allo stesso modo che sul vocabolario delle vittime delI’apartheid ? Come si vede, è necessario evitare il rischio di pericolose contraffazioni. Pertanto, si rende indispensabile, almeno per noi credenti, fissare dei criteri sulla cui base selezionare il genere di pace, per il quale valga la spesa di impegnarsi in una scommessa. Non scommettere sulla pace che non venga dall’alto: è inquinata. Dire che la pace è un dono di Dio sta diventando purtroppo uno slogan pronunciato da noi cristiani senza molta convinzione e usato come formula di maniera. Tutto sommato, all’atto pratico facciamo affidamento più sulle mediazioni diplomatiche che sull’implorazione, più sulla bravura delle cancellerie della terra che sulla forza impetrativa della preghiera, più sull’abilità dei politici che sulla tenacia dei contemplativi. Preghiamo, questo sì, per la pace. Ma di essa abbiamo una concezione maledettamente tolemaica: il cielo sembra che le ruoti attorno solo per fecondarne lo sviluppo e per incoraggiarne la crescita. Ebbene, considerare la pace come acqua ricavata dai nostri pozzi è un tragico errore di prospettiva di cui, prima o poi, pagheremo le spese col prosciugamento o con l’inquinamento delle falde freatiche. Quando la riflessione delle nostre comunità riuscirà a scoprire che i pozzi della pace sono le stimmate del Risorto? Non scommettere sulla pace non connotata da scelte storiche concrete: è un bluff. Se, per un verso, non è infrequente l’equivoco su descritto, che potremmo designare come l’eresia del “pelagianesimo della pace”, per un altro verso non è raro il rischio opposto che è quello del disimpegno, coperto oltretutto dall’alibi comodo che la pace è una realtà “oriens ex alto”, proveniente dal Cielo. Occorre scongiurare questa specie di fatalismo che fa ritenere inutili, se non addirittura controproducenti, le scelte di campo, le prese di posizione, le decisioni coraggiose, le testimonianze audaci, i gesti profetici. E’ vero, la pace è un’acqua che scende dal cielo: ma siamo noi che dobbiamo canalizzarla affinché, attraverso le condutture appropriate della nostra genialità, giunga a ristorare tutta la terra. Ecco perché è un “bluff” limitarsi a chiedere la pace in chiesa, e poi non muovere un dito per denunciare la corsa alle armi, il loro commercio clandestino, e la follia degli scudi spaziali. Per impedire la crescente militarizzazione del territorio. Per smascherare la logica di guerra sottesa a tante scelte pubbliche e private. Per indicare nelle leggi dominanti di mercato i focolai della violenza. Per accelerare l’accoglimento di criteri che favoriscano un nuovo ordine economico internazionale. Per tracciare i percorsi concreti di una educazione autentica alla pace. Per esporsi, magari anche con i segni paradossaIi ma eloquenti dell’obiezione di coscienza, in tutte le sue forme, sui crinali della contraddizione. Non scommettere sulla pace che prenda le distanze dalla giustizia: è peggio della guerra. La Bibbia allude spesso ad abbracciamenti tra pace e giustizia simili a quelli tra madre e figlia, o tra due amanti comunque. Frutto della giustizia è la pace, dice Isaia in uno splendido passo. E il salmo 85 parla così apertamente di baci tra i due partners, che non mancano coloro a cui verrebbe il sospetto che questi rapporti abbiano del torbido, e calpestino il cosiddetto elementare senso del pudore. In effetti, è un’accoppiata che fa scandalo. Tant’è che molti agenti della “buon costume” preferirebbero che le due imputate se ne tornassero ciascuna a casa sua e rientrassero, per così dire, a vita privata. Parlando fuori parabola, non è difficile capire come ai ben pensanti che quasi sempre coincidono con i garantiti di turno, dà fastidio questa scoperta biblica, recente tutto sommato, del legame esistente tra pace e giustizia. Pace, sì. Ma che c’entrano i 50 milioni di esseri umani che muoiono ogni anno per fame? Sulla pace non si discute. Ma che cosa hanno da spartire con essa i discorsi sulla massimizzazione del profitto? La pace, va bene. Ma non sa di demagogia chiamare in causa, ad ogni giro di boa, le divaricazioni esistenti tra Nord e Sud della terra? Pace, d’accordo. Ma è proprio il caso di tirare in ballo la ripartizione dei beni, o i debiti del terzo mondo, o le manipolazioni delle culture locali, o lo scempio della dignità dei poveri? Attenzione! E’ in atto una campagna “soft” che spinge pace e giustizia alla “separazione legale”, con espedienti che si vestono di ragioni morali, ma camuffano il più bieco dei sacrilegi. Non scommettere sulla pace che si proclami estranea al problema della salvaguardia del creato: è amputata. Qualcuno potrebbe pensare che il bisogno di allargare i consensi, con l’ammiccamento ai temi di moda, abbia provocato l’inclusione del problema ambientale nell’area degli interessi di coloro che si battono per la pace. Non è così. Alla radice di questa coscienza, che potremmo chiamare “trinitaria”, visto che la pace oggi si declina inesorabilmente con la giustizia e con la salvaguardia del creato, c’è la constatazione che, a produrre tanti guasti inesorabili della natura, è sempre il seme del profitto. Lo stesso che genera le guerre. L’utero che partorisce la guerra è sempre gravido, diceva Brecht. E i suoi parti sono trigemini, dal momento che, oltre alla guerra e all’ingiustizia, si porta dentro anche il mostro ecologico. Isaia le aveva intuite prima di noi queste articolazioni, quando annunciava la discesa dello Spirito che avrebbe trasformato il deserto in giardino, all’interno del quale sarebbe fiorito l’albero della giustizia, sui cui rami sarebbe spuntato il frutto della pace. “In noi sarà infuso uno Spirito dall’alto. Allora il deserto diventerà un giardino…e la giustizia regnerà nel giardino…e frutto della giustizia sarà la pace” (32,15-17). Non scommettere sulla pace che sorrida sulla radicalità della nonviolenza: è infida. E’ giunta l’ora in cui occorre decidersi ad arretrare (arretrare o spingere?) la difesa della pace sul terreno della nonviolenza assoluta. Non è più ammissibile indugiare su piazzole intermedie che consentano dosaggi di violenza, sia pur misurati o prevalentemente rivolti a neutralizzare quella degli altri. Richiamarsi al dovere di “camminare con i piedi per terra”, e fare spreco di compatimento sul preteso “fondamentalismo” degli annunciatori di pace, significa far credito alle astuzie degli uomini più di quanto non si faccia assegnamento sulle promesse di Dio. La nonviolenza è la strada che Gesù Cristo ci ha indicato senza equivoci. Se su di essa perfino la profezia laica ci sta precedendo, sarebbe penoso che noi credenti, destinati per vocazione a essere avanguardie che introducono nel presente il calore dell’utopia evangelica, scadessimo al ruolo di teorizzatori delle prudenze carnali . Il grande esodo che oggi le nostre comunità cristiane sono chiamate a compiere è questo: abbandonare i recinti di sicurezza garantiti dalla forza per abbandonarsi, sulla parola del Signore, alla apparente inaffidabilità della nonviolenza attiva. Non scommettere sulla pace che non provochi sofferenza: è sterile. Il grande teologo protestante Bonhoeffer parlava di “grazia a caro prezzo”. Forse è ora che ci abituiamo a pensare che anche la pace ha dei costi altissimi. I prezzi stracciati destano sospetto. Gli sconti da capogiro inducono a credere che la merce è avariata. Le svendite fuori stagione sanno di ambiguità. E le allettanti offerte sottocosto fanno pensare ai surrogati. La pace non è il premio favoloso di una lotteria che si può vincere col misero prezzo di un solo biglietto. Chi scommette sulla pace deve sborsare in contanti monete di lacrime, di incomprensione e di sangue. La pace è il nuovo martirio a cui oggi la Chiesa viene chiamata. L’arena della prova è lo scenario di questo villaggio globale che rischia di incenerirsi in un olocausto senza precedenti. E come nei primi tempi del cristianesimo i martiri stupirono il mondo per il loro coraggio, così oggi la Chiesa dovrebbe fare ammutolire i potenti della terra per la fierezza con cui, noncurante della persecuzione, annuncia, senza sfumare le finali come nel canto gregoriano, il vangelo della pace e la prassi della nonviolenza. E’ chiaro che se, invece che fare ammutolire i potenti, ammutolisce lei, si renderebbe complice rassegnata di un efferato “crimine di guerra”. Ma, grazie a Dio, stiamo assistendo oggi a una nuova effusione dello Spirito che spinge la Chiesa sui versanti della profezia e le dà l’audacia di sfidare le trame degli oppressori, i sorrisi dei dotti, e le preoccupazioni dei prudenti secondo la carne. Non scommettere sulla pace come “prodotto finito”: scoraggia. La pace è una meta sempre intravista, e mai pienamente raggiunta. La sua corsa si vince sulle tappe intermedie, e mai sull’ultimo traguardo. Esisterà sempre un “gap” tra il sogno cullato e le realizzazioni raggiunte. I labbri delle conquiste non combaceranno mai con quelli dell’utopia, e il “già” non si salderà mai col “non ancora”. Ciò vuol dire che sul terreno della pace non ci sarà mai un fischio finale che chiuda la partita, e bisognerà giocare sempre ulteriori tempi supplementari. Tutto questo può indubbiamente provocare delusioni e stanchezza, creando collassi operativi e crisi da insuccesso. Ma chi è convinto che la pace è un bene la cui interezza si sperimenterà solo nello stadio finale del Regno, troverà nuovi motivi per continuare la corsa anche nella situazione di scacco permanente in cui è tenuto dalla storia. Cristo, nostra Pace, non delude Coraggio, allora! Nonostante questa esperienza frammentata di pace, scommettere su di essa significa scommettere sull’uomo. Anzi, sull’Uomo nuovo. Su Cristo Gesù: egli è la nostra Pace. E lui non delude. Del resto anche lui, finché staremo sulla terra, sarà sempre per noi un Ospite velato. Faremo di lui un’esperienza incompleta, e i suoi passaggi li scorgeremo solo attraverso segni da interpretare e orme da decifrare. Faccia a faccia, così come egli è, lo vedremo solo nei chiarori del Regno di Dio. Allora, come per una arcana dissolvenza, le linee con cui abbiamo tenacemente disegnato la pace quaggiù si ricomporranno nella luce dei suoi occhi e assumeranno finalmente i tratti del suo volto. E la realtà, stavolta, sopravvanzerà il sogno. Ma qui siamo già alle soglie del mistero!

(*) ANTONIO BELLO. Sui sentieri di Isaia, Molfetta, Editrice La Meridiana, 1989, p. 11-21

don TONINO BELLO e LA PACEultima modifica: 2014-01-01T11:32:31+01:00da piero-murineddu
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